Julius Evola, filosofo controcorrente e dadaista, Leopardi, Nietzsche, Šestov e l’equivoco della trascendenza senza riferimento teologico

La passione di Julius Evola (Rivolta contro il mondo moderno, Cavalcare la tigre, Teoria dell’individuo assoluto, La dottrina del risveglio, Gli uomini e le rovine, La metafisica del sesso, Lo Stato organico) per Nietzsche e Guénon, i suoi due pilastri, lo condurrà a un’inevitabile epilogo: a interpretare e perdere il primo alla luce del pensiero del secondo, con colui che Cioran definirà un maniaco dell’intelligenza, l’alfiere dell’Intellettualità pura. Evola guénonizzerà Nietzsche. I suoi commentatori lo riterranno uno dei suoi maggiori meriti: quello di aver liberato Nietzsche dal suo soggettivismo, e da ogni forma di naturalismo. In realtà è la gramigna di Evola, l’origine di uno dei suoi limiti fondamentali, il suo peccato originale, che farà da sfondo variamente sfumato a tutto il suo opus magnum: alla sua sterile nozione di trascendenza, ch’egli chiamerà auto-trascendimento ascendente, contrapposto a quello discendente, inferiore di stampo naturalistico; tutte definizioni che furono significativamente dedotte da A. Huxley e Jean Wahl, a loro volta gravati da un saldo impianto dialettico di fondo.

In particolare, Wahl, massimo studioso e specialista accademico di Kierkegaard, dava chiaramente una lettura dialettizzante di quest’ultimo, o una lettura sfumata in dialettica negativa e, ciò che è peggio, viziata dal drappo grigio della probità critica tipico dell’Accademia – Lev Šestov, molto significativamente, stigmatizzava questo aspetto deteriore di Wahl, la sua lettura universitaria del filosofo danese, che si rivelava una mera razionalizzazione dell’Autore; una particolare ristrettezza critica di cui Wahl darà prova, tra l’altro, nel momento in cui sbeffeggerà il tragico delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, che definiva semplici bambinate.

La trascendenza secondo Evola: l’empiria ha un ruolo fondamentale

Il concetto di trascendenza, in Evola pensatore poliedrico di nobili origini siciliane (scrittore, poeta, pittore, esoterista, filosofo), malgrado le mille sottigliezze teoriche, non differisce mai, per ciò che più conta, da un sovrannaturalismo di natura speculativa, da una qualsiasi ascesi dalla vita, aliena da quella autentica forma di trascendenza che contempla una profonda osmosi tra fisiologia, psicologia e il metafisico, dove l’empiria ha un ruolo fondante. Evola perde la vivificante alleanza tra biologia e gnosi, l’unica in grado di cogliere adeguatamente la fisiologia dei fenomeni del mondo e della vita umana – l’elemento irrazionale, la vita –, sottraendo la fisiologia all’equazione. Da questo punto di vista, il suo neo-idealismo non si distingue in niente da ogni forma d’idealismo a buon mercato. Il suo concetto di trascendenza è sterile, poiché si rivela solo una difesa contro quella vita non sublimata a priori dalla lunga catena degli eroi della mente, contro tutto ciò che è pre-umano, commettendo così lo stesso paradossale errore che l’esistenzialista Heidegger commetterà con la sua Ontologia anti-biologistica: è la contraddizione, tutta intellettualistica, di chi tematizza e ricerca un’autentica nozione di esistenza e, allo stesso tempo, la pastorizza dal suo fondo naturalistico. Non è forse stato Bataille a sostenere, con una nota negativa, che l’animale è il nostro più intimo rimosso?

Evola rigetta l’idea naturalistica dal suo schema filosofico (notate bene, perché è un errore fondamentale: un naturalismo ch’egli sembra appiattire in un biologismo razionalista di stampo scientista e materialista), la Natura, l’empiria, rimanendo impigliato nello speculativo di stampo idealistico, ipotecando il neo-idealismo contro la superstizione della vita meramente animale, istintiva, pre-personale, mero corpo e natura; in una fondamentale circoscrizione idealistica, Spiritualista, di ogni evento. Alla natura mancherebbe la luce dello Spirito, e se lo Spirito non è la Vita, e la Vita non è lo Spirito, è comunque lo Spirito a dare forma alla Vita!

L’individuo secondo Evola si emancipa dalla natura

Il suo concetto d’individuo, di persona definisce semplicemente colui che si emancipa dalla natura, dalla biologia, dal naturalismo, dagli aspetti inferiori della natura umana; l’individualità è sempre epurata dalla sua fonte impura, materiale, e ricondotta in qualcosa di superiore alla mera vita del caso evolutivo. La trascendenza confinerà con il mondo solo idealmente, spiritualmente, per contemplare ciò che si proietta oltre la psicologia depurata dal bios. Il superamento dei limiti cognitivi, delle categorie meramente filosofiche (moderne) dell’esperienza, attraverso la magia, si rivelerà un idealismo magico in cui l’individuo è una sorta di monarca ermetico a carattere eminentemente gnoseologico, e dunque intellettuale; è un nonsense intellettualistico, un circolo vizioso. Non si comunica mai realmente con il non conoscitivo, con l’intransitivo. L’unica differenza reale che Evola instaura, è il passaggio da un materialismo razionalista, immanentista, tipico della modernità, a uno spiritualismo che, se ripudia l’immanentismo scientista-razionalista-materialista, è però sempre debitore di una fondamentale circoscrizione dei fenomeni del mondo e della vita umana da parte della ragione, una ragione magica, questa volta: l’idealismo magico.

Il filosofo e il suo “nichilismo attivo”

Il nichilismo attivo di Evola, il suo esistenzialismo positivo, la sua etica post-nihilistica, al fine di superare il moderno nichilismo europeo, collocherà Nietzsche in un quadro di riferimento che trascende l’idea naturalistica della vita – la vita come immanenza – dello stesso filosofo tedesco; oltre ciò che Evola considerava l’aspetto deteriore e inconsistente di Nietzsche, il suo limite più evidente. Nietzsche, al pari di Leopardi, nell’evocare la trascendenza, la collegava intimamente all’immanenza, al naturalismo, alla vita e non a un principio superiore ad essa. Quella di Evola è ancora una volta trascendenza = ascesi dalla vita; egli non auspica la vita, ma un più che vita, qualcosa di superiore, contro Nietzsche. Il problema fondamentale di Nietzsche, secondo Evola, è infatti che in lui vita e trascendenza sono continuamente intrecciate. Per superarlo, Evola postulerà il passaggio dal piano di Dioniso a quello di una spiritualità superiore, apollinea, olimpica, in cui il vero senso misterico di Dioniso si riduce a un paradossale e sterile apollineo-dionisiaco, a una sorta di Spiritualismo stoico, eroico e virile:
il coesistere di un distacco con l’esistenza pienamente vissuto… un genere intellettualizzato e magnetico di ebbrezza, completamente opposto [sic!] a quella che deriva dall’apertura estatica al mondo delle forze elementari, dell’istinto e della natura.
(J. Evola, Cavalcare la tigre, p. 67)

L’oggettività del reale è negata e risolta, paradossalmente, in una coscienza che viene concretizzata in un’individualità idealizzata, eroica e virile. È il particolare senso deteriore conferito da Evola al metafisico, che in realtà, se inteso correttamente, non abbandona la materia: il metafisico contempla l’irrazionale, l’empiria, e vi attinge, come per osmosi, mentre la metafisica di stampo speculativo, fugge dalla materia, per vegetare nell’uomo (lo “Spirito”) come sola riposta all’uomo – non l’uomo prosaico, urbano, moderno, bensì l’uomo dell’idealismo magico: sono due forme diverse di profilassi, ma sempre di profilassi trattasi.

L’idealismo magico, la razionalizzazione e la soggettività

All’istanza posta dall’idealismo – assorbire tutto l’essere nel pensiero, in modo tale che il reale non sussista indipendente ma solo nella coscienza – si aggiunge volontaristicamente la magia, una sorta di concessione anagogica, per superare la sostanza astratta, intellettualistica di questo stesso idealismo, che lo rendeva solo un’entità di conoscenza razionale, qualcosa di ancora troppo prosaico, moderno, immanente: solo “Lettere, Filosofia e Pensiero”. È un guazzabuglio intellettualistico tra esoterismo e filosofia: il primo amplierebbe gli orizzonti della Filosofia, mentre questa, a sua volta, si imporrebbe al fine di sistematizzare e razionalizzare i contenuti dell’esoterismo!

Il pensiero sulla magia sembra ridursi a rendere magica la Filosofia mantenendo salda l’essenza, e il dominio, di quest’ultima. L’autentica soggettività, la singolarità – quella che Evola in alcuni occasioni stigmatizzerà come un: dogmatico, quanto arbitrario, divagare soggettivo – va perduta. Tutto sembrerebbe assimilabile nella rappresentazione dell’idealismo magico: dalla coscienza che si proietta al di sopra della laida materia. Questo nonostante Evola critichi l’intero idealismo svoltosi da Kant in poi, la sua fuga dal mondo, la sua catarsi dal reale nel vuoto universale di un concetto, l’idealismo di un immaginario Soggetto trascendentale, contrapponendogli un particolarissimo personalismo che ci spingerebbe oltre l’idealismo attraverso la concretezza esistenziale del tantrismo indù:
Vedendo nella forza l’essenza di ogni realtà, i Tantra rigettano i metodi puramente intellettuali, conoscitivi e devozionali propri ad altre scuole, tendono ad incentrarsi nel principio più profondo, partendo dal quale vogliono dominare sia la vita che la realtà fisica.
(in L’uomo come potenza).
È una fiction gnoseologica, quella di Evola, un brainfart intellettuale, che può sedurre unicamente personalità affini o ricercatori e accademici che riflettono sulla vita più che viverla. Metanoia per personalità infatuate dall’esoterismo.

La critica all’idealismo kantiano

È una critica essenziale all’idealismo, che rimane comunque immanente all’idealismo – a un idealismo trascendentale post-kantiano – che pretende di conservare, tuttavia, a differenza dei post-kantiani, un fondo non-filosofico, prerazionale; benché questi sia, in ultima istanza, un fondo irrazionale posticcio, spirituale, astratto, un irrazionalismo neo-idealistico controllato, un ambito eroico-magico appannaggio di una élite dominatrice della Scienza Sacra, l’Io magico etc. Sotto questo aspetto, è una realtà non molto dissimile dal surrealismo, dal suo sfruttamento razionale dell’irrazionale, benché trasfigurato da Evola su un piano spirituale. È, tra l’altro, il passaggio da un idealismo oggettivo a una sorta d’idealismo soggettivo (vi sono alcuni punti in comune con lo schema dell’idealismo del romanticismo tedesco), epurato, tuttavia, dal soggettivo empirico, inferiore, e dunque, paradossalmente, della singolarità più autentica, effettiva: la soggettività è promossa ma allo stesso tempo neutralizzata nell’idealismo magico.
Evola, da qualche parte:
là dove dalla ganga dei semplici lirismi, si liberano illuminativamente brividi di sensazioni oggettive, soprannaturali e irriducibili a meri parti poetici.

Il paradosso è qui: è una falsa soggettività che si impone come compito quello di annientare la vera soggettività, di pastorizzarla. L’individuo di Evola trascende l’immanenza per approdare una libertà da quel se stessi determinato dalla biologia e dalla psicologia che, sotto forma di carattere personale o di inclinazioni, non rappresenterebbero altro che ancora mera natura! È un extra-filosofico che non va in direzione della vita, ma, al contrario, in direzione dell’ascesi, dello Spiritualismo, anche se di natura virile. È a questa ipoteca che la volontà viene legata, a un paradosso razionale artificialmente circonfuso di anagogico e di esoterismo.

Se vengono effettivamente superate alcune delle rigidità dello spiritualismo classico, come anche dell’idealismo classico (egli spinge infatti l’idealismo a radicalizzare il principio astratto dell’Io come atto puro e a trasformarlo in “individuo assoluto”, in volontà effettiva di dominare l’essere e risolverlo in sé, in un principio concreto di autodeterminazione – forse una delle vere discriminanti tra l’idealismo classico e il neo-idealismo di Evola), contrariamente a quanto si crede, l’apparato Filosofico (l’uomo come sola risposta all’uomo), qui, non è semplicemente accessorio, parallelo o simultaneo alla vocazione magica, malgrado le stesse parole di Evola al riguardo (quando sostiene la superiorità del mito, della leggenda, della saga su ogni materiale giudicato meramente dal punto di vista “storico” e “scientifico”).
La trascendenza, il sovrannaturale, in questo quadro, mancano dell’alleanza tra biologia e gnosi. Il sovrarazionale è solo un inveramento spiritualistico, magico, del razionale, dall’alto. E non è un caso che Evola parli di sovra, poiché rifiuta apertamente di confrontarsi realmente con le forze “selvagge” del reale, quelle “basse”, “sub-razionali”, “pre-personali”. Lo stesso errore lo commetterà Papini in altro ambito (ricordo ai lettori che il suo Il crepuscolo dei filosofi fu solo un exploit giovanile, che ben presto egli rinnegò), quando, pur amando Leopardi, si allontanerà dal suo radicalismo irrazionale, dal suo radicale materialismo che non manca di affondare le sue radici nel metafisico (non ho detto metafisica), proponendo una “meta-filosofia”, innestando sull’ultra-filosofia del recanatese il fondo speculativo del suo cattolicesimo (di Papini) – il prefisso “meta” nel nuovo conio non è casuale.

Papini, Leopardi ed Evola

Giovanni Papini nell’illustrazione di Domenico Di Francia per “Il Bestiario degli italiani” numero 0
Leopardi, al contrario, parlava significativamente di ultra–filosofia, di qualcosa che si proietta oltre, non sopra, di una empiria parallela al metafisico, e non di una “meta-filosofia”, dove l’estrema concretezza del tragico è silenziata e sublimata, come accade nella filosofia cattolica di stampo speculativo. Si possono fare mille distinzioni, ma ciò che indica la strategia di Papini, come quella di Evola e tanti altri, è una sofisticata fuga dal reale, per rinchiudersi nel grande colombario dei concetti – il cimitero dell’intuizioni, come scriverà Nietzsche in Su verità e menzogna in senso extramorale.

Evola è sempre concettuale, cambia solo il territorio di applicazione – egli spinge semplicemente lo schematismo del concetto oltre la modernità razionale del materialismo scientista e immanentista; ma la sua pars construens non è migliore di ciò che combatte. Le sue tesi sono in buona parte condivisibili in ciò che nega, ma non in ciò che afferma. Questo genere di posizione supera indubbiamente quell’antropologia umanista che indugia in una conquista materiale (scientista, immanentista) del mondo, tipica di quel mondo moderno che Evola critica, per superarla con un’altra antropologia, che supera questo stesso umanismo deteriore dall’alto, con una prospettiva anti-biologistica; esattamente come accade con l’Ontologia heideggeriana, che paradossalmente si risolve in una trascendenza antiumana – in una trascendenza estranea alle cristallizzazioni passionali o di esperienza volgare, direbbe Evola che, su questo punto, coincide con la posizione del filosofo tedesco.

È significativo che questi siano gli anni in cui Evola rifiuta il concetto d’ispirazione, in quanto, secondo lui, una passione vissuta e non agita, governata a piacimento, in una pura autoreferenzialità della forma (formalismo), sarebbe un male. Ci viene giustamente detto che l’uomo non è un semplice mezzo cui manca ogni creatività, eppure, accanto a una concezione attiva e non meramente passiva della figura dell’artista, non gli viene mai affiancata anche la concezione del genio come ispirazione, medium e riflesso di forze estranee che lo avvolgono, il spiritus ubi vult spirat. Semplicemente, si esclude quest’ultima opzione.

Lo Spiritualismo di Evola, il suo idealismo magico legato a una visione non-naturalistica e non umana (contrapposta alle bassezze dell’umano), è una volontà che non sembra mai coincidere con la spontaneità, ma con un certo intellettualismo spiritualista, che lo stesso Evola vede come un aspetto positivo dell’arte; anzi, è questa volontà intellettualistica a prevalere sulla spontaneità. Intelligenza e volontà versus istinto e intuizione. Evola parteggia sempre per la prima coppia, e se critica la scienza positiva (materialista ed empirista) e la morale autonoma (borghese) nata dalla moderna Zivilisation come sintomi di décadence (in sostanza, la falsa conquista materiale del mondo da parte del mondo moderno – ecco l’unica vera distinzione), ciò accade per sostituirla con la concreta conquista Spiritualista del mondo, in cui la libertà assoluta nega il reale a favore di un Io superiore all’empiria, pura coscenzialità. Il concepito, il pensato, l’intelligibile – il regno del concetto – che vengono inclusi, trasfusi ed elevati, con una sterile e fredda ingegneria metallica, nello Spiritualismo magico del particolarissimo idealismo di Evola.

La libertà assoluta

Quando Evola parla di libertà assoluta, persona assoluta, del libero arbitrio, del magico, del peccato originale, dell’Albero della Vita, della volontà, della potenza, dell’al di là del bene e del male – queste categorie vanno sempre inserite nel suo impianto idealistico, sebbene riformato sia rispetto all’idealismo classico sia rispetto allo spiritualismo classico. La sua è un’alchemica trasmutazione, un’ascesi, non più di segno passivo per l’individuo, come accade in gran parte le filosofie e le religioni dell’ascesi, ma un’ascesi virile, individuale e attiva: una volontà di potenza ascetica o, se vogliamo, una volontà di conoscenza potente, virile. È in questo contesto che si inserisce la vocazione esistenzialistica.

La trascendenza è sempre in funzione dell’alto e dall’alto – da qui anche il concetto di Tradizione, dove il tragico non ha davvero posto nell’avventura spirituale. È un’intelligenza del reale storbidata (Evola dixit) dalle passioni della soggettività empirica e transitoria, liberata dai veli della sua morale umanistica secondo un principio non patetico o polemico e quasi eidetico (questa parola è significativa, poiché rinvia a un chiaro processo di astrazione, che sia definito – e distinto in – “intellettuale” o “spirituale”, poco importa). La verità non è interpretata in funzione della vita, in quanto il pregiudizio della vita (come accade in Nietzsche) sarebbe solo il limite di idee naturalistiche ed evoluzionistiche o biologistiche, una semplice immanenza, secondo le parole dello stesso Evola. La trascendenza non è interpretata in funzione della vita, al contrario, si guarda alla vita in funzione della trascendenza, dell’ascesi. L’Essere sarebbe cosi reazione alla vita, l’Essere che “non può procedere dalla vita stessa” (Evola).

Il neo-umanesimo ricorretto di Evola

Quello di Evola è un neo-umanesimo ricorretto. Se nell’umanesimo moderno – dove dominano le scienze positive o naturali, la tecnica, l’industrialismo e il materialismo, l’appiattimento sulla standardizzazione, il prevalere della quantità sulla qualità, del collettivismo e dell’egualitarismo etc. – gli aspetti sacri, metafisici, i contenuti simbolici evocatori non-umani vengono per lo più ignorati, Evola, al contrario, li evoca, ma per trasfigurarli, paradossalmente, in mera dialettica alchemica (quale sia la “sintesi”, lo si intuisce in tutto ciò che egli propone con la sua pars construens, con il suo lato “positivo” e “spirituale”); e benché il suo neo-umanesimo Spiritualista, aristocratico superi il neo-umanesimo della sua epoca, in quanto quest’ultimo reagiva alla deriva scientifica e tecnica della modernità contrapponendogli semplicemente “le Lettere, la Filosofia e il Pensiero”, come lo stesso Evola noterà, quest’ultimo non esce dalla contraddizione che qui, in lungo e in largo, andiamo chiarendo; egli dà semplicemente luogo a una sostituzione epistemica che passa dalle semplici e prosaiche (ancora troppo inferiori, moderne, urbane, umane troppo umane, un “intellettualismo” troppo immanente) “Lettere, Filosofia e Pensiero”, a un ambito che privilegi lo spirituale, il magico, il sacro etc. Evola vuole semplicemente trasfigurare l’intellettualismo moderno in spiritualismo, in un’atletica spirituale virile (notate bene: questa è l’unica vera distinzione tra l’idealismo classico e il neo-idealismo magico di Evola). Ma il senso dell’astrazione non cambia.

Come ha giustamente notato Marcello Veneziani, Evola è stato, da filosofo, il teorico che forse più ha interpretato i fondali della società contemporanea: il suo Individuo Assoluto è in fondo la gigantografia della condizione contemporanea, dei giovani soprattutto. La solitudine, l’anarchia e l’autarchia di fondo del suo pensiero sono insieme la più forte rappresentazione dell’individuo occidentale d’oggi e insieme la più grande smentita del suo stesso tradizionalismo. Anche i ragazzi incomunicanti e solitari, barricati in un altro Mondo onirico e irreale, come Second Life, sono piccoli individui assoluti connessi a virtuali tradizioni.

«Ho dovuto aprirmi da solo la via… Quasi come un disperso ho dovuto cercare di riconnettermi con i miei propri mezzi ad un esercito allontanatosi, spesso attraversando terre infide e perigliose» (J. Evola)

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

Giuseppe Ungaretti: ragioni di una poesia

Giuseppe Ungaretti, come ogni vero poeta che si rispetti, riflette sui problemi dell’espressione poetica e dello stile come dimostrano alcune sue annotazioni uscite sulla rivista “La Ronda” nel 1922. Il poeta ermetico parte da un saggio di Jacques Rivière su Dostoevskij in cui si afferma che “gli abissi umani sono perlustrabili”. Rivière opponeva all’opera dello scrittore russo, l’arte francese, l’arte del romanzo francese, il metodo occidentale d’analisi psicologica. L’errore di Revière, secondo Giuseppe Ungaretti, era di credere che l’opera del grande scrittore russo potesse trasporsi in problemi di metodo, di analisi, di psicologia, generando in questo modo un buon romanzo di tipo francese. Dice il poeta:

“Se il buio non è un buio materiale delle cose, non la notte passeggera, non un effetto di fumo o di nebbia […] ed è invece un buio dello spirito all’ultimo limite, come si farà a infrangerlo con le ridicole violenze e i lucignoli delle povere invenzioni nostre, quelle comprese della buona marca scientifica vantata da Rivière? Se Dostoevskij fosse stato francese, sarebbe stato tutt’al più uno Zola […]. Rileggiamo Dostoevskij. Vi concontriamo una turba, ma è sempre la stessa persona che gira su se stessa, e il suo moltiplicarsi è derivato dalla vertigine del suo giro. Vano a Dostoevskij, e a chiunque, qualsiasi tentativo di definire logicamente  tale fantasma facendogli assumere, comunque, un atteggiamento di controllo verso le circostanze”.

Giuseppe Ungaretti sa bene che per l’essere umano tutto poggia sempre su un fattore oscuro che non siamo in grado di misurare affinché possiamo fare chiarezza, anche se volessimo interpellare le “luci” proustiane o freudiane. Dobbiamo imparare a convivere con il mistero che è in noi, senza mai dimerticarcene e dè per questo che secondo il poeta l’arte per noi avrà sempre un fondamento di predestinazione e di naturalezza, ma, allo stesso tempo, anche razionale. Ma, come dice il poeta, trovata la via della logica, un ciottolino può diventare un macigno o viceversa: è questa la nostra possibilità di portare la realtà, scoprendone la poesia e la verità? Questo è uno degli effetti della metamorfosi della nostra mente. Che sia questo l’unico potere magico dell’uomo? Per cui la parola ci riconduce, nella sua origine oscura, al mistero? Questa è l’arte greco-latina, di prosa e di poesia, questa è la nostra civiltà; da millenni.

Nel 1930, sulla <<Gazzetta del Popolo>>, Ungaretti afferma:

“Pensavo alla memoria, e non potevo non essere ingiusto col sogno. In verità non era ingiustizia; ma la persuasione, che stava maturandosi in me, che la poesia italiana non fiorisce se non in uno stato di perfetta lucidià: tecnica, sensazioni, logica, sogno o fantasia e sentimento: tutte queste cose per noi non hanno senso se simultaneamente non vivano oggettivate per un poeta, in una parola che canti”.

La memoria, in questo senso, ha una funzione chiarificatrice e a tal proposito Ungaretti ammette di aver commesso un errore quando ha detto che in Dostoevskij non c’era se non un fantasma che diventava turba per potenza allucinante di chi scrive. C’è davvero una turba, ma non di fantasmi, bensì di cuori sofferenti. Da qui Ungaretti inizia il suo esame di coscienza tra inquietudini e perplessità come dimostra Inno alla Pietà; per il poeta si tratta ora di spalancare gli occhi impauriti davanti alla crisi di un linguaggio, di cercare nel valore di una parola. Secondo lui, infatti ogni uomo moderno dovrebbe riconciliare il vero con il mistero. Dunque, questa è stata la prima preoccupazione del poeta di oggi: la riconquista del ritmo per risvegliare l’innocenza e per fare ciò è necessario recuperare la memoria. Ma cosa sono i ritmi nel verso? Ce lo dice lo stesso Ungaretti:

“Sono gli spettri d’un corpo che accompagni danzando il grido di un’anima”.

Il poeta moderno possiede il senso acuto della natura, ha partecipato e partecipa agli eventi più tremendi della storia, ha imparato ciò che vale l’istante nel quale conta solo l’istinto. La poesia è una forma estremamente sintetica per natura e i mezzi che l’uomo utilizza per arrivare ad essa sono sempre infelici mettendo insieme immagini lontane tra loro.

Il pensiero di Giuseppe Ungaretti sul significato della poesia si va via via ampliando e definendo negli anni come dimostrano le raccolte del grande poeta , subendo delle revisioni. Ungaretti perviene alla convinzione che in arte conta il miracolo, che la parola ha un valore sacro. Il sentimento dell’ Allegria dà conferma al poeta che non si ha nozione di libertà se non per l’atto poetico che ci dà a sua volta nozione di Dio. Ma il linguaggio di cui l’uomo si serve nella sua fase terrena può contenere una qualche rivelazione facendoci andare oltre la storia? Tale questione, che si era posta Vico e Leopardi (al quale Ungaretti fa spesso riferimento), dovrebbero porsela tutti gli aspiranti poeti.

Tuttavia di una cosa possiamo esser certi: la vera poesia si presenta prima di tutto a noi nella sua segretezza.

“Soltanto la poesia, l’ho imparato terribilmente, lo so, la poesia sola può recuperare l’uomo, persino quando ogni occhio s’accorge, per l’accumularsi delle disgrazie, che la natura domina la ragione e che l’uomo è molto meno regolato della propria opera che non sia alla mercé dell’Elemento”. (G. Ungaretti)

 

 

Eugenio Montale: poeta metafisico dell’essenziale

Il poeta della negatività, della corrosione critica dell’esistenza, ma anche uno scettico o addirittura uno snob o un borghese onesto al di sopra della mischia, restio ad essere catalogato come chierico rosso o nero. Al più, la tragica testimonianza di una coscienza intellettuale che ha rimosso i conflitti politici del nostro tempo, sostituendoli con una condizione <<eterna>> di solitudine e di incomunicabilità.” Così è stato definito Eugenio Montale, uno tra i più grandi scrittori italiani, nato a Genova il 12 Ottobre 1896 da un’agiata famiglia borghese. Egli rifiuta di attribuire un valore assoluto e istituzionale alla scelta della poesia ed aspira a scrivere “sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale”: l’attività poetica non rappresenta per lui un mezzo mediante il quale spillare il senso profondo, intimo, segreto della vita, ma uno strumento di contatto con la realtà del presente, con lo scenario storico-sociale-naturale circostante. L’arte è per lui una forma di vita “alternativa”, che parte da un rifiuto della vita reale e da una non partecipazione al flusso distruttivo della natura e della storia. Queste le parole del Montale sulla figura del “poeta laureato”: “Io non attribuisco nessun particolare privilegio alla posizione dell’artista nella società, nessun merito specifico. L’idea classicistica del poeta che vive in mezzo agli uomini con l’alloro in testa , mi sembra un relitto di cui bisogna assolutamente liberarsi”.

La vita dello scrittore consta di motivi biografici meno significativi di quanto invece accade per poeti quali Saba o Ungaretti. Tuttavia, vive un’adolescenza difficile dove inizia ad emergere un senso di distacco dalla consueta vita borghese, un distacco che caratterizzerà profondamente la sua opera, mostrandoci, al di là della borghesia operosa e in ascesa, al di là della secolare fatica dell’uomo e della sua famiglia che ne è diretta rappresentazione nella mentalità e nei costumi ( il padre infatti dirige un’importante azienda di prodotti chimici), quella che è una natura opprimente, una realtà che in tutte le sue sfumature cela la pena di un male di vivere consustanziale nelle cose.

Da sempre appassionato di arte, studia dapprima musica per poi dedicarsi alla letteratura. Come molti scrittori del tempo, anche lui viene arruolato. La prima pubblicazione poetica risale al 1922 denominata “Accordi”, mentre il suo libro “Ossi di seppia” è del 1925. Nell’ambito politico chiara è la sua avversione al movimento fascista, quando nello stesso anno appone la sua firma al manifesto antifascista di Croce, un’opposizione che gli costerà l’espulsione dalla direzione del gabinetto di Vieusseux, seppur non condividendo i limiti troppo nazionali e tradizionali del crocianesimo, ma cercando un confronto con il mondo molto più problematico. Nell’immediato post guerra, fonda insieme a Bonsanti e Loria il quindicinale “Il Mondo”, ma dinanzi alla situazione conflittuale del dopoguerra, cadono le speranze di un orizzonte europeo laico ed illuminista. Montale ritiene infatti che la guerra più grande a cui è chiamato l’uomo sia quella contro l’ arroganza e la presunzione della stessa umanità, restia ad accettare di essere soltanto una minima parte dell’universale ingranaggio cosmico.

Nel 1939 pubblica “Le occasioni”. Viene a contatto con i più grandi intellettuali dell’epoca, primi fra tutti Svevo ed Ezra Pound. Lavora come giornalista al “Corriere della Sera” per poi pubblicare nel 1956 La bufera ed altro” e nel 1971 “Satura”. Nel 1980 nasce l’edizione critica di tutta la sua intera attività culturale, col titolo di “Opera in versi”. D’obbligo, nel 1975 è l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura ad uno scrittore considerato modello di cultura laica e liberale, di discrezione e di civiltà. Un uomo, Montale, poco propenso alle sbavature sentimentali, ai miti dell’ottimismo, che spesso schivo e reticente verso la propria stessa esistenza, può sembrarci alteramente rinchiuso nella “cittadella” del proprio io; ma in realtà è proprio il distacco, l’apparente non coinvolgimento, la sua “solitudine” che fanno della sua arte il dono grandissimo di comunicare “l’essenziale”, di scoprire la distanza abissale tra un io, lacerato dalle contraddizioni, e gli altri. Muore a Milano il 12 Settembre 1981.                                                                                                                                                                             Montale ha svolto anche una lunga attività di critico e traduttore che lo porta a contatto con le letterature straniere, specialmente francese e inglese. Dalla poesia francese ed in particolare da Baudelaire riprende la volontà di uscire da un orizzonte linguistico e tematico già dato, di valicare i limiti della realtà, mosso da un imperativo intellettuale e morale, che sembra richiamare le famose parole di Ulisse del canto ventiseiesimo dell’Inferno dantesco : “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. La sua poesia è   plasmata per conoscere, interrogando, il presente; per immergersi laicamente e razionalmente anche negli aspetti più inquietanti della realtà e della coscienza umana  prendendo atto della profonda solitudine dell’uomo e riconoscendo dinanzi a ciò i limiti e la marginalità della stessa poesia; una “scoperta”, questa, che lo porta a tenere il discorso, per l’assegnazione del premio Nobel, dal titolo: “E’ ancora possibile la poesia?”                                                                             

A questa domanda Montale non ci lascia una vera e propria risposta, ma esprime una condizione della poesia “martoriata” dalla “quantità estrema di parole che percorrono la terra”. A differenza di Ungaretti che propone un ermetismo conciso e tagliente, Montale va creando una poesia metafisica nata dal contrasto tra ragione e qualcosa che non è ragione; una poesia che si immerge razionalmente negli oggetti che va descrivendo per trarre alla luce ciò che in essi vi è di irrazionale; una poesia che ha uno scopo ma che al contempo è anche consapevole dei limiti di tale scopo. Questo tipo di poesia è stata definita “ poetica dell’oggetto”, richiamandosi al correlativo oggettivo di Eliot.

La poetica montaliana è un tipico esempio di come mediante l’attività letteraria si possano perfettamente conciliare classico e moderno. Innanzitutto la moderna “ricerca antropologica” condotta dal poeta assume connotati classici. Guarda al mondo dei grandi classici non per farne sfoggio di preziose citazioni, ma se ne avvicina in maniera critica, ricercando ciò che in essi serve a comprendere la realtà presente. Si uniscono così linguaggio tradizionale e moderno. Da Leopardi, il poeta ligure riprende l’inquieta interrogazione del nulla, dal Petrarca una ricerca di equilibrio perfetto, da Dante la ricchezza espressiva.

In Ossi di seppia già il titolo ci dà il senso  di questa poetica. L’osso infatti è metafora delle cose ridotte alla loro nuda e scarna esistenza. Questo spogliarsi delle cose rompe i consueti equilibri quotidiani, disintegra le maschere sotto le quali la realtà si cela, ci svela il vuoto in cui consiste il vivere personale e naturale. La voce del poeta, con quell’atteggiamento razionale e critico che lo contraddistingue, si immerge nel paesaggio, spesso quello ligure, descritto sull’onda dei ricordi dell’infanzia, senza però confondersi in esso, dove ogni barlume di speranza, di un attingere ad una vita più autentica e migliore, si risolve in una disillusione.  Non c’è una salvezza certa, non c’è un valore assoluto e definitivo della parola poetica. Tutto il libro è attraversato dal presupposto di una crisi gnoseologica che vieta l’adesione a confortanti certezze.  La poesia montaliana invita a  riflettere, non annuncia blande promesse:

“ …..Non domandarci la formula  che mondi possa aprirti,                                                                                              

  sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.                                                                                                              

   Codesto solo oggi possiamo dirti,                                                                                                                       

   ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.” 

Nelle Occasioni significativo è il discorrere con alcune figure di donne, generalmente donne reali, conosciute per momenti brevissimi, portatrici di un messaggio: il tentativo  di trovare la luce in un mondo buio e negativo. Un tentativo labile, che emerge come squarci di luce improvvisi nell’oscurità, che si risolve come la fiamma che brucia e poi immediatamente si spegne divenendo cenere. Rappresentano un’ultima, drammatica difesa contro la barbarie del mondo, una possibilità comunque insufficiente per “poter mutare le cose del mondo”:

“………La vita che dà barlumi                                                                                                                                                   

  è quella che sola tu scorgi.                                                                                                                                                                 

    A lei ti sporgi da questa                                                                                                                                                                                           

 finestra che non si illumina.”

Nella Bufera ed altro abbiamo un aspetto romanzesco del libro, che fa sì che si ponga un intreccio tra i segni della realtà contemporanea e la vicenda d’amore per una donna salvatrice. Una donna che richiama solo in parte quella stilnovistica, in quanto conserva tracce di un sottile erotismo, non distrugge la sensualità. Il “tu” femminile con il quale il poeta dialoga si identifica innanzitutto con Clizia, figura mitologica che nasconde in realtà la vera identità di Irma Brandeis, studiosa americana, simile alla lontana e inafferrabile Laura petrarchesca; poi passa a colloquiare con Mosca, più concreta e vicina e infine  con Volpe che in realtà è come se rappresentasse il passaggio da un piano “angelico” ad uno più propriamente terrestre, divenendo molto meno inafferrabile delle precedenti. La donna montaliana diviene simbolo che reca in sé tesi e antitesi, positivo e negativo, funzionale e antifunzionale. Comporta attraverso alcuni “segni preziosi” la funzione di opporre alla degradazione e alla violenza del presente, qualcosa di “altro”, ma al contempo essa stessa distrugge questa funzione, e gli stessi segni diventano simboli di distruzione e morte. La donna è inoltre simbolo della poesia, che da un lato tenta di resistere, di offrirsi come ultimo dono civile in un mondo incivile, e dall’altro soccombe:

“..il lampo che candisce                                                                                                                                                             

alberi e muro e li sorprende in quella                                                                                                                                         

  eternità d’istante….”                                                                                                                                                                

Il lampo è dunque metaforicamente simbolo della verità che , attraverso la donna, si svela per un attimo nell’oscura tragedia della guerra e della storia in generale.  Una verità che come abbiamo detto non può essere attinta fino in fondo e ce lo dimostra la chiusa di questa poesia, con la donna che ritorna nell’oscurità del buio:

“…mi salutasti-per entrar nel buio.”

Eugenio Montale ci ha lasciato una profonda testimonianza della sua poetica; la testimonianza di un uomo, che tra classicismo e modernità è stato interprete critico e razionale del suo tempo, comprendendo a fondo le contraddizioni di una società tanto complessa come quella del Novecento e vedendo molto più lontano di tanti programmi ideologici proiettati nel futuro; lasciando aperto uno spiraglio di speranza, sebbene, come si è visto, Montale non fosse incline alla fede come Ungaretti.

 

 

 

Introduzione alla poesia del Novecento

Non è semplice rispondere alla domanda: “Quando comincia la poesia, specialmente quella italiana, del Novecento?” I critici infatti hanno trovato difficoltà nello stabilire una linea di demarcazione universale. Senza dubbio questo secolo è celebre per la sua indecifrabilità e frammentarietà e si può cercare di comprenderne le caratteristiche poetiche solo dividendolo in vari spezzoni. Per quanto riguarda la poesia italiana  primi segnali di cambiamento, che aprono strada al Novecento, si intravedono ne “I Canti” di Leopardi, con le sue rime sparse, che trasgrediscono il classicismo; secondo alcuni poi è Pascoli, con la raccolta “Myricae” l’iniziatore della poetica del Novecento, lasciandosi alle spalle la tradizione per far emergere, quasi fosse una stupefacente scoperta, la natura, gli animali, le piccole cose, dando loro voce. La metrica risulta più libera, piena di rinvii, parla all’animo del lettore, ma  questo accade perché cambia il ruolo del poeta, se ne ha una concezione diversa.

Non esiste più il poeta guida o il poeta romantico in grado di esprimere sentimenti difficilmente esprimibili per i più, ma il poeta ora è consapevole della crisi che vive, è desolato che non sa che dire se non parole sentimentali vane;  non è un caso che Corazzini si chieda in una sua composizione: “Perchè tu mi dici poeta?” e che Montale affermi che il poeta non è più  portatore di illuminazioni intellettuali e sentimentali (“Non chiederci la parola che squadri l’animo nostro informe…non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/sì qualche storta sillaba e secca come un ramo./ Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

Lo stesso Pascoli nella sua prosa “Il fanciullino” sostiene che il poeta si debba affidare ad uno sguardo infantile per poter liberare la realtà e il mondo dalla sterili abitudini, scoprendo nuovi orizzonti.

Ci si interroga, si riflette sul compito del poeta, si cercano nuove strade da percorrere attraverso avanguardie e sperimentazioni; a tal riguardo , convenzionalmente, si è posto come inizio il 1903 quando ci si ribella alla poetica di D’Annunzio, Carducci e anche Pascoli; fanno tendenza i crepuscolari attraverso il loro movimento, estranei alla cultura accademica e ispirati dal decadentismo europeo. I maggiori esponenti del crepuscolarismo sono Corazzini, Palazzeschi, Gozzano, Govoni che esprimono sentimenti di rassegnazione, malinconia; la poesia di Gozzano  è intrisa di ironia e raffinatezza , si pensi a “Nonna Felicita”considerata il suo capolavoro, dove il ricordo languido di un amore si confonde con la consapevolezza dello scorrere del tempo che rendono l’uomo angosciato. Gozzano inoltre conferisce ad oggetti e cose un certo alone evocativo e simbolico; e i crepuscolari sono tra i primi a sperimentare la poetica delle piccole cose che tanto caratterizzerà gli ermetici, successivamente.

Dimenticato D’Annunzio e la sua mitografia magniloquente e sensuale,si approda ad un tono più dimesso per rappresentare la realtà; e si giunge cosi all’importante esperienza dell’ermetismo, parola che indica chiusura, consapevolezza dello stato di disagio in cui vive l’uomo (“Spesso il male di vivere ho incontrato”dirà Montale in una delle sue poesie). I poeti ermetici sono avulsi dalla retorica, la loro attenzione è rivolta alle cose minimali, Ungaretti, Montale e Quasimodo rifiutano l’ottimismo, optando per l’essenzialità, adottando un linguaggio libero da ogni condizionamento retorico, prediligendo (soprattutto Ungaretti) l’analogia.

Più rarefatte risultano invece le poesie  di Montale, ricche di occasioni, di presenze, di incontri che rafforzano l’attaccamento del poeta verso la vita, pur non avendo meta. Rievoca il passato anche Quasimodo, che gli procura angoscia esistenziale nel presente, avvalendosi di spazi bianchi e di articoli indeterminativi, ma ricercando comunque la pace interiore.

Tutta l’arte (già dalla fine dell’Ottocento) diventa merce che tende ad essere considerata dalla classe borghese come strumento di svago e di distrazione, banalizzandola, conferendole un valore semplicemente ludico. Questo “consente” ad artisti e poeti di perdere il loro prestigio e tendano a vedersi come dei buffoni di corte con il trucco sbavato. I poeti maledetti (Baudelaire, Verlaine, Mallarmè . Rimbaud) si ribellano attraverso  della figura del dandy,  di chi ostenta la propria bellezza, eleganza e raffinatezza snob, avvalendosi della poesia pura. Protestano anche gli Scapigliati, contro il Romanticismo e il provincialismo della cultura risorgimentale; si lasciano affascinare dal disordine, dall’anticonformismo, dal tema della malattia.

Questo il manifesto degli Scapigliati, attivi nell’Italia settentrionale (termine utilizzato per la prima volta da Cletto ):

«In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui d’ambo i sessi v’è chi direbbe una certa razza di gente – fra i venti e i trentacinque anni non più; pieni d’ingegno quasi sempre, più avanzati del loro secolo; indipendenti come l’aquila delle Alpi, pronti al bene quanto al male, inquieti, travagliati, turbolenti – i quali – e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro maniera eccentrica e disordinata di vivere, e per… mille e mille altre cause e mille altri effetti il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo – meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre. Questa casta o classe – che sarà meglio detto- vero pandemonio del secolo, personificazione della storditaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto: la Scapigliatura Milanese».

La nascita della società di massa porta anche allo sviluppo di una piccola borghesia intellettuale che vive  nell’industria culturale. Il bisogno di recuperare ruolo sociale importante si fa sempre più forte e gli artisti lo dimostrano attraverso la pubblicazione di riviste politico-culturali, nate a Firenze, come il Leonardo, La Voce, Lacerba, L’Unità, Il Baretti, La Ronda. Tra le avanguardie più significative spicca l’Espressionismo, i cui temi principali sono la città mostruosa, la civiltà delle macchine viste come caos senza senso, che si esprime attraverso le allucinazioni e le visioni inquietanti. All’interno di questo movimento, si sviluppa il Futurismo fondato da Marinetti nel 1909 che manifesta la necessità  di abolire i musei e le biblioteche,simboli di un passato  da superare, anzi da distruggere, esaltando invece il progresso, la velocità, la violenza, la guerra, la macchina. Marinetti  propone  parole in libertà, senza sintassi, abolizione della punteggiatura, uso dei verbi all’infinito. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone anche il Dadaismo, che  rifiuta il moderno, la novità, ma anche la letteratura del passato. Per il Surrealismo invece l’arte deve  esprimere l’inconscio, luogo dove  reale ed immaginario, passato e presente si mescolano; proponendo una scrittura automatica, attraverso libere associazioni mentali.

La poesia europea è segnata dai nomi di Breton, tra i padri del Surrealismo, del futurista   Majakovskij in Russia; in Italia di Sbarbaro, di Rebora, di Campana e il loro senso di sradicamento, a causa del Fascismo  della guerra.

Negli anni trenta vengono a delinearsi  due tipi di letterati: “il letterato-letterato” e “il letterato ideologo”. Il letterato-letterato, sulle orme di Croce, è votato ad una poetica di disimpegno, trasfigurando il dato reale in  simbolo. L’intellettuale ideologo che si oppone al regime, come Gobetti e Gramsci, è messo a tacere . C’è anche molta letteratura, invece che letteratura che sostiene il regime, come Bartolini, Soffici, Rosai collegati al movimento Strapaese e alla rivista il Selvaggio, o  Bontempelli, collegato al movimento Stracittà e alla rivista “900”.

Incomincia in questo modo, con la poesia dell’impegno, la stagione neorealista o di denuncia che trova massima espressione anche nel cinema. Una grande influenza sulla poesia italiana di questo periodo ha la poesia europea rappresentata soprattutto dall’angloamericano Eliot e dal francese Valery; Eliot  con la sua poesia allegorica influisce sicuramente su Montale che renderà la sua poesia, appunto, allegoria a partire dalle seconda raccolta de “Le occasioni” con le sue donne-simbolo.

Nel 1956 nasce la rivista “Officina”, per opera di Pasolini, Leonetti e Roversi, che si propone di opporsi sia al neorealismo che al Novecentismo, ovvero contro la tradizione lirico-simbolico-ermetica , proponendo lo sperimentalismo, forme di scrittura nuove. Esplode in tal senso l’Antologia “I Novissimi” che contiene poesie di Giuliani, Sanguineti, Balestrini. Nel 1963, a Palermo nasce il “Gruppo 63”, movimento di neoavanguardia  di cui fanno parte  illustre personalità: Guglielmi, ,Eco, Lombardi, Arbasino, Sanguineti, Leonetti, e altri.

«Gruppo 63 è una sigla di comodo di cui spiegheremo un po’ più avanti l’origine. Di fatto dietro a questa sigla c’era un movimento spontaneo suscitato da una vivace insofferenza per lo stato allora dominante delle cose letterarie: opere magari anche decorose ma per lo più prive di vitalità […]. Furono l’ultima fiammata del neorealismo in letteratura, fioca eco populista della grande stagione cinematografica dei Rossellini e dei De Sica». (Balestrini, Giuliani)

Mentre  Calvino  invita a non considerare la letteratura come l’unica forma di contestazione possibile , Vittorini sostiene che  il tema industriale deve entrare nelle poesie e nei romanzi. Tuttavia intorno al ‘74-‘75 la Neoavanguardia è  già conclusa, sostituita  dall’irrazionalismo nietzschiano/heidggeriano dei filosofi Vattimo e Cacciari. Il 1984 rappresenta un anno importante: a Palermo si svolge  un dibattito, titolato “Il senso della letteratura”dove affiora una tendenza, anche se minoritaria, espressionista e neoallegorica.

Molta fortuna hanno riscosso riscuotono anche i poeti stranieri in Italia come Neruda, Kahlil, Garcia Lorca, Pessoa, Prevert, Allan Poe, Thomas, Stevenson, Dickinson, Renard, Lee Masters, Eliot, Kerouac, Sarandaris, Apollinaire, e tanti altri.

 

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