‘Racconto d’autunno’ di Tommaso Landolfi. Il rapporto impossibile tra sfondo resistenziale e sfera del fantastico

Il romanzo Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi è stato pubblicato nel 1947 a Firenze dall’editore Vallecchi, ed era stato scritto l’anno precedente nella villa familiare di Pico, luogo di nascita dell’autore. A livello autobiografico la vicenda potrebbe rappresentare il difficile rapporto di Landolfi col padre e la morte prematura della madre, ma soprattutto il suo rapporto con la guerra, durante la quale Landolfi fu incarcerato per attività antifascista e la sua casa di famiglia “sventrata”1 dalla guerra come la villa del Racconto.

Racconto d’autunno: tra storia e fantasia

A livello di testimonianza storica, quindi, il romanzo si ambienta nel contesto della Seconda guerra mondiale, e le vicende si situano nel tempo della guerra, ma il Racconto tratta solo marginalmente di vicende belliche, mentre il combattente (protagonista del romanzo) vive le vicende che lo segnano di più non in battaglia, ma dentro il rifugio della villa, in cui si inseriscono elementi appartenenti al genere del fantastico: Maria Antonietta Grignani ha pensato che Racconto d’autunno potesse rappresentare “il rapporto impossibile tra sfondo resistenziale e sfera del fantastico”.

In particolare, si può suppore una volontà di rifacimento da parte dell’autore del genere del romanzo gotico e romantico, pervenendo però a fatti e ambientazioni vicini al surreale. Tuttavia, dato il contesto realistico, è possibile che Racconto d’autunno abbia dei legami con il coevo movimento del Neorealismo, i cui romanzi erano ambientati in contesti di resistenza e guerra partigiana, anche se Landolfi si volle distanziare da questo movimento, presentando piuttosto tematiche perturbanti e inattuali.

Nonostante il fatto che l’ambientazione nell’avvio del romanzo sia realistica, le circostanze temporali e storiche rimangono volutamente nell’indeterminato: è presente lo spettro di una guerra, sia nell’iniziale ricerca di un rifugio da parte dell’uomo (<<due eserciti si scontravano sul nostro suolo […] coloro che ne avevano la possibilità si erano organizzati per una resistenza armata o
addirittura per l’offesa, altri resisterono almeno passivamente alle imposizioni degli invasori, altri infine badarono soltanto a togliersi dal folto della mischia” dove gli invasori corrispondono ai tedeschi>>), sia nella tragica conclusione della morte della ragazza.

Se dovessimo collocare il Racconto d’autunno in un genere letterario dovremmo tenere conto della volontà di Landolfi di inserire in un contesto realistico elementi sovrannaturali e tinte fosche e di concentrarsi soprattutto su aspetti perturbanti e di mistero della vicenda; questa commistione di aspetti mi ha fatto propendere a pensare che Landolfi si sia voluto avvicinare a un rifacimento del genere gotico ottocentesco.

La presenza di una iniziale ambientazione realistica della storia, potrebbe accostare il romanzo alla categoria critica di “fantastico d’imposizione” formulata da Francesco Orlando in Il soprannaturale letterario, che riscontrava in molti testi novecenteschi elementi sovrannaturali che si impongono al lettore fuori da un contesto tradizionalmente fantastico (fiaba, mito, epica), ma immersi in un contesto ordinario e realistico, come quello di Racconto d’autunno. Il romanzo presenta tuttavia, numerosi riferimenti e topoi danteschi e mitologici.

La solitudine di Landolfi

Per tutta la vita Landolfi si sentì un uomo fuori dal suo tempo, un aristocratico borbonico nato in un tempo non suo, il Novecento, di cui volle dare un punto di vista inattuale, anche nelle scelte linguistiche e lessicali, aventi la funzione di un rifugio rispetto alle mode e ai movimenti letterari del suo tempo, per questo definita “lingua pelle”.

L’intera narrazione è pervasa da un’ossessione descrittiva; questa ipertrofia descrittiva non ha però la funzione di chiarificare quanto descritto, ma di renderlo più vago e a volte labirintico, come nel caso della descrizione della casa, vero e proprio labirinto, di cui invano il protagonista tenta di afferrare l’interezza.

Il periodare, infatti, ha un andamento piuttosto ampolloso e ricercato, di sapore ottocentesco, caratterizzato da una maggioranza di frasi ipotattiche, lunghe, complesse, che presentano spesso incisi, alternate a frasi brevi, anche di una sola parola, nei momenti di maggior effetto o tensione. La prima parte si presenta come più ampollosa, digressiva e caratterizzata dal dialogo interiore, fino al climax, dopo il quale, nella seconda parte, sono presenti più dialoghi.

Le scelte lessicali sono quasi manieristiche, in stile arcaizzante e ottocentesco: si evidenziano parole antiche fuori dall’uso comune (“scalpiccio”,” zolfanello”, “fucile a focone” “strenna francese”, “pugnale o stocco damascati”, “doppieri d’argento”, “zoppa consolle”, “amoerro”) o in forme desuete (“laberinto”, “Affrica”). Nel complesso le scelte lessicali di Landolfi, spesso ossessivamente ricercate e
manieristiche, sono state definite come quelle di “un autore novecentesco, ossessionato fino alla nevrosi dalla insufficienza e opacità del mezzo linguistico rispetto a un’intangibilità del reale.

 

BIBLIOGRAFIA

Tommaso Landolfi, Opere, I, 1937-59, Rizzoli, Milano, 1991.

Francesco Orlando, Il soprannaturale letterario, Einaudi, Torino, 2018.

Maria Antonietta Grignani, L’espressione, la voce stessa ci tradiscono. Sulla lingua di Tommaso
Landolfi, Bollettino ‘900, 2005.

 

Clemente Rebora, la poetica della ricerca spirituale e la lirica agonizzante soffocata dalla società capitalista

Clemente Rebora nasce a Milano il 6 gennaio 1885 dal garibaldino e massone Enrico Rebora e dalla poetessa Teresa Rinaldi. Nel 1903 intraprende gli studi di medicina che presto abbandona per seguire i corsi di lettere presso l’Accademia Scientifico-letteraria di Milano, dove si laurea nel 1910.

Fin dalla giovane età l’anima di Rebora sembra intrisa da profonde crisi spirituali; nel suo percorso accademico supera difficili momenti di depressione che lo portano sull’orlo del suicidio. Completati gli studi, dapprima, intraprende la via dell’insegnamento in istituti tecnici e scuole serali non tralasciando la passione per la scrittura; in questo periodo, infatti, collabora con numerose riviste fra cui ‘’La Voce’’, ‘’Diana’’ e ‘’Rivisita D’Italia’’.  Nel 1913 avviene il debutto letterario  con la pubblicazione del volume di poesie Frammenti lirici. Nel 1914 conosce  pianista russa Lydia Natus, l’unica donna che il amerà nel corso della sua esistenza.

Intanto scoppia la Prima Guerra Mondiale: l’episodio storico influirà nella vita di Rebora sia a livello personale che professionale, segnando la sua poetica. Dopo aver subito un trauma cranico sul Monte Calvario, a causa di una violenta esplosione, e il fermo dovuto a uno  stato di shock, il poeta milanese si riprende e annota le atroci esperienze belliche nella raccolta Poesie sparse, composta negli anni della Prima Guerra Mondiale ma pubblicata nel 1947.  Nella lirica Leggiadro vien nell’onda della sera, Rebora racconta questa sua dolorosa esperienza dove la ferita causata dallo scoppio di una granata lo porta ad errare lo porta a errare per ospedali psichiatrici e diagnosi di crisi nervose e disturbi post-traumatici da stress:

Leggiadro vien nell’onda della sera
un solitario pàlpito di stella:
a poco a poco una nube leggera
le chiude sorridendo la pupilla;

e mentre passa con veli e con piume,
nel grande azzurro tremule faville
nascono a sciami, nascono a ghirlande,
son nate in cento, sono nate in mille:

ma più io non ti vedo, stella mia.

 

Leggiadro vien nell’onda della sera ( Poesie sparse, 1947)

 

Il poeta, affascinato dalle stelle che spuntano all’imbrunire, scorge nella sera che avanza come un’onda che sommerge tutto un delicato palpito di stella: metafora di un cuore umano. L’astro che colpisce l’animo liliale dell’autore sparisce subito poiché oscurato da una nube leggera che all’etere regala faville scintillanti ma che, per sempre, ha celato ai suoi occhi l’astro amato: il palpito solitario che lo aveva colpito, adesso, lo ha abbandonato a sé stesso per sempre.

Dopo aver vagabondato da un ospedale all’altro, e in seguito a una diagnosi di infermità mentale, Rebora riprende la sua attività ma soprattutto si configura quello che, a tutti gli effetti, diventerà il tratto distintivo della sua poesia.

Rebora: le tematiche risorgimentali e la folgorazione religiosa

Nel 1922 pubblica la racconta Canti anonimi in cui Rebora si pone al cospetto di una quasi illuminazione spirituale; è una poesia di ricerca che possiede, all’interno della ritmicità e della semantica del verso, un retaggio culturale ben delineato.

Il poeta propende verso idee risorgimentali, costrutti di pensiero appresi dal retaggio paterno, e nello specifico alla figura di Giuseppe Mazzini di cui Rebora ammira le idee, intravedendo nell’operato del patriota una sorta di evangelismo laico dedito ai bisogni del popolo e alla giustizia sociale. Ma oltre le alte idee risorgimentali, la poesia di Rebora si caratterizza soprattutto come ricerca di fede e attestazione di quest’ultima.

Nel 1928, a tal proposito, il poeta subisce una folgorazione convertendosi al Cattolicesimo. Nel 1929 prende i sacramenti, mentre nel 1930 entra come novizio al Collegio Rosmini. Nel 1936, pronunciando i voti perpetui, viene ordinato sacerdote. Dall’improvvisa illuminazione religiosa nascerà la silloge Poesie religiose, i cui componimenti risalgono al periodo fra il 1936 e il 1947. Nel 1955 compone il Curriculm Vitae in cui  l’autore ripercorre la sua storia autobiografica mentre nell’ultima raccolta, Canti dell’infermità (1956), esplora l’aggravarsi della malattia che lo aveva condotto alla paralisi.

La poetica della ricerca spirituale e la critica alla società capitalista e industriale: la lirica soffocata dalla modernità

La raccolta Frammenti lirici rappresenta l’opera più vasta di Clemente Rebora  ma, soprattutto,  è la silloge in cui emerge l’attenzione del poeta verso i problemi esistenziali dell’uomo. La buona volontà, intesa come parte positiva dell’esistenza, e la depressione come contesto di connotazione negativa sono le tematiche principali che dominano la raccolta.

Ma è soprattutto la trasformazione della città che si riversa nel moderno, e il conseguente stato d’animo  dovuto al primo conflitto mondiale che imperversa nel popolo italiano, a fare da sfondo all’immagine poetica qui descritta da Rebora.

Il poeta cerca un compromesso esistenziale nell’indifferenza della vita cittadina voltata, ormai, al progresso moderno; la società industriale e il capitalismo diventano ombra della poesia autentica che Rebora immagina fagocitata da una modernità che avanza. La poesia è agonizzante: sommersa dalla società industriale e dalle masse che si piegano a un consumismo sempre più dilagante. Nella visione di Rebora, in questo senso, il poeta è adesso solo con il proprio Io; mentre cerca di non annaspare nel mare dell’opportunismo si rivolge a una visione metafisica nel tentativo di un’amara consolazione che è, in realtà, un’illusione per sopravvivere.

 

O pioggia feroce che lavi ai selciati
lordure e menzogne
nell’anime impure,
scarnifichi ad essi le rughe
e ai morti viventi, le rogne!
Quando è sole, il pattume
e le pietre dei corsi
gemme sembrano e piume,
e fra genti e lavoro
scintilla il similoro
di tutti, e s’empiono i vuoti rimorsi;
ma in oscura meraviglia
fra un terror di profezia
tu, per la tenebra nuda
della cruda grondante tua striglia,
rodi chi visse di baratto e scoria:
annaspa egli nella memoria,
o si rimescola agli altri rifiuti,
o va stordito ai rìvoli di spurghi
che tu gli spazzi via.

Pioggia feroce ( Frammenti lirici, 1913)

 

Gli antichi valori sono ormai sparsi, mentre aleggia nell’anima del mondo una profonda vacuità. Peculiarità di questa raccolta è la massiccia presenza di rimandi danteschi. Le raccolte Canti anonimi (1920-1922), le Poesie sparse pubblicate nel 1947e le Prose liriche (1915-1917) sono uno sviluppo tematico della prima opera che risente non solo del periodo bellico e dell’ansia della guerra, ma anche della rottura del rapporto con la pianista Lydia Natus.

La visione del mondo, in queste sillogi, si fa cruda; Rebora descrive l’esistenza umana come composta da infinite pieghe di infelicità e smarrimento. L’uomo, secondo queste concezioni, è costretto a vivere non solo in una condizione di isolamento ma anche in un estremo contesto di violenza dovuto a un’umanità superficiale, vuota e futile. Solo la morte rimane come consolazione; morire, per Rebora, è l’unico modo che ha l’uomo  per sfuggire alla ferocia della guerra, nonché l’unico sollievo.

Il poeta, però, conferisce alla morte anche un altro significato tutto pedagogico; la morte è l’unico mezzo che hanno i soldati, protagonisti degli atti più efferati e criminosi che si possano compiere in guerra, di comprendere l’antico concetto di Pietas; una pietà che, in vita, non potrebbero mai comprendere in quanto assoggettati alle oscure dinamiche di un mondo che ha smarrito l’etica e gli alti valori.

La visione della poetica reboriana successiva alla conversione: Poesia e Fede come compagne di sventura

La folgorazione religiosa di Rebora diventa, per il poeta milanese, una speranza a cui aggrapparsi; la fede cattolica, secondo questo nuovo modo di interiorizzare il suo percorso letterario, è la chiave della speranza utile alle angherie del mondo moderno: avere fede significa, soprattutto, essere coscienti che nonostante la perdizione terrena uno spiraglio di redenzione dell’animo umano esiste ancora.

La ricerca spirituale che muove la poetica di Clemente Rebora sembra, in un certo senso, conclusa con la conquista della fede. Un concetto che, tuttavia, farà traballare lo spirito reboriano poco dopo l’illusa certezza di aver trovato una strada spianata per la ricerca del proprio Io. In Canti dell’infermità (1956), dove l’autore è già gravemente malato, traspare tutta la sua sofferenza: colpito da ictus e affetto da paralisi, Rebora attraverso questa silloge pone al centro una profonda sofferenza fisica che sconfina nella disperazione e  che fa appurare al poeta che sia la poesia che la fede non sono altro che due compagne nella vita di un uomo. Una concezione che unisce tutta la produzione reboriana, come confermano alcuni versi contenuti in Curriculum vitae (1955):

Quando morir mi parve unico scampo,
varco d’aria al respiro a me fu il canto:
a verità condusse poesia.

Curriculum vitae, 1955

 

Nel componimento La poesia è un miele, scritta il 15 ottobre 1955, Clemente Rebora sottolinea come l’ars poetica sia arte, appunto, qui in terra ma vita in cielo.

La poesia è un miele che il poeta,
in casta cera e cella di rinuncia,
per sé si fa e pei fratelli in via;
e senza tregua l’armonia annuncia
mentre discorde sputa amaro il mondo.
Da quanto andar in cerca d’ogni parte,
in quanti fiori sosta, e va profondo
come l’ape il poeta!
L’ultime cose accoglie perché sian prime;
nettare, dolorando, dolce esprime,
che al ciel sia vita mentre è quaggiù sol arte.
Così porta bontà verso le cime,
onde in bellezza ognun scorga la mèta
che il Signor serba a chi fallendo asseta.

La poesia è un miele ( Canti dell’infermità,1956)

 

Risulta chiara, in questi versi, la tematica della fratellanza e dell’importanza della solidarietà degli uomini con Dio. Poesia e fede sono state per Rebora non solo compagne tacite di vita  ma dolci sorelle che lo hanno accompagnato, attraverso la sofferenza, in un mondo sempre più proiettato verso un futuro veloce, poco dedito all’attenzione e all’approfondimento, per lasciar spazio a una modernità che si configura nella praticità come valore essenziale e risolutivo. In questo senso Rebora è stato lungimirante: la poesia, salvo poche eccezioni, è stata soffocata dalla concezione moderna dell’uomo che si piega all’edonismo del consumo a discapito dell’autenticità della sua essenza.

 

Corrado Govoni, l’eterno fanciullo amante della natura

Nato il 29 ottobre 1884 in provincia di Ferrara, Corrado Govoni è stato un autore dallo stile eclettico e sperimentale che dopo una prima esperienza poetica crepuscolare, decide di aderire al futurismo per poi staccarsene e ritornare alle origini del suo stile letterario. Lavora nell’azienda di famiglia quando, fin da ragazzo, si accorge di avere una propensione pulsante verso la poesia; Govoni, infatti, esordisce giovanissimo nel mondo della letteratura.

E’ il 1903 quando pubblica presso la Casa Editrice Lumachi di Firenze, a sue spese, due raccolte di poesie in cui prevale la tipica malinconia crepuscolare: Le Fiale e Armonie in grigio e in silenzio. In seguito, collabora con diverse riviste letterarie per poi, nel 1905, sperimentare la visione poetica futurista. La svolta di adesione al futurismo si concretizza attraverso due sillogi poetiche: Fuochi d’artifizio (1905) e Gli aborti ( 1907). Proprio in questo periodo, fra le altre cose, stringe un profondo legame con Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del Movimento Futurista.

Tuttavia, l’adesione al futurismo come concezione ideologica e poetica è per Govoni una brevissima parentesi, o come lui stesso in seguito avrebbe definito ‘’un gioco’’. La sua resterà per sempre una poesia  di appartenenza alla natura e al sensibile, nonostante l’avvicinamento alle avanguardie letterarie del tempo. Nel 1916 collabora con la rivista napoletana Diana, in cui appaiono alcune sue liriche che anticiperanno la visione ermetica della poesia. Nel 1919 si trasferisce a Roma dove diventa  vicedirettore della sezione del libro alla Siae,  poi segretario del Sindacato Nazionale Scrittori e Autori dal 1928 al 1943.  Nonostante il figlio Aladino Govoni fosse un partigiano, successivamente vittima dell’eccidio delle Fosse Ardeatine nel 1944, Corrado Govoni resta grato al fascismo; probabilmente per le opportunità che il Movimento Fascista gli concesse. Il poeta, infatti, scrisse anche due poemetti di lode dedicati a Benito Mussolini.

La poetica di Corrado Govoni; un viaggio nel parnassianesimo e nel crepuscolarismo

In una lettera all’amico Gian Pietro Lucini, datata 1904, il poeta scrive:

‘’Ho sempre amato le cose tristi, la musica girovaga, i canti d’amore cantati dai vecchi nelle osterie, le preghiere delle suore, i mendichi pittorescamente stracciati e malati, i convalescenti, gli autunni melanconici pieni di addii, le primavere nei collegi quasi timorose, le campane magnetiche, le chiese dove piangono indifferentemente i ceri, le rose che si sfogliano sugli altarini nei canti delle vie deserte in cui cresce l’erba; tutte le cose tristi della religione, le cose tristi dell’amore, le cose tristi del lavoro, le cose tristi delle miserie’’.

Dal passo tratto da questa lettera è facilmente riscontrabile la propensione del Govoni al crepuscolarismo e alla sua delicata malinconia, così come al parnassianesimo; movimento poetico francese che aveva come sua caratteristica centrale l’elemento romantico rigettando, in ogni sfumatura, l’impegno politico o sociale. Per i parnassiani l’arte non ha fini, non deve esser né utile né virtuosa: l’unico scopo è la bellezza.

Rientra in questo schema l’estetismo di Gabriele D’Annunzio,  a cui pure Govoni si ispira in questa sua fase poetica. La preziosità delle immagini e del discorso lirico lasciano il posto, però,  alla visione malinconica oltre che alla propensione alla campagna come locus amoenus, e al paesaggio agreste,  tipico topos di ispirazione Pascoliana. Gabriele D’Annunzio, Giovanni Pascoli e i simbolisti francesi influenzeranno, quindi, il Govoni delle prime fasi; il contributo del poeta al crepuscolarismo sarà, tuttavia, differente da quello dato da altri autori come Sergio Corazzini o Marino Moretti. Un’evidenza che già si coglie nel componimento ‘’Paesaggio’’, inserito in ‘Reliquie’: prima sezione della raccolta Le Fiale (1903).

 

La casina si specchia in un laghetto,
pieno d’iris, da l’onde di crespone,
tutta chiusa nel serico castone
d’un giardino fragrante di mughetto.

Il cielo dentro l’acque un aspetto
assume di maiolica lampone;
e l’alba esprime un’incoronazione
di rose mattinali dal suo letto.

Sul limitare siede una musmè
trapuntando d’insetti un paravento
e d’una qualche rara calcedonia:

vicino, tra le lacche ed i netzkè,
rosseggia sul polito pavimento,
in un vaso giallastro una peonia.

‘’Paesaggio’’, Le Fiale (1903)

 

Al grigiore della provincia, alle strade ammantante di ricordi nostalgici e memorie dolciastre dal retrogusto amaro, Corrado Govoni contrappone il colore. La sua è una poetica dove i colori del mondo, le visioni variopinte della natura, sono al centro del verso; i componimenti hanno un ritmo che riprende una vivida gioia fanciullesca, sia nelle strofe che nel ritmo.  La differenza del Govoni con gli altri crepuscolari risiede nel tradurre i fenomeni in realtà utilizzando una variopinta e cangiante tavolozza di sfumature, segno inequivocabile che anticipa la sua adesione al movimento futurista.

La poesia visiva e immaginifica dell’esperienza futurista

Corrado Govoni è considerato il poeta eclettico e sperimentatore della poesia italiana in quanto, come autore,  ha fluttuato attraverso vari stili in tutta la sua esperienza letteraria. La parentesi futurista  non marginalizza l’estro impressionistico del poeta ma, anzi, lo vivifica esaltando e acuendo maggiormente il legame parola-immagine. Se in Fuochi di artifizio (1905) persistono ancora dei tratti crepuscolari, nella raccolta Gli aborti, del 1907,  si assiste alla svolta espressionistica di Govoni che in alcune tematiche si avvicina anche al vocianesimo. La bellezza e il colore, adesso, lasciano il posto a un paesaggio in cui trionfa la stravaganza, la fatiscenza, l’aurea baudelairiana.

Dei pazzi che non sembran tali, in abiti d’alga
innaffiano nell’ora del meriggio con del vino
i puri gigli del giardino del manicomio.

Un pappagallo sulla sua gruccia in cima a una scalea
d’un castello di principi schiamazza
contro una vecchia mendicante tutta lacera
che chiede invano l’elemosina,
che chiede sempre e non si stanca mai
.

‘’Ronda delle tristezze’’, Gli aborti (1907)

Sono le sillogi Poesie elettriche (1911), Rarefazioni e parole in libertà (1915) e  Inaugurazione della primavera (1915)  a contrassegnare il periodo futurista di Corrado Govoni. Il poeta ferrarese, dall’accentuato eclettismo letterario, non rinnegherà mai le sue esperienze precedenti e, anzi, sarà proprio questa contaminazione poetica e il confluire di stili differenti a rendere il Futurismo di Govoni originale. La fase futurista di Govoni conserva elementi crepuscolari e liberty come, per esempio, nell’affrontare il tema della città moderna; il poeta di Ferrara non si distaccherà mai, neanche in questo caso, dal legame bucolico con la natura.

La campagna, intesa come natura georgica di virgiliana memoria, sarà per Govoni un topos ripetuto, come un flebile filo che unisce ogni silloge, in tutta la sua carriera letteraria.  Come lo stesso autore conferma, il  14 marzo 1937 sul “Meridiano di Roma”, l’adesione al Movimento di Marinetti rappresenta una giocosa irresponsabilità e sperimentazione; pur celebrando la celerità moderna e la dinamicità su cui si poggiava la nuova avanguardia, la sua resterà sempre una sensibilità agreste, legata alla terra e alla campagna. Il manifesto per eccellenza del periodo Futurista di Govoni resta Il Palombaro, poesia visiva appartenente alla raccolta Rarefazioni e parole in libertà (1915).

Dal tratto quasi infantile, il fulcro del componimento è il verso libero tipico della poetica futurista; l’autore gioca con i segni di interpunzione, elimina verbi e accosta immagini al testo quasi come un ‘’quadro linguistico’’. L’utilizzo di analogie e metafore, caro alla poetica futurista, è qui abbondantemente utilizzato. Nonostante possa sembrare un testo adatto ai bambini, questo componimento cela un significato profondamente enigmatico che invita il lettore a porsi delle riflessioni. La tavola parolibera, in questo caso,  rimane oscura; la discesa negli abissi, da parte del palombaro, potrebbe rimandare alla ricerca interiore a discapito della superficialità,  andando contro le apparenze.

Oltre il Futurismo: la ricerca dell’essenzialità nella poetica e i versi dedicati al figlio Aladino

Nella poetica post futurista, Corrado Govoni  si dedica al verso essenziale intriso dall’immagine fresca della campagna, atmosfera amata dal poeta, e ai colori vivaci della sua prima fase crepuscolare. Le raccolte che segnano questa fase sono  Aladino (1946), Preghiera al trifoglio (1953), Stradario della primavera (1958) e la raccolta postuma La ronda di notte (1966).

 

Camminarono lungo la scarpata

con la guida dei lucidi binari

saettanti nel sole

verso i lontani neri boschi

sopra la riva del perlaceo lago,

tenendosi alla vita:

lui, una giacca color celeste,

lei un corpetto rosso.

Sparirono alla vista in un baleno.

Lei un puntino rosso, lui celeste,

entrarono nel fresco regno agreste.

 ’Camminare lungo la scarpata’’ da Stradario della primavera (1958)

Nel 1946  pubblica Aladino  da Arnoldo Mondadori, una raccolta di 104 poesie che approfondiscono il tema del dolore;  una dolore che, nei primi momenti, è intimo e pulsante per la perdita del figlio ma che nei versi successivi diventa storico: chiaro rimando alle condizione tribolante post bellica in cui verteva il Paese:

 Quanto poté durare il tuo martirio
nelle sinistre Fosse Ardeatine
per mano del carnefice tedesco
ubbriaco di ferocia e di viltà?
Come il lungo calvario di Gesù
seviziato, deriso e sputacchiato
nel suo ansante sudor di sangue e d’anima
fosse durato, o un’ora o un sol minuto;
fu un tale peso pel tuo cuore umano,
che avrai sofferto, o figlio, e conosciuto
tutto il dolor del mondo in quel minuto.

 

Il poeta passa dalla descrizione del dolore di un padre, straziato per la perdita del figlio, al dolore universale che si riflette nella figura di Gesù Cristo commemorando la perdita di tutti i figli innocenti morti e che hanno sofferto torture fisiche, consci della loro vita ormai appesa a un filo. La perdita di Aladino segnerà per sempre Corrado Govoni, anche nella sua poetica che diventerà più violenta, dura,  tormentata.

Corrado Govoni  è stato un giocoliere, un acrobata e un artista della parola;  uno dei poeti più creativi del Novecento e, purtroppo,  un grande dimenticato della letteratura italiana.  Basti pensare a una della sue opere più importanti, L’inaugurazione della primavera , che dopo il 1920 non è mai stata più pubblicata. Solo molti anni dopo la morte del poeta, sarà Edoardo Sanguineti a ridare a Govoni la dignità letteraria che meritava con l’antologia Poesia italiana del Novecento (1969).

Proprio per questa sua propensione alla libertà e alla scrittura che non si piega alle regole né alle mode, Govoni verrà visto sempre con sospetto.

Eugenio Montale nell’articolo “È morto Corrado Govoni poeta fanciullo della natura”, (Corriere della Sera, 21/10/1965) descrisse Govoni come un ‘’poeta fanciullo inebriato di luci e di colori immerso nelle meraviglia della natura’’. Una personalità letteraria pura, dalla potente attività creatrice e dal culto armonioso della parola come mezzo per trasmettere emozioni ma, anche, immagini salvifiche di purezza; in un’esistenza troppo spesso affrancata da brutture e  turpitudine, il messaggio poetico di Govoni è dispiegare l’esistere nella meraviglia e nel senso dell’immaginario; ‘acciuffare’ ogni fenomeno che la natura dona agli uomini gratuitamente rendendolo soggettivo attraverso i colori della propria anima.

 

 

Il fantastico nei racconti di Massimo Bontempelli: da ‘La scacchiera davanti allo specchio’ a ‘Eva ultima’

In particolare sono due i generi affrontati da Bontempelli che più hanno risentito dell’influenza del fantastico, il meraviglioso fiabesco delle Due favole metafisiche e i racconti.

Quali sono i procedimenti narrativo-retorici e i sistemi tematici che dimostrano l’influenza di tale modo sui diversi generi? Attingendo ai contributi di Ceserani, sarà importante illustrare ora gli elementi specifici più ricorrenti del modo fantastico.

Introduzione al fantastico di Bontempelli

Nel volume Il fantastico, Ceserani dedica un capitolo alla ricerca e alla catalogazione di questi procedimenti, distinguendo fra quelli tematici e formali. Tra questi ultimi troviamo la narrazione in prima persona, accompagnata talvolta dalla presenza di destinatari espliciti, per accrescere il coinvolgimento del lettore e la sua identificazione con il lettore implicito, la messa in rilievo dei procedimenti narrativi nel corpo stesso della narrazione, al fine di attirare il lettore e al tempo stesso renderlo continuamente consapevole che di narrazione si tratta, o l’interesse per le capacità proiettive e creative del linguaggio, che si esplica per esempio nell’utilizzo in termini narrativi della metafora, tramite il quale il rapporto verbale tra i mondi semantici diventa materiale, creando passaggi di soglia e di frontiera dalla dimensione del quotidiano a quella del perturbante.

Il passaggio di soglia è raggiunto anche attraverso i cosiddetti “oggetti mediatori”, la cui presenza nel testo dimostra la veridicità del viaggio compiuto dal protagonista nell’ “altro mondo”, dal quale ha portato con sé il suddetto oggetto.

Ancora importante è la teatralità, cioè la tendenza ad utilizzare procedimenti appartenenti alla tecnica e alla pratica teatrale, che comprende anche l’attivazione di elementi di figuratività sia materiali, come gli specchi, relativi al vedere, sia come esaltazione della gestualità, per esempio “mettendo in scena”. Frequentemente utilizzata è poi la figura retorica dell’ellissi in momenti cardine del testo, dove cioè la narrazione raggiunge il culmine, con effetto di sorpresa e di incertezza nel lettore, incapace di trovare risposte alle proprie domande. Ma, come sostiene la Bessière, «Per sedurre, il fantastico ha il dovere di deludere».

Dal punto di vista tematico spiccano la contrapposizione fra luce e buio legata soprattutto all’ambientazione notturna, l’attrazione verso la vita dei morti, l’individualità borghese come soggetto della modernità, con tutte le contraddizioni che lo portano sovente anche alla follia, intesa non più come una differenza fra il folle e l’uomo normale, ma come tramite verso una più profonda conoscenza.

Legati a quest’ultimo sono poi il tema del doppio, che nel fantastico si unisce a oggetti come lo specchio e mette in crisi il concetto di soggettività, e quello del nulla, tematica fortemente moderna che si spinge fino al nichilismo. Lazzarin pone, accanto ad una tematica e ad una stilistica e retorica del fantastico, anche una topica, cioè un insieme di luoghi comuni utilizzati in diversi contesti e con diverse funzioni, come per esempio il tòpos dello sguardo inquietante ed ardente del personaggio fantastico.

La scacchiera davanti allo specchio, trama e contenuti

Scritto nel 1921 e pubblicato presso l’editore Bemporad a Firenze nel 1922 nella «Biblioteca Bemporad per ragazzi» con illustrazioni di Sto (Sergio Tofano), La scacchiera davanti allo specchio seguirà Viaggi e scoperte nel volume Mondadori del 1925 e, infine, con Eva ultima, costituirà il volume Due favole metafisiche (1921-1922), sempre presso Mondadori, dal 1940.

L’originaria pubblicazione in una collana per ragazzi, il nome scelto dall’autore per l’ultimo volume, e la dedica al figlio Mino, complicano ulteriormente la già difficile categorizzazione dell’opera; si potrebbe, infatti, ingenuamente essere indotti a considerarla solo come una semplice storia per bambini. Tuttavia, ad un occhio più attento, essa si potrebbe situare alla convergenza di più generi, traendo elementi in particolare dal mondo della fiaba e dal fantastico.

Il soggetto si riconosce quindi solo nel momento in cui si vede nello specchio. Interessante, a questo punto, riprendere le considerazioni espresse da Mangini nel capitolo del volume Letteratura come anamorfosi dedicato allo specchio e alla sua stretta relazione con l’anamorfosi; il «riconoscimento della propria immagine speculare, costitutivo dell’identità del soggetto (e cioè della sua presunta autonomia dall’oggetto), è in realtà un riconoscimento di sé nell’Altro (o di sé come Altro) e dimostra innegabilmente che il soggetto non può incontrarsi e ri-conoscersi altrimenti che così: come Altro, appunto».

Il protagonista vive lo sdoppiamento fra sé e la sua immagine nel momento in cui compie l’attraversamento della soglia. Le parole del Re sono eloquenti: «Quando dico che sei qui, intendo che qui c’è un altro come te: la tua immagine, via; siete due, come io e quel Re Bianco che sta costì dalla tua parte».

Molto forte è poi l’influenza della pittura metafisica nell’ambientazione che circonda il manichino; in seguito alla sua esplorazione, il protagonista arriva infatti in un «vasto fossato, riquadrato come una piazza d’armi ma sprofondato molto più basso del suolo», all’interno del quale si stagliano vari oggetti, che «stavano in certo modo come stanno gli alberi e le rocce nella campagna. […] Erano, ecco, erano una specie di paesaggio, fatto di oggetti invece che di piante e altri prodotti naturali».

Saltano subito alla mente le pitture di Giorgio De Chirico, dove a popolare le grandi piazze squadrate sono, oltre le architetture, oggetti come statue e manichini, che arrivano a fondersi in una sorta di ibrido in opere come Le Muse inquietanti (1919). Per Piscopo, Bontempelli accetta l’opzione “saviniano-dechirichiana” del manichino, assumendolo «non a stereotipo funzionale, ma a referente materiale per eccellenza nell’atelier dell’artista, in quanto suggeritore e moltiplicatore di metafisicità, ovvero di spettralità; ma anche in quanto valore da recuperare in contraddizione col consumismo volgare e col Kitsch di massa. La presenza del manichino presso i metafisici ha una funzione complessa. È cifra di misteriosità e d’inquietudine».

Nei suoi scritti teorici, Bontempelli esplicita di volersi riallacciare all’antica tradizione omerica, per riavvicinare la narrazione alla lirica, come accade in ogni primordio, dove «poesia coincide con l’invenzione della favola».

Come osserva Bosetti, però, la soluzione da lui proposta non è irrazionalistica, ma anti-intellettualistica, in quanto Bontempelli intende distaccarsi da “quella deprecanda orgia di verismo documentario” di cui la prosa era rimasta vittima. Questa sorta di primitivismo bontempelliano è, però, complicato dalla distinzione che egli introduce tra la meraviglia del fanciullo e lo stupore dell’artista. Solo quest’ultimo è, come accadeva ai pittori quattrocenteschi, attivo e capace di «popolare il mondo di creature immaginate in cui le esperienze quotidiane si sono totalmente risolte e trasformate.

Eva ultima, l’opera problematica di Bontempelli

Scritta nel 1922, quindi ad un anno di distanza dalla Scacchiera, ed uscita per la prima volta presso l’editore Stock di Roma nel 1923, Eva ultima è la seconda delle due “favole metafisiche”, ma ciò non deve trarci in inganno nel considerarla affine alla prima, con cui sicuramente condivide l’atmosfera magica e meravigliosa, ma da cui si discosta anche ampiamente, soprattutto per la maggiore artificiosità.

Eva ultima è un’opera problematica, ma che costituisce un tassello imprescindibile in un discorso sul fantastico bontempelliano. Anche di fronte ad essa ci si trova in difficoltà a doverla incasellare in un genere specifico; fin dall’inizio, infatti, sono ripresi temi e stilemi dei generi maggiori dell’800, ma subito rovesciati in una sorta di parodia.

I racconti più propriamente “fantastici” di Bontempelli sono considerati da molti critici, non a torto, come i risultati più felici della sua produzione artistica. Se già nel 1943 Carlo Bo afferma che in Bontempelli «il racconto ha una soluzione intatta: ha la misura stessa dell’invenzione», Baldacci, nell’introduzione al Meridiano dedicato alle Opere scelte dell’autore, auspica l’uscita di un volume, sempre nella collana dei Meridiani, incentrato solo sui racconti.

Anche Luigi Fontanella afferma che le raccolte degli anni ’20 sono da considerarsi come espressioni della maturità artistica del narratore. Nonostante ciò, una raccolta completa di racconti non è ancora stata pubblicata, e quelle già esistenti sono pressoché irreperibili. Anche per quanto riguarda la critica, se fioriscono pubblicazioni sui romanzi e sul teatro, non si trova altrettanta letteratura sul racconto.

La produzione novellistica di Bontempelli si snoda lungo tutta la sua attività, a partire dalle prime opere rifiutate, Socrate moderno e Amore, passando per la filosofica raccolta Sette Savi e la sperimentale Viaggi e scoperte, arrivando fino alla magica Miracoli e alle più mature Galleria degli schiavi e L’amante fedele.

 

 

Fonte: https://www.academia.edu/36651096/Il_lavorio_delle_fantasime._Il_fantastico_nei_racconti_di_Massimo_Bontempelli

Renato Serra e la letteratura come oggetto di consumo

Nel critico letterario Renato Serra vi è sempre stato un bisogno di trovare nei romanzi che leggeva, nelle ragioni per cui li amava, le garanzie del verismo. Nelle Lettere, il critico italiano affronta la narrativa precedente al 1914 e parla di prosa d’arte e diversamente da quello che si è convenuto dieci anni dopo, quando i modelli divennero i prosatori non narrativi della <<Ronda>> e i Pesci rossi di Cecchi, intende “romanzi e novelle e simili cose”. E subito lo spettacolo gli si presenta piatto, opaco tale da scoraggiare ogni buona intenzione di distinguere correnti e indirizzi ideali.

Tutto è inutile ormai, visto che si è logorato il solo modello che poteva garantire esistenza e significato al romanzo, cioè al verismo. Oltre la constatazione dell’esaurimento del verismo, c’è un’altra premessa che nel 1914 può destare stupore: insomma Serra vede nella narrativa dei suoi giorno, l’influsso, sempre abbastanza preoccupante di quella che potremmo chiamare una specie di industria culturale. Nel 1914 ovviamente non si poteva ancora parlare di civiltà di massa originata dal neocapitalismo o dal socialismo; ma gli anni di relativo benessere a cui la politica democratica e radicaleggiante di Giolitti aveva portato l’Italia, erano riusciti anche a fruttare una certa promozione del ceto medio. Una delle conseguenze era stato l’allargamrnto del pubblico leggente e un affinarsi dei propri gusti.

Il “censimento” di Renato Serra

A tal proposito, in riferimento all’esigenza di dimostrare questi fatti attraverso un’accurata analisi sociologica, Serra, che davvero non si confonde con la sociologia, abbozza per tocchi descrittivi e pittoreschi un censimento: vede gli impiegati, le ragazze che lavorano, sarte, cassiere, commesse, piccoli borghesi a metà strada tra un mestiere e una professione. Queste reclute della lettura  creavano l’esigenza di una diversa e più abbondante offerta di materiale di consumo, soprattutto di narrativa, atta a soddisfare le aspirazioni intellettuali più ambiziose di quelle a cui erano andati incontro i romanzi di appedice con il loro smodato carico di romanzesco e di sviluppi a sorpresa. Serra, nella sua acuta sensibilità, si inventa addirittura una di quelle applicazioni del linguaggio degli economisti oggi sfoggiate dai tecnologi della cultura: <<Da noi la letteratura è un oggetto di consumo>>.

Insomma: era una sempre più numerosa clientela piccolo-borghese a comprare libri e a fabbricarli e a metterli sul mercato provvedeva molto meno l’editoria libraria che quella giornalistica; e lo scrittore era condizionato da questi committenti (periodici e quotidiani). Dato questo discorso, diventa addirittura un corollario l’affermazione che Serra pone come premessa: <<Romanzi e novelle ormai in Italia hanno realizzato il tipo unico con una felicità da fare invidia ai produttori di vino toscano>>.

Gli influssi simbolisti sulla narrativa italiana del 1914

Esistono naturalmente degli scrittori che si leggono più o meno volentieri, ma in sostanza, secondo Serra, il tipo della merce non cambia, tanto che si può addirittura determinare la formula di quella narrativa, riconoscere in una sorta di uguaglianza generale, “l’uniformità dello stampo”. Cosa si trovi in questo stampo è analizzato da Serra con grande attenzione; egli sostiene che c’è prima di tutto, del Maupassant e dello Zola, poi del Verga e anche del D’Annunzio e del France. Influssi di cose più moderne non si avvertono, perché gli stranieri più vicini, come Kipling o Rolland sono stati letti e hanno fatto chiasso, ma senza un effetto vero e proprio.

Serra poi nota in questa prosa narrativa tracce del cosiddetto simbolismo e decadentismo della poesia francese che in Italia è stata solo letta ed invidiata. In parole povere Serra non vede un romanzo simbolista che si sia sostituito alla narrativa precedente, ne abbia modificato l’impianto: senso dei personaggi, valore delle vicende in rapporto ad un nuovo sentimento totale della vita e del mondo; riconosce unicamente delle influenze di scrittura esercitate dai poeti del simbolismo. Si potrebbe dire che Serra sarebbe stato disposto ad ammettere in quella narrativa italiana corrente e piuttosto commerciale  un’eccedenza di eleganza e raffinatezza, pensiamo ad esempio alle analisi di Leo Spitzer del simbolismo francese.

Altri iflussi registrati da Serra nella narrativa del 1914 sono la curiosità snobistica di Bourget e certe “novità portate dal linguaggio della cronaca mondana e sportiva”. Le richieste e aspirazioni del nuovo lettore di narrativa, di cui Serra avverte in se la presenza, non miravano al nuovo, ma di certo non si interessavano al vecchio. Dal punto di vista superficialmente economico secondo il quale  l’offerta del produttore è condizionata dalla domanda del consumatore, questo spiegherebbe perché i maggiori narratori del verismo si presentassero ormai come stanchi epigoni e continuatori di se stessi. Il perché probabilmente va ricercato nel nuovo rapporto tra uomo e universo, che si manifesta in tutti i campi della conoscenza, soprattutto nella scienza. Ma Serra non va in cerca di questi perché, si limita a constatare e a descrivere i fenomeni, vedendo in una solitudine sempre  più distaccato Giovanni Verga non più in grado di rigalvanizzare il verismo: <<Il maestro del verismo di perde, ma lo scrittore grandeggia>>. Sempre vivo Luigi Capuana sebbene non aggiunga nulla di rilevante al verismo. Bisogna anche sottolineare come a questo tipo di verismo sia ascritta anche la narrativa di Pirandello, citata come qualcosa di non molto differenziato.

 

Bibliografia: G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento.

 

Matilde Serao: nel ‘ventre’ della sua Napoli

Una personalità come quella di Matilde Serao  (Patrasso 7 Marzo 1856, Napoli  25 Luglio 1927) non ha certo bisogno di presentazioni. Greca ma trapiantata a Napoli, Matilde Serao resta una delle più grandi giornaliste e scrittrici che il nostro Paese può vantare di aver avuto. La Serao fonda quello che poi diventerà <<Il Mattino>> di Napoli ed è la prima donna in assoluto alla quale è riconosciuto un merito simile.

Figlia del giornalista Francesco Serao, la giovane Matilde ha la fortuna di conoscere molto presto il mondo del giornalismo che, di sicuro, non vive un periodo felice negli anni a cavallo tra ottocento e novecento. Questo però le consente di forgiare il suo carattere e raffinare metodo ed attitudine.
Inizialmente riesce, non senza sacrifici, a scrivere attraverso pseudonimi come quello di Tuffolina per il Giornale di Napoli e di Ciquita, una volta trasferita a Roma dove collabora con la nota rivista Capitan Fracassa. Fiera, schietta, immediata nelle sue analisi arriva al lettore in maniera chiara e semplice.

Un focus sul carattere e la determinazione della Serao ci è permesso anche dalla sua unione matrimoniale e professionale con il giornalista Edoardo Scarfoglio che avviene nel 1885. Un momento cardine questo per la storia stessa del giornalismo. I due insoliti innamorati danno vita a qualcosa di potentissimo dal punto di vista della carriera professionale. Inizia tra i due un sodalizio fondamentale per la vita del <<Corriere di Roma>> e poi del <<Corriere di Napoli>> che può vantare anche firme come quella di D’Annunzio e Carducci; premesse queste che inaugureranno la fondazione del <<Mattino>>, il cui primo articolo uscì nel 1892 e di cui Scarfoglio è direttore mentre la Serao, che scelse di firmasi con lo pseudonimo Gibus, è co-direttrice. Paradossalmente, l’equilibrio tra i due crolla ed in maniera inversamente proporzionale al successo del giornale; alcune vicissitudini sentimentali ed alcune inchieste ed accuse sui due impediscono la collaborazione che diventa sempre più aspra ed infelice al punto che la Serao sente di dove lasciare la redazione. Di lì a poco si dedica al Giorno, giornale da lei diretto assieme all’avvocato Giuseppe Natale che sposa dopo la morte di Scarfoglio. Una vita non facile, quella di Matilde Serao, fatta di amori difficili, primo tra tutti quello sacro per il giornalismo.

Matilde Serao: tenerezza e tristezza nella sua celebre opera Il ventre di Napoli

Matilde Serao è anche autrice di diversi romanzi e quello scritto nel 1886 Vita e avventure di Riccardo Joanna viene addirittura definito ”il primo romanzo del giornalismo italiano” da Benedetto Croce. Il romanzo sul quale però intendo soffermarmi è Il Ventre di Napoli .
Dedicato alla baronessa Giulia de Rothachild, Il Ventre di Napoli  si apre con una precisazione che la Serao fa sui diversi momenti in cui è stato scritto il romanzo, distanti tra loro circa un ventennio, prima e dopo il colera, ma ugualmente importanti. La sua è una vera è propria inchiesta giornalistica sulla città di Napoli, di cui denuncia i problemi con una lucidità estrema. Matilde Serao è come se accompagnasse gli uomini e le donne che incontra per le strade della sua amata città e le accompagnasse nella loro vita, nella loro storia. Li tiene per mano quando scende nei ”bassi”, quando entra nelle case dove lavorano le serve, quando li osserva mentre mangiano o si disperano, mentre muoiono di fame o tacciono le loro disgrazie con impressionante dignità. Li segue passo dopo passo con lo sguardo amico ed il cuore aperto.
Scandaglia tutti i colori di questa città, è attenta ai profumi, prova a spiegare e giustificare lo stile di vita dei dimenticati, degli oppressi, di coloro che sono semplicemente infelici e per colpe che non hanno. Ho trovato sorprendente il capitolo in cui ci parla del lotto, visto come opportunità di riscatto per la maggior parte della popolazione sofferente, il lotto come strumento di realizzazione personale e sogno da non infrangere.  Così come ho trovato di un femminismo vero e concreto la sua comprensione verso i problemi in cui incorrono le serve assunte nelle case dei ”ricchi”, completamente annullate in un triste rapporto di schiavitù, risultato della miseria in cui anche e soprattutto le donne versano. Come una madre le accarezza e le difende. Come una grande madre dal ventre accogliente, tiene i suoi figli in grembo e li protegge.

Il senso di protezione verso i napoletani emerge continuamente nelle sue pagine. La salute della sua città e dei suoi cittadini è una causa che la riguarda, che tiene a cuore più di ogni altra cosa perché crede nelle possibilità del suo popolo, tanto che alla fine del secondo capitolo le sue parole esortano ad una presa di coscienza collettiva e ad una riflessione più generale che va a colpire tutti i responsabili del degrado in cui si trova Napoli.

Faccia il suo dovere chiunque, non altro che il suo dovere, verso il popolo napoletano dei quattro grandi quartieri, faccia il suo dovere come lo fa altrove, lo faccia con scrupolo, lo faccia con coscienza e, ogni giorno, lentamente, costantemente, si andrà verso la soluzione del grande problema, senza milioni, senza società, senza intraprese, ogni giorno si andrà migliorando, fino a chè tutto sarà trasformato, miracolosamente, fra lo stupore di tutti, sol perchè, chi doveva si è scosso dalla mancanza, dalla trascuratezza, dall’inerzia, dall’ignavia e ha fatto quel che doveva.
-Napoli, primavera 1904

Ma l’amore e la forza d’animo della Serao presenti nel Ventre di Napoli sembrano non bastare anche quando si scaglia con rabbia e forza contro certi meccanismi e certe realtà.
Matilde Serao, quando ritorna a Napoli, è profondamente delusa e consapevole che il cambiamento per far sì che avvenga deve coinvolgere tutti, dal basso come dall’alto. Ben’oltre il paravento di cui ci parla.
E non è forse dietro il paravento che, ancora oggi, si nascondono problemi e responsabilità di una città ormai da secoli martoriata e penalizzata per scelte sbagliate? E questo scelte vi assicuro che la Serao le spiega. Scelte retoriche e sbagliate praticamente da sempre. Scelte volte esclusivamente a salvare la faccia. E questo già due secoli fa.

Letteratura e religione, un rapporto indissolubile

“La luce stessa è tenebra profonda” (Giobbe 10, 22). Forse questo è il versetto che meglio descrive quello che succede nei fondamentalismi religiosi: il pensiero, la religione possono essere strumento di morte. Ai primi fatti eclatanti di cronaca riguardanti stragi religiosi rispondiamo sempre sorpresi, quando invece la storia ci ha insegnato che questo tipo di crudeltà sono sempre dietro l’angolo. Oggi più che mai. Un punto di partenza per capire il nostro tempo, le sue contraddizioni, può senz’altro essere quello di concentrarsi a fondo sulle espressioni che il pensiero religioso ha prodotto.

Preambolo un po’ atipico questo, per un sito che si occupa fondamentalmente di letteratura, ma in realtà è proprio da questa espressione del pensiero umano che si dovrebbe partire. Come scrive chi crede? Cosa scrive chi crede? Come lo spartiacque della religione come ha influenzato le produzioni letterarie del Novecento, il secolo della psicanalisi?

Navigando nel secolo in cui “Dio è morto”, non si può far altro che mettere a confronto autori che credono e autori laici: una suddivisione netta che lascia il tempo che trova, ma che proprio per questo, deve essere smontata e ricomposta. Ed è questo quello che si farà in questo spazio tematico: un confronto “laico” tra testi e autori, senza pregiudizi di sorta o parteggiamenti. Quello che emergerà dai testi servirà come spunto di riflessione per comprendere la realtà in cui viviamo, a capire se il Novecento è davvero finito oppure se si è solo trasformato.

Quanti buoni cristiani e bigotti, ci sono fra i laici e i rivoluzionari del Novecento, o viceversa, quanti veri rivoluzionari ci sono tra i cristiani del nostro tempo? Riflettere sulla letteratura, cioè su come si attualizza e si rende pratico il pensiero degli uomini, può portare anche a riflessioni del genere.

Italo Svevo fa dire a Zeno Cosini: “Se credessi in Dio, non farei altro che pregare”: e ora che non c’è più? Chi ci crede ancora? Chi è che si ostina? Chi vuole credere ancora in Dio? Tocca fare tutto da soli?  Possiamo aver guadagnato dalla morte di Dio? Se è morto Dio, è morta anche la religione? Probabilmente no. Anzi, proprio perché Dio è morto, lo si deve cantare con più forza, la fede deve rinsaldarsi, l’unione con Dio ora può essere ancora più morbosa, in nome dello smarrimento della società contemporanea. Svevo ha avuto come maestro uno scrittore di origine cattolica, ovvero quel James Joyce che si era formato in seminario cattolico su testi di Tommaso d’Aquino e che teorizzava come epifanie i modi di manifestarsi dell’essere dentro i più trascurabili fenomeni quotidiani.

La morte di Dio, che è anche metafora della morte di un padre in cui credere, provoca in Svevo quella indifferenza che può chiamarsi nevrosi, male di vivere, male invisibile o oscuro. Come combattere quell’indifferenza? Forse non cercando Dio, che ormai non esiste, ma cercando l’originalità, l’originalità del pensiero, il rinnovamento laico, “cercando l’uomo”, per dirla alla Diogene.

Insomma, pensare una cosa nuova, logica, e crederci: questo pare che vogliano Palazzeschi, Gadda, Bontempelli, Alvaro e tanti altri. I laici possono benissimo avere fede nella scienza e nell’uomo, in un modo che non contrasta con la fede religiosa.

Il Novecento è il secolo dell’uomo al centro di tutto: e per “uomo” si intende anche il suo smarrimento, come ci rammenta T.S. Eliot nella sua Waste Land, che testimonia lo smarrimento dell’uomo contemporaneo privo del senso del sacro. In questo spazio tematico, dunque, si tenterà di tirare le fila di tutti questi spunti fin ora venuti fuori, confrontando chi ha creduto e chi no. Per tentare di capire cosa cambia e cosa resta uguale.

I narratori da considerare cattolici con ruolo di protagonisti sono effettivamente pochi: alla rinfusa, per dare una idea, contiamo, tra gli altri: Rebora, Ungaretti, Luzi, Pizzuto, Testori, Boine, Soldati, Buzzati, Pierro, Campanile, Turoldo, Bonura, Crovi, Pomilio.

Quelli che si sono sentiti abbandonati da Cristo, invece, sono molti di più. Alla rinfusa, per darne una idea, ecco quelli imprescindibili: D’Annunzio, Pirandello, Bontempelli, Marinetti, Soffici, Palazzeschi, Gadda, Montale, Svevo, Saba, Michelstaedter e Savinio. Possono bastare questi, ma ce ne sarebbero molti altri che sarebbe meglio scoprire man mano. Paradossalmente, se ci si pensa, senza di loro il Novecento sarebbe molto meno cristiano.

“A te, solo a te, io faccio sapere che non esisto”, fa dire Zavattini in dialetto emiliano a Dio apparso in sogno nel suo Totò il buono.

 

 

 

 

Mrs Dalloway: la complessità della vita in una sola giornata

Se dovessimo descriverlo attraverso poche parole, diremmo sicuramente che Mrs Dalloway di Virginia Woolf questo rappresenta uno dei più bei , intensi e riusciti romanzi scritti durante il primo Novecento. Pubblicato nel 1925, il romanzo narra la giornata di Mrs Dalloway e di altri personaggi mostrati, dall’autrice, sia in primo piano che sullo sfondo.

La storia di “Mrs Dalloway” si svolge in una sola giornata, qualche anno dopo la Prima Guerra Mondiale, sufficiente però a ritrarre la complessità della vita, il predominio delle mente che tutto assimila e l’instancabilità del pensiero che trascende lo spazio, mescolandosi con i ricordi.

In Mrs Dalloway, l’autrice utilizza la tecnica del monologo interiore per descrivere uno scenario in cui, la nostra protagonista, la cinquantenne borghese  signora Dalloway, si mostra quale rappresentazione della società britannica di inizio Novecento, con i suoi pregi e i suoi difetti. Una società snob, una donna che la incarna e un uomo, Peter Walsh, consapevole di ciò ma che, nonostante tutto, non riesce a smette di amarla. E così, fugge. Da ciò che rappresenta quell’amore-odio dal quale non si può scappare.

Un oggetto porta e nasconde in se il mistero di un ricordo perso e forse, soffocato dall’inconscio. Così il movimento ondeggiante di una foglia può ricordare a Clarissa la passione per la danza o le lunghe cavalcate a Bourton. L’incontro con Hugh Withbread porta alla donna, ancora una volta, nel mondo dei ricordi legati alla sua giovinezza. Ma resta il pensiero di Peter, ad accompagnare le ore che scandiscono il tempo. E ancora lei, Clarissa che prende vita in queste 200 pagine portando con se un alone di mistero per quella malattia dalla quale è appena uscita ma di cui, la Woolf, non parla mai in modo diretto. Quasi volendola celare con ostinazione e vergogna.

Parole, quelle della Woolf, che mostrano un dolore celato dagli eventi, un dolore che altri non è se non quel “mostro, quell’odio come un formicolio lungo la schiena”. Tutto il dolore che si rispecchia in un’autrice che, prima di riuscirci, ha tentato più volte di strapparsi la vita. La stessa Woolf dirà di sè :“Quando scrivo non sono che una sensibilità. A volte mi piace essere Virginia, ma solo quando sono sparsa, varia e gregaria.

La narrazione di Mrs Dalloway si sofferma su diversi avvenimenti che riguardano persone differenti e vari punti di Londra, ma che avvengono tutti nello stesso momento. Un attimo che si estende trascinando con se il lettore in un’opera letteraria senza tempo.

Il tempo, è lui il vero protagonista. Non possiamo trascurare il particolare legato al titolo che, inizialmente, la Woolf, voleva dare al suo libro, “Le ore”. Ogni personaggio viene ad essere caratterizzato dal suo rapporto con il tempo. Ma quel tempo, questo tempo, non è solo quello esterno, quello che riusciamo a captare attraverso le informazioni date dall’autrice, una data, un periodo storico, i rintocchi del Big Ben. Il tempo, quello che travolge il lettore, è quello interiore di ogni personaggio, quello collegato a quelle caverne di cui la Woolf ci parla nel suo diario.

Avrei molto da dire intorno a “Le ore” e alla mia scoperta: come io scavi bellissime caverne dietro i miei personaggi, questo mi sembra dia proprio ciò che voglio: umanità, profondità, umorismo. L’idea è che le caverne siano comunicanti e ognuna venga alla luce al momento giusto.” (Virginia Woolf, “Diario di una scrittrice”, 29 agosto 1923)

E qui, in queste pagine, nasce l’alter ego di Septimus, il cui tragico suicidio coinvolgerà e turberà Clarissa. Ma non ci sarà pietà per quest’uomo che, secondo la nostra protagonista, mostra così, attraverso il suicidio, il suo egoismo. Clarissa si immedesima così nel giovane suicida, spinta da una profonda riflessione sulla sua vita, il suo primo pensiero alla notizia del suicidio di un ragazzo di trent’anni è: «Oh… Nel bel mezzo della mia festa, ecco la morte» trovando sconveniente che a una festa si parlasse di disgrazie. E ancora una volta appare quell’egoismo che rappresenta il suo carattere, quello snobbismo che mostra una società intera. Appresa la notizia, Clarissa si rifugia nella sua camera mostrando una maleducazione proprio dell’ Inghilterra del primo Novecento.

Lei è la nostra anti-eroina, a mostrarci un romanzo che, ancora una volta, mostra la forza di una scrittrice fuori dagli schemi, una donna che affermava di andare in depressione dopo aver finito di scrivere un libro. Una donna, unica e sola, in grado di descrivere quella realtà di cui ancora oggi facciamo parte, con le nostre fragilità, i nostri dubbi, le nostre incertezze, le nostre paure. Un mondo reale descritto attraverso parole che potrebbero essere rilette mille e mille volte ancora, portandoci in quella Londra del ‘900 probabilmente ancora attuale.

Parole, domande, incertezze, ricordi. E quel finale attraverso cui giungiamo dinanzi ad una sola realtà: la vita, con tutti i suoi momenti, le persone che incontriamo, con tutte le loro mille contraddizioni, gli errori, i ricordi, che sono da sempre la nostra forza, mostrano la certezza di una vita sempre degna di essere vissuta.

“Che cos’è questo terrore? Che cos’è quest’estasi? Che cos’è che mi riempie di un’emozione senza pari?” A chi di noi non è mai capitato di vivere intensamente un solo attimo, tutta una vita con le sue complicazioni in una sola giornata?

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