‘L’alba di una lunga notte’, il thriller distopico di Alex Mai

Non è un futuro lontano quello immaginato da Alex Mai in L’alba di una lunga notte. È un domani fin troppo vicino: Roma, anno 2036. La città che conosciamo, con le sue piazze, i suoi palazzi e il suo rumore di fondo, resta sullo sfondo, ma è attraversata da una mutazione profonda. Le riforme — legalizzazione di prostituzione, droga, gioco d’azzardo, eutanasia — sono solo la facciata di un sistema in cui il potere ha smesso di essere riconoscibile. Non ha più un volto, ma agisce tramite strutture opache, apparentemente legittime, che lavorano in simbiosi con la criminalità organizzata.
La democrazia è morta, ma nessuno se ne è accorto.
Valerio Romani si risveglia in una clinica senza ricordi del proprio passato. Nella Capitale che porta il suo cognome, la morte è diventata spettacolo e i cittadini votano online per decidere chi deve morire nell’Arena. L’Impero delle Ombre governa attraverso app che sembrano social network ma sono strumenti di controllo totale.
Mentre Valerio cerca disperatamente la verità su se stesso, l’ispettore Anselmo Pagani indaga su omicidi che potrebbero svelare i segreti più oscuri del nuovo regime. Entrambi dovranno affrontare una cospirazione che decide chi ha il diritto di sopravvivere.
“L’Alba di una Lunga Notte” non è solo distopia: è una profezia inquietante su dove stiamo andando. Alex Mai costruisce una Roma del futuro prossimo terribilmente plausibile, dove tecnologia e potere si fondono in un cocktail tossico che trasforma i cittadini in gladiatori inconsapevoli.
Un thriller distopico che unisce l’investigazione urbana alla speculazione politica, perfetto per lettori di Black Mirror e George Orwell che vogliono vedere cosa succede quando il futuro distopico non è più fantascienza, ma cronaca.
Primo volume della saga “L’Impero delle Ombre” – una serie che promette di ridefinire il thriller italiano contemporaneo.

PROLOGO

Roma, via Chiana

Prima domenica di maggio, 2024

Il cortile, ampio e inondato di sole, concedeva qua e là rifugi d’ombra sotto gli alberi. L’aria frizzante di una promessa estiva spingeva un gruppetto di ragazzini a liberare le biciclette dalle catene, gli sguardi fiduciosi rivolti al cielo incerto: plumbeo in direzione della Nomentana, sereno verso la Salaria. Poco distante, il ritmo cadenzato di un pallone calciato da tre ragazzi rompeva la quiete, un’attesa vibrante per la consueta partita pomeridiana a Villa Ada.

Voci si mescolavano, un brusio ora sommesso ora più vivace, tessendo la trama sonora del mattino.

«Monica, è stato un pensiero davvero gentile portarmi questi libri» sussurrò Valerio. I suoi occhi, attratti da quelli scuri della ragazza, faticavano a distogliersi, mentre le mani stringevano i volumi con un’intensità quasi dolorosa.

«Me li avevi chiesti, immaginavo ti avrebbe fatto piacere» replicò lei con un tono più distaccato. Valerio le piaceva, certo, ma non più degli altri volti familiari che animavano le sue giornate tra i banchi di scuola e le strade del quartiere.

Poco lontano, Marco e Chiara trafficavano con i lucchetti delle biciclette.

«Mio fratello dice che siete gialli perché vi pisciate in faccia controvento» esordì lei, la voce tagliente, evitando il contatto visivo. «Quanto è scemo, ha un cervello minuscolo…»

«Tranquilla,» rispose lui con un sorriso che non raggiungeva gli occhi, «ne ho sentite di peggiori e probabilmente ne sentirò altre prima di stasera.»

«Poi, tu hai il nome italiano. Gliel’ho detto, ma lui se ne frega… è ignorante come un… non lo dico! Non sono razzista come lui!»

Marco combatté contro l’istinto di allontanare lo sguardo verso le scarpe, poi fissò gli occhi in quelli di lei.

«Quello non sarebbe razzismo, Chiara. Il colore della pelle non si sceglie, l’ignoranza sì. Se uno vuole davvero imparare, prima o poi ci riesce. Anche se non ha tempo o soldi. Giusto?»

Chiara rimase in silenzio, il tema dei soldi era un tasto dolente. I jeans strappati andavano di moda, ma i suoi erano proprio consumati. Sognava una chitarra, le cui corde aveva imparato ad accarezzare l’anno precedente grazie a un amico.

Senza uno strumento proprio, i progressi che desiderava ardentemente sarebbero rimasti un miraggio, un ostacolo al suo sogno di trasformare la musica in un’ancora di salvezza, un riscatto da quella vita sfilacciata che aveva avuto fin lì. Con un gesto deciso, spinse sul pedale e si lanciò fuori dal cortile, immediatamente seguita da Marco.

«Pagnotte’, allora? Si va al mare?» domandò Anselmo, la voce impaziente.

«Aspetto il Gatto. Non lo vedo da ieri, era con Roberta, chissà in quale anfratto si saranno nascosti. Temo che dovremo lasciarlo perdere. Anche Pallonaro è ormai un fantasma, da quando ha preso a studiare seriamente è sparito dalla circolazione: sembrava lo facesse per dispetto al padre, invece eccolo lì, ansioso di indossare la cravatta come lui! Nadina tra poco scende… e pure Anna, che magari non sarà una bellezza, ma le sue battute ti fanno piegare in due dalle risate. Me le rivendo, ma non riesco a far ridere quanto lei!»

«Eccomi» annunciò Nadina, la sua figura slanciata che compariva sulla soglia. «Però ve lo dico subito, niente mare per me oggi, devo andare a pranzo da…»

«Ancora tua zia?» sbuffò Anselmo. «Sentite, ragazzi, che ne dite di una partita a pallavolo a Villa Ada? Non sarà la stessa cosa della spiaggia, ma almeno ci muoviamo un po’…»

Exit mobile version