L’eredità della fine in Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca, la questione della temporalizzazione e la metafiction

Perché due romanzi pubblicati nella prima metà degli anni Settanta – due opere modernamente enciclopediche, innervate dalla presenza di archetipi epici, monumentali per respiro e dimensioni, interamente postmoderne, anche solo per il periodo in cui cadono – tornano ai fatti della Seconda guerra mondiale e perché, tornando a essi, li narrano in presa diretta a trent’anni di distanza?  Per quanto il dato costituito dalla prossimità cronologica e tematica sembri accomunare il romanzo di Thomas Pynchon, Gravity’s Rainbow (1973), e quello di Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca (1975), solo per un aspetto esteriore e del tutto estraneo al piano testuale-narrativo del romanzo, per quanto possa apparire un fatto accidentale, una fortuita coincidenza, questa analogia, al contrario, si fa portatrice di un segnale decisivo.

Essa rappresenta un indicatore sensibile sia dei nuovi termini con cui viene stabilito il patto mimetico tra storia e codici narrativi, sia del modo in cui gli eventi storici si presentano agli occhi dei loro testimoni, sia del modo in cui l’oggetto storico diventa visibile attraverso le forme di rappresentazione.

La domanda da cui partire è allora tutta qui, racchiusa nella disposizione prospettica dei piani storici che i romanzi di Pynchon e di D’Arrigo incrociano e definiscono, perché è qui che la guerra scava una nuova trincea. Se nell’equilibrio tra riflessione storica e scrittura romanzesca Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca si pongono in linea di continuità con quella “classe” di testi novecenteschi per i quali Linda Hutcheon ha coniato, con una felice intuizione, il termine di historiographic metafiction, le questioni sollevate dalle strategie narrative dei due romanzi si allontanano dal percorso che dà origine alla complessa genealogia del metaromanzo di stampo storiografico.

La posizione che viene data al problema storico in Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca non appartiene all’analisi della conoscenza storica – la sua natura e la sua funzione – ma si colloca nell’articolazione di un doppio livello di temporalità, uno storico e uno narrativo, che i romanzi prendono in carico. E allora analizzare Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca da questo punto di vista vuol dire anche tener conto delle principali strutture storiche novecentesche alla luce di ciò che le determina e le precede e cioè, per dirla con lo storico francese François Hartog, dalla prospettiva della temporalizzazione del tempo.

Al cerchio più interno, quello della struttura romanzesca, ciò che la costruzione narrativa dei due romanzi ci propone – in cui si annida il portato più specifico delle due opere interessa il nodo gordiano romanzo-guerra. Ebbene, la gittata dei nostri due romanzi si misura precisamente nella distanza dalla posizione che i modelli teorici tradizionali, dall’epica rinascimentale al romanzo storico, hanno adottato nell’affrontare questo nesso problematico. L’operazione compiuta da Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca può forse essere efficacemente descritta nella sua radicale diversità ricorrendo alla metafora di Viktor Šklovskij della “mossa del cavallo”.

I romanzi di Pynchon e D’Arrigo saltano le impostazioni precedenti, condotte sull’analisi del rapporto dialettico tra vero e verosimile, e spostano invece la questione su un territorio nuovo, vale a dire sul piano sincronico-diacronico: la guerra è sollevata dall’orizzonte contingente dell’ordine cronologico, il romanzo trasformato in una macchina di produzione della temporalità.

Per contestualizzare il primo polo del discorso, che vede la guerra come variante ineludibile nella determinazione dell’esperienza del tempo nella modernità, bisogna partire da lontano. La Rivoluzione francese, agli occhi di molti storici e filosofi, rappresenta l’evento in cui giunge a compimento quella trasformazione che sposta l’asse temporale al di fuori del millenarismo in cui si integravano chiesa, impero e storia del mondo. È con l’apertura di una problematica interamente temporale degli eventi storici operata dalla Rivoluzione francese che diviene possibile accedere all’orizzonte del “nuovo” creato dalla comparsa del futuro, una dimensione non riducibile ai rapporti tra il presente e il passato né deducibile da essi.

La mutata consapevolezza storica che si sviluppa a partire dalla fine del Settecento, e che permette alle nuove filosofie della storia di germogliare, consente anche al romanzo di accedere alla storia adottandone le qualità temporali e non più solo di ricorrere agli eventi storici
per ridurli a parete di fondo su cui proiettare una narrazione sostanzialmente astorica. A essere coinvolte nel processo di trasformazione sono, in particolare, le forme tradizionali con cui il contenuto storico viene organizzato.

Se, nel corso del XIX secolo, la Rivoluzione francese e le Guerre napoleoniche hanno svolto questo ruolo, nel corso del XX secolo le due guerre mondiali provocano una nuova e diversa reazione. Potremmo dunque dire che un evento rivoluzionario apre alla storia e un evento bellico la chiude. Quando, all’inizio degli anni Venti, lo storico Ernst Troeltsch riflette sulla crisi dell’analisi storiografica,
riconosce che appaiono assolti dalla storia i compiti che le erano stati attribuiti nel corso del XIX secolo: liberare il campo dell’esperienza umana dai residui dell’unità ecclesiastico-clericale, fare da contrappeso allo spirito razionalistico rivoluzionario, contribuire ai processi di nascita degli stati costituzionali.

Commentando la crisi dello storicismo all’inizio del Novecento, Troeltsch individua nella Grande guerra il momento in cui viene distrutta ogni unità di misura e ogni forma con cui immaginare l’insieme dello sviluppo umano. La scomparsa del modello storiografico a cui fa riferimento lo storico tedesco non è senza conseguenze, essa lascia un vuoto (o, se vogliamo, apre a uno spazio nuovo) che nei percorsi più vicini al nostro tema verrà preso dalle teorie post-storiche di Alexandre Kojève sulla fine della storia e di Michel Foucault sulla morte
dell’uomo.

La rielaborazione delle unità spaziali e temporali operata in Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca marca una soglia di passaggio nelle teorie del tempo storico novecentesche. La dimensione temporale della Seconda guerra mondiale travalica il suo momento storico, non è “al tempo della Seconda guerra mondiale”, non è coniugata al passato perché non appartiene a esso. Il passato bellico allora non è ciò su cui il tempo poggia la propria polvere ma è un campo d’azione che agisce nella dimensione del presente: è uno strato, un livello del tempo che opera in simultanea al presente degli anni Settanta in cui è narrato.

Questo, se da un lato rivela che siamo in presenza di un tempo storico dalla superficie porosa e dall’andamento frammentario che Ernst Bloch ha chiamato “contemporaneità del non-contemporaneo”, ovvero di un livello di temporalizzazione caratterizzato dalla dialettica a multipli livelli insita nel procedere del tempo storico, dall’altro rivela l’aporia da cui emergono in superficie le incrinature dei paradigmi fondativi della storia prodotte dal trauma della guerra sulla cultura novecentesca. Il presente multidimensionale di Bloch, concepito
estendendo al moto temporale il modello spaziale mutevole, soggetto alle torsioni tipiche della geometria differenziale affrontate da Bernhard Riemann, si sviluppa nell’aura del moderno nel significato che vi attribuisce Reinhardt Koselleck, allorché nuovi paradigmi interpretativi del tempo modificano le tradizionali relazioni con il passato e attribuiscono al futuro il proprio orizzonte privilegiato.

La posizione sostenuta da Bloch non fa eccezione a questo modello se non nel conferire alla dimensione del futuro il valore di ipostasi utopica. Ora, però, Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca agiscono dinnanzi a un’ulteriore variante, rappresentata dalla soglia postmoderna. Qual è, allora, l’eredità che il dettato storico può offrire se esso accoglie il passato non più come simulacro, crisalide inattiva, spazio depotenziato, e allo stesso tempo annulla la dimensione di profondità del futuro?

Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca si trovano ad affrontare una temporalità cadenzata da un presente di lunga durata, nel cui campo gravitazionale cadono futuro e passato, e un problema di rappresentabilità, di mimesi storica.

In entrambi i casi il campo d’azione privilegiato resta quello della temporalità che si colloca, questa volta, nella temporalizzazione del tempo interna ai romanzi. Qui l’arma di rappresaglia nazista, il razzo V-2 progettato per viaggiare a una velocità superiore a quella del suono, e l’orca, il mostro mitico, immagine ancestrale della morte immortale che emerge dalle profondità marine dello stretto di Scilla e Cariddi, scandiscono l’inversione della serie logica e temporale del prima e del poi, della causa e dell’effetto, e lo straviamento – per usare
una parola darrighiana – dell’ethos dalle fondamenta su cui poggiano intere comunità e per sineddoche quella cariddota.

I romanzi allora trasferiscono il problema della rappresentabilità della guerra dal piano della rappresentazione diretta a quello indiretto dell’identificazione della microfisica della guerra negli spazi identitari, individuali e collettivi, e negli spazi simbolico-rituali. Se è vera
l’osservazione di Northrop Frye, secondo cui la guerra appartiene al mondo demoniaco, quella di Paul Fussell, che intende la guerra moderna, seppure industrializzata e tecnicizzata, produttrice di leggende riconducibili a mentalità arcaiche, e quella di Eric Leed che ricostruisce la percezione della guerra attraverso i miti generati sui campi di battaglia, allora dovremo ipotizzare che Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca recuperino attraverso le figure del missile e dell’orca gli elementi caratteristici della rappresentazione degli dei morenti e
dei sacrifici rituali. I due romanzi, però, non si collocano nella posizione della fine apocalittica.

Si dispongono invece nel tempo dell’“ora”, opposto al principio strutturante della fine e vicino alle pulsazioni del tempo messianico, del
tempo che resta tra l’azionamento della bomba e la sua esplosione, tra l’apparizione dell’animale mitico e la sua morte. La temporalità messianica della sospensione scandita dalle immagini totemiche del razzo V-2 e dell’orca conduce alla scoperta di una società postuma che guarda se stessa come il vuoto involucro di qualcosa che è già accaduto.

La fine, come cosa già avvenuta, diventa così l’eredità che si è avuta in sorte, secondo una logica temporale assimilabile allo schema retorico dell’hysteron proteron, figura ermeneutica cardinale di queste narrazioni post-storiche, espressione della vittoria della sincronia sulla diacronia, della simultaneità sul percorso lineare, della discontinuità del presente sulla dinamica futuro-passato. E allora di che si parlerà in questo libro?

L’eredità della fine affronterà le questioni della temporalità e dei livelli, antagonisti, di tempo storico e tempo cronologico identificate ed espresse dai romanzi di Thomas Pynchon e Stefano D’Arrigo. Ne discuterà affidandosi alla complessa rete di rimandi e richiami desunta dalla struttura narrativa dei due romanzi che attingono ai topoi della cultura classica e rinascimentale – il nostos, la nekyia e il quest –, alla forza mitopoietica dei cantari cavallereschi e del cinema, all’organizzazione simbolica contenuta nel pensiero mitico, ai codici tipologici culturali, sia tribali che comunitari, presenti nelle dimensioni magiche e arcaiche.

Ma cosa accade alla narrativa che assume la prospettiva postuma dell’eredità della fine, della fine del futuro?

 

Fonte

Thomas Pynchon e la logica omologante del paesaggio postmoderno dominato dal mercato

Nei loro romanzi Thomas Pynchon e Don DeLillo descrivono soprattutto il paesaggio storico-culturale che si è profilato all’orizzonte a partire dal secondo dopoguerra. Una realtà, questa, per la quale gli studiosi adottano il termine “postmoderno”, e che Fredric Jameson legge come un prodotto della logica culturale del capitalismo avanzato. Il critico statunitense, infatti, vede il paesaggio storico, economico e culturale della postmodernità completamente dominato dal mercato.

Nei romanzi di Pynchon e DeLillo, lo spazio viene eletto a osservatorio privilegiato della postmodernità. Al contrario della spoglia (in senso culturale) wilderness che incontrarono i Pilgrim Fathers, questo spazio postmoderno si configura come già del tutto ‘testualizzato’, una foresta di segni talmente fitta da impedire, paradossalmente, ogni autentica comunicazione. Le opere di entrambi gli autori descrivono la nuova entropia prodotta dalla sovrabbondanza di immagini, codici ed istituzioni burocratiche che ricoprono lo spazio postmoderno trasformandolo in una linguistic wilderness.

Un paesaggio dominato dal mercato, però, mal si concilia con la concezione mitico-simbolica dello spazio americano come luogo di salvezza e di autoaffermazione. Un’idea che, come ben rileva Alan Bilton, non ha mai abbandonato gli scrittori americani: «The wilderness has always functioned in American literature as a trope of possibility or salvation, liberation from a corrupt and mercantile civilisation; even with nature tamed and the wilderness crisscrossed by freeways and shoppingmalls, this motif still doesn’t finished with».

Forse è questo motivo a spingerli sovente verso la creazione di controspazi finzionali capaci di contrastare, almeno sul piano simbolico, la logica omologante del paesaggio postmoderno. Questo perché, «with the closing of the frontier, and the effective absorption of the wilderness space by civilization, American writers were forced to restructure imaginatively their country». In mancanza ormai di uno spazio geografico e psichico che non sia già stato cooptato dal mercato globale, uno scrittore è costretto a ritagliarsi «some kind of fictive (rather than literal) space uncontaminated by the dominant logic of endless replication», quasi un «redemptive space» in cui rifugiarsi lontano dal Sistema, come Pynchon battezza il complesso militare-industriale in Gravity’s Rainbow.

Egli stesso reagisce attraverso la fabulazione e l’invenzione romanzesca, costruendo contro-spazi e contro narrazioni dove trionfano il sogno, il favolistico, il miracoloso, l’improbabile, e dove i parametri scientifici basati sul determinismo e la logica causale vengono contraddetti. Questi luoghi rappresentano non già una consolatoria fuga dalla realtà né, come talvolta sostengono i detrattori della narrativa postmoderna, uno sterile ripiegamento nichilista, quanto piuttosto un antidoto creativo contro la piattezza del paesaggio culturale partorito dal tardo capitalismo.

A costituire il principale oggetto dell’analisi critica non sono tanto i tratti costitutivi dello spazio postmoderno quanto le strategie narrative attuate per descriverlo. Né va dimenticato che nel romanzo postmoderno lo spazio del paesaggio reale e quello della finzione rivelano un inedito rapporto di interdipendenza, rispecchiandosi l’uno nell’altro. Gli spazi, cioè, vengono costruiti sul piano retorico da una scrittura che ne riflette i contorni, ovvero ne mima le aporie, proponendosi come il loro corrispettivo retorico-narrativo. Tuttavia, è sempre attraverso la rappresentazione dello spazio che Pynchon e DeLillo pongono in essere un lucido progetto di critica alla storia nazionale e alla società americana contemporanea.

Nelle sue opere Thomas Pynchon rappresenta la postmodernità soprattutto come un eccesso di segni, scorgendone addirittura le prime tracce nel periodo appena precedente la Dichiarazione d’Indipendenza americana. Una tesi, questa, che l’autore sembra voler dimostrare nel penultimo romanzo, Mason & Dixon (1997), dove si narra delle spedizioni condotte da due scienziati inglesi per conto della Corona. La «wilderness of uncertainty» che gli astronomi e cartografi Mason e Dixon, nelle scomode vesti di «agents of Reason», affrontano spingendosi verso Ovest nell’America degli anni Sessanta del Settecento, armati di bussola e di fede nella scienza diviene, attraverso la sua rilettura, un territorio al tempo stesso geografico e concettuale. Nel periodo coloniale in cui è ambientata l’opera, tale wilderness si configura ancora come uno spazio culturalmente vuoto, «a region without a map», di cui la civiltà si appropria riempiendolo di segni culturali, sovrascrivendoli a quelli già presenti sul paesaggio naturale, allo scopo di esercitare un controllo tanto fisico quanto simbolico sul territorio.

Ma se dapprima il luogo incarna una moderna utopia, uno spazio geografico e psichico nel quale cominciare una nuova vita, il narratore ci rende immediatamente avvertiti di come già siano attive le forze storiche che convertiranno il cronotopo della strada aperta in quello borgesiano del labirinto. Infatti, come ci ricorda Tony Tanner, è proprio durante gli anni precedenti la Rivoluzione americana che «the fences were going up, and the straight road to the west gradually obliterating the ‘chances of diversity’ has begun». Ecco perché, a suo dire, Mason & Dixon rappresenta «a celebration of America as a last realm of the Subjunctive, and an elegiac lament for the accelerating erosion of that subjunctivity». Insomma, già nella linea divisoria che gli astronomi Mason e Dixon tracciano tra il Maryland e la Pennsylvania nel periodo che precede di poco la Dichiarazione d’Indipendenza, Pynchon vede i prodromi di ciò che sarebbe diventato due secoli più tardi il paesaggio americano: uno spazio apparentemente aperto e polifonico, ma in realtà governato da un mercato che rappresenta il discorso dominante.

 

Fonte: http://www.fedoa.unina.it/1753/1/Paravizzini_Filologia_Moderna.pdf

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