“Gli alberi dell’orgoglio”: tra scienza e superstizione

Gli alberi dell’orgoglio è un racconto contenuto ne L’uomo che sapeva troppo che Chesterton pubblica nel 1922. È un libro cardine diverso dagli altri contenuti in questa silloge: si tratta infatti di un giallo (come gli altri quattro, d’altronde), ma si caratterizza per presentare risvolti inaspettati, riguardanti l’uomo e lo scontro tra le sue paure irrazionali e la realtà.

La storia ruota intorno alla leggenda (inventata dall’autore) di tre alberi provenienti dall’Africa che avrebbero un’influenza malvagia, come affermano i contadini: forse infatti sono la causa della tremenda epidemia di peste scoppiata nelle vicinanze. Vane, il padrone del giardino dove si riuniscono i personaggi (l’amico Cyprian Paynter, il poeta John Treherne e il dottore Brown, pedina fondamentale nel racconto).

Tu cammineresti sotto una scala un venerdi per andare a cenare a un tavolo con tredici persone, ognuna delle quali farebbe cadere il sale sul tavolo”: questo è Vane, un razionalista fino al midollo che mai accetterebbe di tagliare gli alberi pavone nel suo giardino, come invece vorrebbero i giardinieri e il taglia legna. L’evento scatenante è però la morte della figlia del taglialegna: a questo punto Vane è deciso a smascherare la superstizione legata agli alberi pavone (simili a dei bambù, a quanto si capisce). La notte stessa entra nel bosco e va in direzione degli alberi incriminati. Di lui non si saprà più nulla. A questo punto nasceranno intrighi e supposizioni sulla scomparsa del proprietario della tenuta: verrà rinvenuto uno scheletro, un teschio e le cose si complicheranno per poi disvelarsi alla ri-appariazione di Vane.

Era quindi tutto frutto di una messa in scena: lo scheletro trovato nel pozzo non era di Vane, ma era stato messo dal dottor Brown, al quale Vane si era rivolto per trovare complicità nello smascherare la superstizione degli alberi di pavone. Peccato che non c’era nessuna superstizione da smascherare: gli alberi erano effettivamente nocivi: lo aveva provato lo stesso dottor Brown con i suoi studi e i suoi riscontri. Allora Vane si sbagliava: gli alberi, durante la sua assenza, erano stati fatti abbattere.

Il primo caso di leggenda popolare che “scredita” la verità scientifica: come può una susperstizione popolare avere ragione sui fatti? Non c’è la scienza per questo? I contadini “ignoranti” che avevano diffuso la credenza mistica della malvagità di questi alberi rappresentavano una aberrazione verso il metodo scientifico del dottor Brown. “Avevo contro di me qualcosa di più schiacciante e definitivo dell’ostilità degli eruditi; avevo il supporto degli ignoranti”: è questo quello che dirà alla fine il dottore. D’altronde Vane non si era mai lasciato persuadere a far abbattere gli alberi pavone, proprio perché pensava che il dottore fosse tremendamente suggestionato dalle paure superstiziose dei contadini.

Verità scientifica e misticismo, in questa piccola ma interessante opera di Chesterton, si sovrappongono, invitando a riflettere a tutto tondo: esistono i depositari della verità? Di chi ci si può fidare? Quanto conta il giudizio della gente? E la scienza? Ha davvero tutto questo potere, anche quando si trova in situazioni di imbarazzo, cioè a dover affrontare i pensieri e le paure irrazionali dell’uomo?

È sempre il Dio contro la Scienza, come sempre la costante delle produzioni di Chesterton: ma stavolta queste due entità giocano in squadra insieme, si completano. Allora il problema è “solo” l’irrazionalità dell’uomo, come e quanto si faccia influenzare e suggestionare da tutto ciò che lo circonda, come, quando c’è di mezzo la morte, non perda un attimo a sfoggiare il suo istinto bestiale di auto conservazione: combattere la morte, in questo caso, gli alberi di pavone. Senza pensarci due volte e senza farsi troppe domande. Vane rappresenta la scienza, la razionalità, che in questo caso fallisce, si deve arrendere e deve subire l’onta di condividere il podio con l’ignoranza dei contadini, dell’uomo. Anche Vane, se vogliamo, si era buttato a capofitto in un convincimento che non aveva basi scientifiche: gli alberi pavone non erano la causa dell’epidemia. Il dottor Brown dimostrerà il contrario. E allora il razionale Vane e gli ignoranti contadini sono sullo stesso piano? Probabilmente sì. Sono entrambi a loro modo irrazionali, vittime delle proprie convinzioni: ma solo uno avrà ragione, con l’aiuto della scienza, cioè il dottor Brown. Ma la scienza, in questo caso, era stata scalzata dalla potente influenza mistica, avrebbe perso di credibilità, anzi non l’avrebbe per niente avuta. Da qui lo stratagemma nello stratagemma di Vane per far abbattere gli “alberi della morte”.

 

Dio e mistero nell’universo di Gilbert Chesterton

Gilbert Keith Chesterton, autore caratterizzato dalla particolare sensibilità per le tematiche religiose e di fede, con L’uomo che fu Giovedi, pubblicato nel 1908, sembra voler cacciar fuori tutte le angosce e paure legate alla figura di Dio. Di un Dio o di Dio? È questa la domanda che forse emerge in questo particolarissimo romanzo, forse mai tanto considerato dalla critica.

L’uomo che fu Giovedì è a metà tra un thriller, un giallo, una descrizione onirica.
“C’era un lampione danzante, un melo danzante, una nave danzante: si sarebbe detto che il ritmo irresistibile di un musicista pazzo avesse trascinato tutti gli oggetti più comuni del campo e della strada a danzare una giga delirante”: è facile rimanere colpiti da questi squarci di stile sognante nel racconto.
L’intreccio tra metafisica, religione e sogno è la vera intelaiatura del racconto, ricoperta da questi squarci di particolare stile descrittivo. Il protagonista, Gabriel Syme, quando entrerà a far parte del segreto Consiglio Centrale Anarchico, si renderà pian piano conto di come un fitto mistero avvolge anche il loro capo supremo, che ha il simbolico nome di Domenica. Perché tutti i sei saggi che compongono questa setta segreta (oltre appunto al loro capo) hanno un nome come quello della settimana: a Syme, toccherà “Giovedi”.

Suggestivo è il rapporto tra l’essere poliziotto e l’interesse per l’anarchia:“Gabriel Syme non era solo un agente di polizia con pretese di poeta: era in realtà un poeta diventato agente di polizia”. La lotta senza quartiere che si instaurerà, a un certo punto, anche tra i sei saggi, l’intreccio di sospetti e di situazioni che si verranno a creare, decreterà un turbine di angoscia e ansietà, che le atmosfere oniriche del racconto contribuiranno a rendere, in alcuni punti, asfissiante. L’anarchia che, appunto, si leggerà in filigrana tra le pagine del romanzo, non riguarderà più la lotta dei saggi verso le genti del mondo, ma anche e soprattutto i loro intimi pensieri e ambizioni.

La lotta tra Lucian Gregory, anarchico anche nella “vita reale”, anche lui candidato a occupare un posto tra i sei saggi, e Syme, a lungo andare si fa complicata, coinvolge anche gli altri elementi del consiglio, e finisce per generare un vero inestricabile caos. In tutto ciò i saggi sono afflitti dal dover trovare un senso ai propri intenti, capire cosa cercano in realtà, quale è il senso della loro anarchica lotta nel mondo. Ecco cosa pronuncia loro Domenica: “Volete sapere che cosa sono io? Bull (Sabato), tu sei uno scienziato, fruga intorno alle radici di questo albero; Syme (Giovedì), tu sei un poeta: fruga in quelle nuvole mattutine. Ma io vi dico che avrete scoperto la verità fin sull’ultimo albero e fin sulla nube più alta, prima di scoprire la verità su di me. Voi capirete il mare, e io sarò ancora un enigma; saprete che cosa sono le stelle, e non saprete che cosa sono io”. Ma chi è Domenica? Sarà forse Dio? Il Dio che Syme-Giovedi teme incredibilmente e contro il quale cerca di combattere? E’ forse questo il vero senso della “ricerca anarchica”, vera protagonista del romanzo? L’ineffabilità di Domenica, il supremo che li comanda, serpeggia tra le pieghe di tutto il romanzo e rende incomprensibile il senso delle azioni dei personaggi (almeno fino a che non si arriva alla fine del racconto). L’atmosfera onirica induce a pensare che Syme sta sognando, forse un incubo, ma ciò non viene mai disvelato al lettore. 

Solo alla fine si legge: “L’esperienza di Syme era stata assai più strana, dal punto di vista psicologico, se pure ci fu davvero qualcosa di irreale, in senso terreno, nelle avventure per cui era passato: mentre, infatti, poté sempre ricordare, in seguito, di essere svenuto davanti al viso di Domenica, non riuscì mai a ricordare di essere tornato in sé”.

Cosa ci vuole comunicare Chesterton? È stato un sogno? La lotta di cui sono stati protagonisti, le battaglie e gli intrecci durante tutto il romanzo, cosa sono stati in realtà?

È il cercare di definire l’identità di Syme la questione che più stimola chi legge: Syme, ribellandosi al misterioso Domenica , fa forse da esempio a non arrendersi mai nelle lotte, ad aver coraggio, a non farsi soccombere da paure e privazioni. I richiami alla religione ci sono e sono forti, molte le allegorie: ma questo sembra intrecciarsi con la ricerca, con la volontà di capire se esiste e chi è Dio, se ha senso combatterlo o abbracciarlo. Senza dubbio l’esperienza personale dell’autore rientra molto tra le pagine di questo libro: Chesterton aveva trascorso un periodo di profonda crisi personale, da cui si era risollevato abbracciando teorie spiritische. Anche la sua storia con la religione è molto particolare: solo tardi nella sua vita, in età più che matura, deciderà di riabbracciare la fede cattolica, grazie alla figura di padre O’Connor, sul quale modellerà il padre Brown della sua omonima saga.

Tanto mistero, tanti interrogativi, nessuna risposta: questo sembra voler comunicare questo strano ma coinvolgente racconto che non si riesce a comprendere mai fino in fondo: ma forse è questo quello che vuole l’autore. D’ altronde, come potrebbe mai essere un romanzo in cui si cerca di capire il mistero per eccellenza?

 

Il fantastico mondo di Laxness: quale Dio “sotto il ghiacciaio?”

Sotto il ghiacciaio: un romanzo irriverente di difficile collocazione: fantascienza? Allegorico? Religioso? Forse c’è un po’ di tutto questo nel romanzo del premio nobel del 1951 dello scrittore islandese Halldór Laxness.

L’interpretazione della storia che si articola in Sotto il ghiacciaio, scritto nel 1968, non è di facile comprensione: a tratti appare quasi come un giallo da risolvere. In effetti è proprio quello che è chiamato a fare il protagonista, studente di teologia, inviato dal vescovo d’Islanda nel lontano ovest, ai piedi del leggendario vulcano Snæfell, dove Jules Verne fece iniziare il suo viaggio al centro della terra. Giunta infatti notizia che il pastore della chiesa locale non celebra più battesimi e funerali, insomma sembra esserci qualcosa che non va.

Il giovane studente si troverà quindi ad essere un reporter in una terra difficile, fuori dall’ordinario: dovrà tentare di capire cosa si annida tra la gente del luogo e cosa spinge il pastore a comportarsi in maniera così strana. Verrà quindi a contatto con le varie persone del luogo, vivrà per un certo periodo di tempo “sotto il ghiacciaio” e si farà una idea degli usi e costumi dei queste genti.
Il famigerato “culto del ghiaccio”, che sembra aver soppiantato il cristianesimo, è una dottrina sfuggente, che nel corso del racconto non è mai spiegata in maniera chiara. I dialoghi e gli argomenti sono di difficile comprensione, ma, una volta inseritisi nella “mentalità” delle vicende, anche i concetti più strani si definiscono con una loro logica.

È il panteismo contro la dottrina di Dio: lo strano reverendo John  afferma che “un dio vale l’altro, tranne quello che risponde alle preghiere” e non riesce a dare una spiegazione compiuta di cosa volesse dire che dio è in ogni luogo. È questo quello su cui gioca Laxness: una indefinitezza di fondo, una allegoria totale verso un qualcosa che non può mai essere del tutto compreso.

La contrapposizione che ne esce fuori, dottriva vs misticismo, è da leggere in prospettiva ampia, senza badare troppo ai particolari, lasciandosi trasportare dalla narrazione a volte di echi bucolici, a volte di echi favolistici (suggestiva la descrizione del paese e del suo ghiacciao).
Il mondo  paradossale, onirico, spirituale, dove succedono cose strane, si dicono cose strane, e non mancano personaggi davvero stravaganti: riuscirà l’inviato-teologo a raccapezzarsi? Forse Laxness ci vuole far capire lo spaesamento di ritrovarsi in un mondo che non riconosce più la fede millenaria nel Dio cristiano. L’idea del pellegrino che va e che scopre altri mondi è strettamente moderna, ma si ricollega, in questa occasione, a un tutto panteistico, l’uomo che fa i conti con le profondità del pensiero religioso, seppur in maniera favolistica.

Ad ogni modo ne viene fuori  una visione ironica e onirica, proprio perché i dialoghi tra i personaggi assumono le caratteristiche di una assurda complessità, incomprensibile, impenetrabile: il modo di affrontare il tema della crisi della religione, da parte di Laxness, definito da molti “sincero credente ma dubbioso cattolico”, lascia col sorriso, e forse solo dopo aver completato tutta l’immersione nel mondo da lui descritto, ci si può rendere conto della sua idea sulla religione, particolare e criptica.

 

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