‘Il cuore delle cose’ di Natsume Soseki. Un tesoro dimenticato

Nel 1999, all’alba del nuovo millennio, il Los Angeles Times organizzò un simposio dedicato ai “tesori dimenticati” della letteratura del novecento. Kundera, ad esempio partecipò consigliando la lettura de L’uomo senza qualità di Musil (“È attraverso le situazioni dei suoi personaggi che Musil raggiunge un’ineguagliabile diagnosi esistenziale del nostro secolo …”). Al simposio un altro scrittore, Simon Leys, sinologo e storico dell’arte di origine belga, selezionò invece quattro opere, già “giustamente famose”, ma che non hanno “raggiunto il più ampio numero di lettori che chiaramente meriterebbero.”  Fra queste era uno degli ultimi romanzi del forse più celebre degli scrittori giapponesi del novecento, Il cuore delle cose di Natsume Soseki – del 1914, titolo che tenta di rendere un termine giapponese intraducibile, Kokoro.

Leys scrive che non conosceva “altri romanzi scritti nel nostro secolo che posseggano una tale misteriosa semplicità – una stessa sottile e straziante purezza”.

Nell’introduzione alla traduzione inglese dell’opera che Leys consigliava, di Edward McClellan, lo studioso di Soseki Damian Flanagan scriveva (prima di dare la sua definizione del titolo, che “significa ‘cuore’, ma nel senso emozionale e spirituale, piuttosto che fisico della parola”):

“Congratulazioni, caro lettore, per aver appena comprato uno dei più grandi capolavori della letteratura mondiale – tieniti forte, però, perché ti aspetta un giro su delle montagne russe. 

Kokoro è semplicemente fantastico – un Grande Gatsby con più anima – e leggerlo sarà, per alcuni, un’esperienza sconvolgente. Ma il romanzo può anche essere un’anguilla sfuggente, difficile da acciuffare come da tener ferma, ed esplorarla potrà sembrare di errare per un labirinto psicologico pieno di porte ingannevoli. E che a volte tutto di esso sia come un Giano bifronte.”

Consapevole di ciò, qui prendiamo in considerazione una di queste facce, segnata da una tra le più profonde esperienze che caratterizza  il modo di vivere dell’uomo: la colpa. Un aspetto, o una logica che, di nuovo, Simon Leys ha catturato una volta splendidamente:

“Più che la bellezza artistica, la bellezza morale sembra avere il dono di esasperare la nostra triste specie. Il bisogno di trascinare tutto al nostro miserabile livello, di infangare, di deridere, e degradare tutto ciò che ci domina con il suo splendore è probabilmente uno dei tratti più desolanti della natura umana.” 

Da “L’impero della bruttezza”, in Le bonheur des petits poissons, JC Lattes, 2008

Da qui si potrebbe iniziare per fare alcune considerazioni. Per esempio che, in quanto a forza distruttiva, in effetti, l’uomo è probabilmente l’animale migliore che esista sulla terra – ed è proprio contro questo che si basa tutta la saggezza, ogni tipo di morale.

Questo modo di vedere illuminerebbe la nostra concezione, ad esempio, dell’istruzione o l’educazione, tema che ci tocca da molto vicino. E del resto, uno dei due protagonisti, il personaggio che dice “io” e di cui non conosciamo il nome nelle prime due delle tre parti del romanzo di Soseki, è proprio uno studente universitario alla fine della sua carriera accademica.

Il ragazzo incontra, un giorno, in una casa da tè sulla spiaggia in una località balneare non lontano da Tokyo, tra “una grande quantità di teste nere che ci ostruivano reciprocamente la vista”, l’uomo che chiama Sensei – più vicino, annota McClellan, al senso della parola francese maître che a quello dell’inglese teacher,– e sul quale sarà incentrata la terza ed ultima parte. Sensei è un accademico solitario e isolato, in evidente contrasto con il mondo accademico.

Si diceva che l’istruzione, che potremmo chiamare anche “addestramento”, in gran parte oggi orienta gli studenti quasi esclusivamente verso uno sviluppo in senso quantitativo di certe capacità, basandosi su una griglia valutativa di premi o punizioni per la loro dimostrazione esteriore. Ma la bravura di un uomo, non sta meramente in qualche cosa di preciso che sa fare, ma in ben altre capacità, nella pienezza insomma della sua umanità.

L’obiettivo finale è chiaramente il denaro (nel romanzo di Soseki, si trova a proposito questo semplice e illustrativo passaggio: il giovane studente e Sensei stanno discutendo di che cosa sia un uomo “cattivo”; uno, il più anziano, dice:

“Non c’è un vero e proprio stereotipo di uomo cattivo. In condizioni normali, tutti sono più o meno bravi, o, almeno, normali. Ma tentali, ed essi potrebbero cambiare improvvisamente. Questo è ciò che spaventa tanto degli uomini.”

Poco dopo, il giovane, non resistendo più vuole sapere di che tipo di tentazione parla l’anziano, al che quest’ultimo risponde semplicemente: “Il denaro, no? Di fronte al denaro, anche un gentiluomo diventa ben presto un farabutto”); il criterio di valutazione principale se gli studenti siano o meno in grado di fare qualcosa. Nel frattempo, la persona dietro alla cosa fatta può piano piano ritirarsi, fino a scomparire.

 

Alessandro Burrone

‘Piccoli racconti di un’infinita giornata di primavera’, la felicità legata ad un momento secondo Natsume Soseki

Più che un’opera di fantasia, Piccoli racconti di un’infinita giornata di primavera di Natsume Soseki è l’insieme di esperienze realmente vissute dall’autore, scritti inventati e sperimentazioni stilistiche. Ciò che li lega non è un tema o un genere, ma piuttosto una sensazione, un desiderio molto umano. Quello di volere che il tempo si dilati, che non arrivi mai la fine di una giornata splendida, che le lancette di un orologio immaginario rallentino a dismisura. Questo è il leitmotiv della raccolta di Soseki, la necessità di apprezzare ogni singolo lungo attimo. È lo stesso titolo originale a indicarcelo, infatti la parola eijitsu in cinese antico (lingua che Soseki conosceva molto bene) significa “giornata lunga di primavera, una giornata in cui il sole sembra non tramontare mai”. In giapponese il concetto ha perso quella connotazione stagionale, andando a inglobare qualunque giornata infinita e coniugandoci l’idea che sia l’uomo stesso a volere che quel tempo si dilati e rallenti. I personaggi di Soseki rimangono in una sofferta attesa, di un’evento, di una persona, di un’emozione, di un alito di vento, cercando di rivivere la felicità di un momento passato, nella speranza che non possa finire mai.

I venticinque racconti sono brevi e intensi. Due racconti in particolare meritano nota: quello del serpente per la veemenza della pioggia, la vera protagonista di una battuta di pesca. Davvero suggestivo. La vicenda vede protagonisti un ragazzo e suo zio, durante un diluvio vanno a pescare, imbattendosi in un grosso serpente d’acqua. Nel mezzo della lotta sincopata con l’animale si ode una voce, ma chi ne sia il proprietario rimane un mistero, fluttuante sulle loro teste, incastrato a forza tra i goccioloni neri del temporale. Il secondo scritto che non può lasciare indifferenti è La tomba del gatto, che ci consegna uno scrittore delicatissimo, nostalgico e parole piene d’amore e di stupore. Difficile stabilire se sia parte di quelle memorie di vita di Soseki o sia piuttosto frutto della sua immaginazione, né è di grande importanza scoprirlo. Affascina dalla figura ieratica di questo gatto casalingo, ma ormai vecchio e stanco. Da che tutti paiono indifferenti alla sua presenza costante si ritrovano poi, dopo la sua dipartita, ad onorare la tomba ogni giorno. Lo scrittore, più di tutti, pare accorgersi che il gatto si consuma con lentezza e in silenzio, ma si sente impotente. In questo racconto l’attesa è quella di un evento, che solo una volta passato si concretizza e acquisisce materialità.

Capodanno, Il ladro, L’incendio, L’uccello di montagna, Kigensestu, La sfilata, Il denaro, Il cuore e Il cambiamento raccontano episodi della vita di Soseki. Sprazzi difformi e diapositive vivide di ricordi, chissà perché rimasti più impressi di tanti altri nella mente dell’autore. Scene domestiche, che per la maggior parte lo vedono protagonista insieme ai suoi allievi e ad altri scrittori. Anche le donne hanno un ruolo particolare nei racconti, sembra che la loro importanza debba ancora essere definita. Sono forme fluttuanti, come offuscate da un velo che ne lascia intravedere solo alcune parti o certi comportamenti. Sfuggono.

Il caco, Un essere umano, Monna Lisa, La voce, Lavori proficui e Kakemono (supporto di carta o seta da appendere, su cui poi viene incollato un’opera o un dipinto da esporre) sembrerebbero vere e proprie storie inventate, puri atti di narrativa. È qui, più che nelle altre scritture, che troviamo la volontà di Soseki di sperimentare. Il suo stile era ancora in continua evoluzione.
Del suo soggiorno in Inghilterra (Soseki visse là per due anni, dal 1900, per fare ricerche sulla lingua inglese) parlano gli scritti L’odore del passato, Pensione familiare, Un sogno di tepore, L’impressione, In tempi antichi e Il professor Craig. Questi racconti condensano le memorie dell’autore. Le sue forti e profonde sensazioni di estraneità nei confronti degli inglesi e del vivere occidentale, è questo che traspare più di tutto leggendoli. Di questo gruppo di scritti inglesi molto bello è La nebbia.

La grandiosità e particolarità delle descrizioni di Soseki è che sono reali. Leggendole si ha la sensazione che da qualche parte stia succedendo sul serio, che quelle parole così vivide prendano forma. Hanno consistenza sotto le dita e non svaniscono subito dopo aver chiuso il libro, permangono in una dimensione altra ubicata tra la nostra mente e la nostra pelle. Molto forte è la componente poetica della sua prosa, spesso vi capiterà di imbattervi in frasi e incastri di parole che assomigliano molto di più a una poesia. Questa è la forza della sua scrittura, così attuale anche nella contemporaneità.

Quando, rimasto senza fiato, mi fermai e guardai verso l’alto, le scintille mi passavano già sopra la testa. Volano a migliaia verso il cielo stellato, limpido e profondo, per scomparire poi all’improvviso. E nello stesso momento, sospinta dal vento su tutta la superficie, una nuova ondata brillante compare dappresso furiosamente, inseguendomi scintillando, per poi scomparire, anch’essa di colpo. Se guardo nella direzione da cui volano, si uniscono in un’unica radice, come se ampi getti d’acqua fossero stati raggruppati assieme, e tingono il freddo cielo senza che resti nessuno spazio libero. C’è un grande tempio buddhista cinque metri più avanti. A metà delle lunghe scale di pietra, da entrambi i lati, grossi abeti si ergono alti, distendendo i rami silenziosi nella notte. Il fuoco si originava proprio dietro di essi; risparmiava intenzionalmente il tronco nero e i rami immobili, ma tutto il resto era di un rosso scarlatto. L’origine dell’incendio era senza dubbio sopra quell’alta sponda. Se mi fossi spostato ancora di un centinaio di metri, salendo per la salita a sinistra, sarei riuscito ad arrivarci.

 

‘Una storia crudele’, il thriller psicologico di Natsuo Kirino che fa trapelare una giustificazione per l’autoalienazione

Non è usanza di Natsuo Kirino andarci leggera con le storie truci e con questo Una storia crudele, romanzo thriller del 2004, ce ne da ulteriore conferma, non è un libro per stomaci delicati. La trama stessa, e non solo la grande capacità introspettiva dell’autrice, lo suggeriscono. La storia parte infatti con una lettera, tanto semplice quanto crudele. Anzi da due. La prima è quella che il marito della protagonista (Ubukata Keiko, conosciuta con lo pseudonimo di Koumi Narumi) invia all’editore di lei, che è una scrittrice, avvertendolo che la donna è scomparsa ormai da due settimane e che ha lasciato quel manoscritto per lui. La seconda lettera è la causa scatenante di tutti gli eventi, che viene inserita dalla stessa Keiko in testa al suo nuovo romanzo, Una storia crudele appunto. Quest’ultima le è stata inviata da Abekawa Kenji, l’uomo, da poco uscito di prigione, che l’aveva rapita quando aveva appena dieci anni. Da qui ci immergiamo nel romanzo di Keiko, che decide di raccontare dopo più di vent’anni la storia del suo sequestro.

Keiko viveva con i suoi genitori in una casa popolare della zona industriale nella città di M., non distante dal quartiere notturno di K. Molto legata alla figura paterna, è invece sofferente alle disattenzioni e alla mancanza d’affetto da parte della madre, punto di riferimento assai evanescente. Una sera la bambina decide di avventurarsi fuori casa per cercare il padre, andando a finire tra le braccia di Kenji. A un certo punto un ragazzo giovane con in braccio un grosso gatto la ferma per la strada, convincendola a seguirlo. Arrivati in un vicolo, lontano da occhi indiscreti, le mette un sacco nero in testa e la rapisce. Per un anno nessuno avrà più notizie di Keiko.

La donna racconta che quella sera d’autunno, mentre era sull’autobus che l’avrebbe riportata dalla lezione di danza sino a casa, già durante quel tragitto che poi sarà destinato a interrompersi, il desiderio manipolatorio del rapitore era mutato in una sorta di presenza attiva nella sua vita. Kenji si era già trasformato in burattinaio e muoveva abilmente i fili della vita della piccola Keiko, questa almeno è la sensazione straziante che ne ha la donna, scrivendo e ricordando. Dal bus, infatti, la bimba vede la cittadina di K. dalle luci scintillanti nell’oscurità imminente. Le passa la voglia di andare a casa e raggiungere la madre sempre distante, vederla cucinare e annoiarsi; vuole andare incontro al padre, sicura che sia a bere con i suoi colleghi in uno di quei locali. Un’impresa quasi impossibile, visto l’alto numero di bar e ristoranti del quartiere, ma che da subito si trasforma in un’avventura entusiasmante agli occhi della bambina. E’ così che, già guardando lo sfarfallio delle lanterne dal finestrino della corriera, Keiko viene spinta dritta per la strada invisibile che la porterà a scomparire per dodici lunghi mesi.
Cosa accadrà durante questo interminabile periodo, mentre la bambina rimarrà prigioniera nell’appartamento del giovane Kenji? Non posso svelarvi tutti i segreti del romanzo, ma posso dirvi che la cangiante mutevolezza dei sentimenti umani, dei pensieri, delle decisioni, delle pulsioni che spingono a sopravvivere, posso dirvi che tutti questi saranno i temi che vi accompagneranno in questa storia a tinte forti, nere.

Abekawa Kenji è un ragazzone di venticinque anni con qualche problema di sviluppo mentale, immerso nella solitudine come un frutto acerbo in un liquore denso. Impossibile per lui liberarsi e riscattarsi da un destino malsano e bieco che è già pronto per lui da tempi immemori. Keiko diventerà la sua migliore amica, le darà anche un soprannome, Micchan. Sarà colei con cui sfogarsi per notti intere sulle ingiustizie che il mondo gli rovescia sulle spalle giorno dopo giorno. Il ragazzo passa le sue giornate tra casa e lavoro, si sente fuori luogo ovunque, tranne quando riesce a condividere i suoi infantili pensieri con il suo piccolo animaletto da compagnia, la bambina rapita. La lettera, che ci introduce nella storia sin dall’inizio del libro, è un tornasole molto cristallino della mente di Kenji e della sua visione distorta del mondo.

Buona parte del romanzo della Kirino è dedicata al ritorno alla vita della bambina dopo la separazione dalla casa del rapitore. E’ un lento percorso quello di Keiko, non viene capita né compresa da nessuno, tanto meno dai genitori e dallo psichiatra che la ha in cura. Come racconta la stessa Keiko nel suo libro-verità, si crea in lei una spaccatura. Di giorno si comporta come qualunque altra alunna e figlia educata, ma di notte inizia a vivere una vita alternativa plasmata dalla sua fervida immaginazione. E’ questo l’unico luogo in cui si sente al sicuro.

Una storia crudele è uno dei libri più crudi di Natsuo Kirino. Con un tono leggerissimo, quasi noncurante, srotola davanti ai nostri occhi un telo colmo di brutture, di brividi lungo la schiena, di esempi atti a dimostrarci quanto la natura umana possa essere incomprensibile. Potremmo dilungarci molto sulla scrittura di questa autrice: grande indagatrice dell’animo umano, le sue frasi vanno dritte al punto, le sue descrizioni sono semplici, ma efficaci, forse uno dei suoi più grandi pregi è quello di saper creare situazioni di disagio, di fastidio nei suoi protagonisti. E la scintilla scocca quando anche il lettore percepisce questa sensazione contro natura: qui si rivela la grandezza di Natsuo Kirino. Il coinvolgimento epidermico è il suo asso nella manica, non manca mai di darne prova. Kirino è molto abile nel dare spazio ad un forte senso di pudicizia e di imbarazzo, tanto potente da poterci addirittura scorgere qualcosa di autobiografico, oltre a far trapelare una giustificazione per l’autoalienazione scaturita dall’incapacità di un mondo adulto idealizzato in maniera negativa.
L’atmosfera generale del romanzo è grigia, dimessa, costituita da immagini distorte o dai molteplici significati in cui i ruoli si ribaltano e si confondono con fatti intricati che vengono resi più sopportabili nello svelamento di contatti tra immaginato e reale.

“Signor Yatabe!” urlai con tutto il fiato che avevo in gola, battendo i pugni contro la porta. “Aiuto! Aiuto!”. Ero sicura che in questo modo Yatabe si sarebbe finalmente accorto della mia presenza. E invece non accadde nulla. La porta si riaprì e venne dentro solo Kenji. Fremente di rabbia, mi mollò un pugno sulla testa, mandandomi distesa al suolo. Un tonfo risuonò nella stanza e dopo un paio di secondi, un dolore pulsante alle tempie, non potei fare a meno di lanciare un urlo. “Micchan, così non va…così non va…così non va”. Mugugnando all’infinito quella stessa frase, Kenji prese a sferrarmi un pugno dopo l’altro sul capo, mentre cercavo disperatamente di parare i suoi colpi con le mani.
“Perdonami… ti prego… non lo farò più!” balbettai tra un singhiozzo e l’altro.
“Stai dicendo la verità?” mi chiese ansimando “Non griderai più? Giuramelo!”
“Sì, sì, te lo giuro, non lo farò mai più, te lo prometto!”.
Com’era possibile che Yatabe non mi avesse sentita urlare? Accortosi del mio sguardo perplesso, Kenji mi fissò con un ghigno diabolico.

E proprio questo è il fascino di Una storia crudele, di una narrazione che la Kirino schiude nella zona liminale fra il sogno e il reale, e, nel gioco di specchi e di immagini rifratte che costruisce, riesce a mantenere alta la tensione e a tenere avvinto il lettore dalla prima all’ultima riga.

‘Tokyo Express’, il noir allusivo di Matsumoto

Con Tokyo Express, noir dal fascino ossessivo del 1943, tutto incentrato su orari e nomi di treni – un congegno perfetto che ruota intorno a una manciata di minuti –, Matsumoto ha firmato un’indagine impossibile, ma anche un libro allusivo, lucido, privo di ridondanze, che sa con sottigliezza far parlare il Giappone.

I corpi di Sayama Ken’ichi e della giovane Otoki vengono ritrovati a Kashii, precisamente sulla spiaggia del promontorio che affaccia sulla baia di Hakata. Sono distesi su una lastra di roccia scura, i vestiti smossi dal freddo vento marino. Dai primi rilievi della polizia è subito chiaro che i due si sono suicidati e le analisi di poco successive confermeranno l’uso del cianuro, anche contenuto in una bottiglietta vuota di succo di frutta posta a fianco dei cadaveri. il caso viene subito etichettato come il suicidio amoroso di due tristi amanti. Iniziano le ricerche per scoprire l’identità dei due corpi e da subito, agli occhi del vecchio ispettore Torigai Jutaro, qualcosa non quadra in quella scena apparentemente perfetta.

Ma facciamo un passo indietro. Una settimana prima del ritrovamento, Yasuda Tatsuo è a cena in un ristorante di cucina occidentale di Ginza in compagnia di due donne, Yaeko e Tomiko. Si conoscono da tempo perché lui è solito portare i clienti della sua azienda a bere nel locale dove lavoravano le ragazze, il Koyuki nel quartiere di Akasaka. Anche Otoki lavora con loro e tutti e tre la conoscono bene. Alla fine della cena Yasuda chiede alle ragazze di accompagnarlo in stazione, deve prendere il treno della linea Yokosuka che parte alle 18.12 per raggiungere Kamakura, dove vive la moglie malata. Quando arrivano al binario il treno non è ancora arrivato e così rimangono a guardarsi intorno e chiacchierare, almeno finché l’uomo non nota un viso conosciuto due binari più in là. Precisamente da dove parte l’espresso Asakaze diretto nel Kyushu, ad Hakata. Tutti e tre si accorgono così di Otoki in compagnia di un uomo, entrambi indossano vestiti da viaggio ed è chiaro che camminano sul binario, apprestandosi a salire sul treno. Yasuda, Yaeko e Tomiko ne rimangono molto sorpresi, visto che non hanno mai sentito la ragazza parlare di un amante o di un fidanzato. La scena si chiude così, nello stupore generale.

L’ispettore Torigai inizia a indagare, ricostruendo il viaggio della coppia e ripercorrendo i luoghi della tragedia. Qualcosa continua a non convincerlo e tutti i suoi dubbi si attorcigliano intorno a uno scontrino trovato nella tasca del cappotto di Sayama Ken’ichi. E’ la ricevuta del vagone ristorante dell’Asakaze, datata 14 gennaio e relativa a un solo coperto. E’ proprio questo il dettaglio che mette in allarme il poliziotto: perché mai la ragazza non ha accompagnato il suo amante a cena? Che avesse già mangiato prima della partenza e fosse sazia? Che stesse riposando nello scompartimento? Tutte queste probabili ipotesi non convincono Torigai e una curiosa conversazione con sua figlia rende il tutto ancora più incerto.

Come a confermare i suoi sospetti, non condivisi dai suoi colleghi di Hakata, arriva direttamente da Tokyo il giovane investigatore Mihara Kiichi della seconda sezione investigativa che si dedica ai casi di corruzione. Infatti si scopre che Sayama lavorava proprio al Ministero della capitale coinvolto in un enorme scandalo. Il poliziotto sembra voler indagare a fondo sul suicidio di questo funzionario chiave per l’indagine, ma da subito fa amicizia con Torigai e quest’ultimo lo fa partecipe dei suoi sospetti. Ben presto anche Mihara si convince dell’esistenza di un vero mistero e, tornando a Tokyo, darà il via alla sua lunga indagine personale.

Lo svolgimento e il finale di Tokyo express sono tutt’altro che scontati, ma anzi mirabilmente narrati dall’autore che sa intrecciare verità e bugia con grande maestria. Infine ci ritroviamo con la ricostruzione di un’inusuale e originale vicenda drammatica, per nulla banale e ben orchestrata. Siamo di fronte a un giallo in piena regola e anzi uno dei migliori esempi di questo genere, a volte sottovalutato ed erroneamente accoppiato al thriller (invenzione molto più recente). Seguire i due investigatori nelle loro elucubrazioni su intenzioni umane, orari ferroviari, coincidenze e sentimenti, è un vero piacere per il lettore. Si viene trascinati con calma, ma è impossibile liberarsi dalla corrente. Si riscontra in Tokyo Express un bellissimo esempio di giallo giapponese di un’altra generazione e  si spera vivamente che siano tradotti per noi molti altri suoi scritti (l’autore non è, come sembra, a noi italiani del tutto sconosciuto. Furono infatti pubblicati, diversi anni fa, alcuni suoi romanzi per la collana Giallo Mondadori).

Senti, Sumiko, tornando dal cinema tu e Nitta siete andati a bere qualcosa?”.
La figlia si mise a ridere. “Che domande sono, papà? Sì, certo, abbiamo preso un tè insieme”.
“Davvero? Allora senti” continuò Jutaro come se gli fosse venuto in mente qualcosa “metti per esempio che Nitta avesse fame e ti proponesse di mangiare con lui, mentre tu hai lo stomaco pieno e non riusciresti a mandar giù nemmeno…”.
“Che strana idea!”.
“Ascoltami. E se Nitta ti dicesse: <Mentre io mangio tu fatti un giro, guarda qualche vetrina>, tu che faresti? Lo staresti a sentire?”.
“Che farei?” ripeté la figlia con aria pensierosa. “Ma no, andrei con lui al ristorante. Se no mi annoierei, scusa”.
“Davvero? Ecco, come pensavo. Anche se non avessi voglia nemmeno di una tazza di tè?”.
“Ma sì. Vorrei comunque stare con Nitta. Se proprio non riuscissi a mangiare niente potrei comunque prendere un caffè per fargli compagnia”.
Appunto, è proprio così, pensò il padre annuendo. […]
“Lo faresti perché non farlo ti sembrerebbe poco gentile nei confronti di Nitta, giusto?”.
“Beh, sì. Non è tanto una questione di appetito, quanto di affetto” rispose la figlia.

 

 

Tokyo Express di Matsumoto Seicho

Haruki Murakami: narratore di storie normali dominate dalla Τύχη che trascende l’uomo

[ads1]Tanto famoso quanto schivo, Murakami preferisce che si parli della sua poetica più che della sua persona, in un atteggiamento quasi antitetico all’altro mostro sacro della letteratura giapponese contemporanea, Banana Yoshimoto. I suoi romanzi, come il suo Paese, risentono fortissimamente degli influssi pop americani, dalla lost generation nella letteratura, al jazz e il blues nella musica e agli anni d’oro di Hollywood nel cinema. Alla prosa postmoderna si unisce una sensibilità tutta orientale, sebbene abbia più volte dichiarato di non amare i narratori più classicisti, come Yukio Mishima e Yasunari Kawabata.

Cosa rappresenta quel piccolo uomo nato il 12 gennaio 1949 in Giappone? Haruki Murakami nasce a Kyoto ma il periodo fondamentale della sua formazione, umana ed artistica, lo passa a Tokyo, dove arriva nel 1968. Per chi non ne fosse a conoscenza, il 1968 non è solo la stagione di Charles Manson e le Brigate Rosse. Il 1968 è una stagione pregna di significato, una stagione di scontri e rivendicazioni che scuote il mondo intero come un terremoto . Anche il Giappone non viene risparmiato da queste scosse telluriche e lo stesso Murakami, un adolescente solitario con il vizio della buona musica e della letteratura, è inglobato in questa spirale; vi assiste, si eclissa ma ne resta segnato, come si può evincere dalla morte del marito della signora Saeki, che in Kafka sulla Spiaggia trova una morte tragica quanto assurda, ucciso in mezzo ai moti rivoluzionari senza alcuna ragione.

Da quest’anno fatidico qualcosa cambia in Haruki, capisce che il fato è qualcosa contro cui non si combatte e decide di vivere come gli pare; invece di formarsi sui polverosi libri di scuola, quei volumi colmi di classicismo stantio, legge avidamente tutto quello che proviene dall’altra parte del mondo, in particolare la letteratura americana, in particolare la “Lost Generation”. Il suo feticismo per il Grande Gatsby è tale da farlo trasudare nelle magnifiche pagine di Noruwei no mori, romanzo sentimentale che lo consacra al grande pubblico. Nonostante ciò, non vi può essere differenza più grande tra Francis Scott Fitzgerald e lui, il primo esibizionista ed il secondo schivo, il primo protagonista dei ruggenti anni venti e il secondo comparsa del riscatto nipponico.

Sebbene delle regole gli sia sempre importato poco, tanto da farsi sospendere dal dormitorio in cui viveva per atti vandalici, riesce alla fine a laurearsi in letteratura, pur con svariati anni di ritardo sul rullino di marcia. Potrebbe essere la rampa di lancio per una carriera di tutto rispetto ma il ragazzo, dopo essersi sposato giovanissimo, decide di aprire un bar e di gestirlo con la moglie. Il luogo di lavoro non è altro che una estroflessione di quello che alberga nei recessi di Haruki Murakami: pareti bianche da riempire di pensieri e nessuna finestra ad ammorbare il suo vastissimo mondo interiore. Sigaretta dopo sigaretta, in quel bar che verrà magnificamente descritto in A sud del confine e a ovest del sole, non ha altro tempo che non sia ripagare il debito che ha contratto per aprire il Peter Cat. Le pareti sono sempre più grigie, in testa vorticano i pensieri ma non si sente ancora pronto, manca ancora la scintilla, manca ancora quel qualcosa che si verificherà nel 1978: in L’arte di correre, Haruki scrive che l’illuminazione per il primo romanzo gli venne da una pallina scagliata in aria da un battitore durante una partita di baseball. Sensibilità tutta orientale. Il primo romanzo è Vento, primo capitolo della “tetralogia del Sorcio” che comprende anche Flipper, Nel segno della Pecora e Dance Dance Dance. Già in questa serie di romanzi vi è tutta la poetica di Murakami, uno scorcio malinconico di Giappone in cui il protagonista senza nome si sente invischiato, una palude che lo avvince ma dal quale non può uscire senza un aiuto esterno, senza un evento kafkiano che lo getti nel mondo, quello vero, quello al quale non appartiene e al quale non vuole appartenere, dovendo risolvere suo malgrado gli intrighi dei potenti, misteriosi e senza nome come lui, solo un po’ più grandi, solo un po’ più importanti.

Niente di speciale, tanti riferimenti letterari, tanta musica e molte riflessioni sulla vita in generale. Eppure c’è quel qualcosa che attira il lettore, lo invischia in quelle storie normali, in cui un elemento accidentale cambia tutte le carte in tavola, una ragazza con quattro dita, un flipper uscito dal mercato, una pecora che incarna il militarismo del Giappone. Se l’opus magnum è sicuramente 19Q4, una storia ciclopica in cui due mondi paralleli si scontrano e si toccano senza potersi mai incontrare, in cui una killer, che uccide i molestatori di donne indifese, sembra profetizzare non solo il #metoo attuale ma anche Le quattro casalinghe di Tokyo di Natsuo Kirino, per capire davvero Murakami bisogna leggere Kafka sulla spiaggia.

Non ci sono processi, non ci sono strane colonie penali, non ci sono insetti giganti ma solo un vecchio autistico di nome Nakata, che uccide un whisky e parla con i gatti, e un ragazzino di nome Tamura Kafka, che ha rapporti sessuali con la madre e si fa masturbare dalla sorella. La sessualità in Murakami è sempre fortissimamente presente, sebbene lo abbia sempre imbarazzato parlarne al di fuori della sua letteratura. La sua giustificazione è la necessità, il dovere di parlare di quello di cui si deve parlare, in una visione finalistica dell’esistenza umana che è esplicitata dall’alter ego di Tamura nelle ultime pagine di questo romanzo:

“Il tempo grava su di te con il suo peso, come un antico sogno dai tanti significati. Tu continui a spostarti, tentando di venirne fuori. Forse non ce la farai, a fuggire dal tempo, nemmeno arrivando ai confini del mondo. Ma anche se il tuo sforzo è destinato a fallire, devi spingerti fin laggiù. Perché ci sono cose che non si possono fare senza arrivare ai confini del mondo”.

Ecco la chiave per interpretare Haruki Murakami, ecco la sua rilettura in chiave postmoderna dell’opus kafkiano: esiste una Τύχη che trascende l’uomo, schiavo di Lachesi e agnello sacrificale di Atropo. Non ci serve andare altrove, non ci serve espatriare, il nostro destino è scolpito nell’imperscrutabile masso della memoria e la scelta è solo una falsa speranza a cui ci aggrappiamo. Nel mondo però, esistono eccezioni, esistono scappatoie, come quella porta di emergenza in mezzo all’autostrada di Tokyo che collega i due mondi di 19Q4. Forse non tutto è perduto e Haruki lo sapeva, ma l’ha semplicemente scordato. Nel datato Noruwei no mori Watanabe deve scegliere: può scegliere il confortevole passato di Naoko, l’insicura sicurezza dei ricordi, o l’eccitante futuro di Midori, scommessa già vinta al momento della puntata.

Watanabe/Murakami sceglie Midori, sceglie la vita, e forse Danny Boyle si ispirò a lui per il celeberrimo manifesto di Trainspotting, nove anni dopo. Improbabile, così come improbabili sono le scappatoie dalla realtà inventate da Haruki Murakami, celate agli occhi di tutti e accessibili solo a chi sa guardare. Eppure, a ben vedere, Watanabe sceglie Midori perché non può fare altrimenti; Naoko si uccide, anche se lui non lo può sapere. Non si parlava prima della sensibilità giapponese? Ora, dai confini del mondo delle isole Hawaii, Haruki Murakami è in attesa di quel Nobel che gli sfugge da anni. Semplicemente, potrebbe essere il fato.

 

L’intellettuale dissidente

Pétronille, un sorso di Amélie Nothomb

Esistono libri che conquistano e intimoriscono, lasciano irretiti o sconvolgono. Non è sempre possibile aprire un libro e poter dire: lo rifarei ancora, e ancora, di questo libro vorrei ricordare tutto, stampare sulla pelle ogni sensazione. E’ esattamente quello che succede leggendo Petronille, un libro leggero, si badi bene leggero ma non frivolo, come questo, di una levità esaustiva e grave, che non può non pesare se si ascolta con gli occhi il messaggio stridente dell’autrice. Si tratta di Pétronille (2014, Voland), il romanzo breve della amatissima Amelie Nothomb, scrittrice nata a Kobe (Giappone) nel 1967, poi vissuta in Asia e America fino a quando non si è stabilita in Belgio, il paese che poi è divenuto la sua casa e dove vive tuttora, quando non si ferma a Parigi. A 21 anni torna in Giappone, terra per la quale la scrittrice nutre ancora oggi un amore viscerale. Infatti lì la Nothomb ha iniziato a lavorare a fianco del padre in una multinazionale, ma la sua prima esperienza di lavoro è stata quantomeno fallimentare. Tutta la sua goffaggine, le esperienze giovanili sono riassunte in Stupore e tremori. Il suo primo libro, al quale si lega indissolubilmente la sua fama è Igiene dell’assassino, uscito nelle librerie francesi nel 1992. L’affetto dei suoi lettori è subitaneo, poi rinnovato negli anni ad ogni pubblicazione, ad oggi un appuntamento imperdibile per i fan e i curiosi.

Pétronille è un romanzo a margine (il suo 23esimo), di quelli che forse non attirano l’attenzione, ma nella sua semplice soggettività della prima persona descrive l’amicizia tra una scrittrice di successo, Amélie Nothomb, appunto, e una donna che invece è al suo esordio, Pétronille Fanto: magnetica e scontrosa, androgina, ribelle, un’esordiente autrice. Le due donne sono così diverse ma entrano in sintonia dal primo momento in cui si conoscono, in occasione della presentazione dell’ultimo libro della scrittrice. Da una parte c’è la ferma distanza tra le donne, irripetibile occasione di crescita, dall’altra la scoperta che un semplice compagno di bevute può rivelarsi un amico per la vita. Infatti, un elemento che accomuna le due donne è l’adorazione per lo champagne; in un primo momento infatti il legame nasce proprio così: spontanee, l’appuntamento germoglia con l’unico scopo di condividere una bevute. Le due si mettono d’accordo per bere insieme, ma quella è soltanto una scusante, una giustificazione per non dirsi che l’amicizia è un dono condiviso. Lo champagne è l’inizio di un grande sodalizio, di un imperdibile spettacolo e in questo senso Pétronille è la storia di un’amicizia che spazia nel tempo ma non tende all’infinito e che a volte conosce l’amaro, è anche la vicenda di una passione condivisa e della ricerca dell’ebrezza insediata per fortuna nella noia. L’ebbrezza nella Nothomb potrebbe essere associata all’amore e alla sua perdita, allo smaltimento dei sentimenti e degli attimi che fuggono. L’uomo è ebbrezza quando vive ogni regalo ricevuto come fosse il solo.

“La casa delle belle addormentate”: l’eros di Kawabata

Le opere di Yasunari Kawabata (1899-1972), autore nipponico contemporaneo, sono caratterizzate da accenti scarni e da uno stile sobrio che coniugano allo stilema del romanzo contemporaneo occidentale le radici nipponiche immerse nel buddhismo zen. Kawabata (Bellezza e tristezza, Il suono della montagna, Il paese delle nevi, Una virtù vacillante, Confessioni di una maschera) scrive La casa delle belle addormentate nel 1961 sette anni prima di ricevere il premio Nobel (in Italia è stato tradotto nel 1972).

La trama de La casa delle belle addormentate è alquanto esile: il protagonista del suo romanzo o del suo racconto lungo è Eguchi, un anziano signore che viene a sapere di una casa di appuntamenti a Tokyo in cui i clienti anziani vanno per addormentarsi al fianco di giovani ragazze vergini, che li aspettano nude e immerse in un sonno indotto. Anche per il cliente vige la regola di assumere dei sonniferi per addormentarsi profondamente e evitare qualunque contatto fisico con la fanciulla. Al mattino dopo il cliente deve lasciare casa prima che la ragazza si svegli. Tra il cliente e la ragazza o le ragazze non ci sono rapporti sessuali, non c’è contatto fisico. Questa forma estrema di piacere, così sottile, pudica e obnubilata è legata esclusivamente alla vicinanza e alla condivisione di uno stato indifeso come il sonno.

Questo piacere che si svolge effettivamente solo nell’animo dell’ex gaudente Eguchi, rappresenta il risvolto più affascinante e trascinante della trama; è la soglia di un viaggio sospeso tra sogno e realtà, tra i ricordi e gli accadimenti di tutta una vita. Eguchi si scoprirà fortemente attratto dalla locanda delle ragazze addormentate. Gli incontri si svolgono in un’atmosfera magica, nella luce rossa diffusa dalle tende di velluto, tra memorie e ricordi suscitati da particolari e aromi. Eguchi e il lettore attraversano un piacere sconosciuto, inconsueto, una sessualità non consumata e non sporcata dalle modalità canoniche; si attraversano immagini, fantasie e sogni, si attraversa se stessi. Eguchi si ritrova così immerso nei ricordi della sua vita, dalle nebbie del sonno riemerge il ricordo di un gita insieme alla figlia più piccola, di una relazione con una donna sposata, di immagini dell’infanzia e della giovinezza fino alla maturità che ci fanno intuire il ritratto di un uomo che ha vissuto senza troppi rimpianti ma che si sente solo di fronte alla vecchiaia e alla morte. Il continuo gioco del sonno lo aiuta ad esorcizzare la paura della morte, forse questo l’unico vero e inconsapevole motivo delle fughe alla casa delle belle addormentate.

“Ma era altrettanto certo che, per i vecchi, che pagavano quel denaro, giacere accanto a una ragazza così rappresentava una gioia senza pari. Poiché la ragazza non apriva mai gli occhi, i vecchi non avvertivano nessun complesso di inferiorità per il proprio decadimento, veniva loro concessa illimitata libertà nella fantasia e nei ricordi sessuali. Forse per questo non rimpiangevano di pagare più che per una donna sveglia. E che le ragazze addormentate ignorassero tutto dei vecchi contribuiva alla loro serenità. Ed essi pure ignoravano tutto della ragazza, dalle condizioni di vita al carattere”.

Kawabata incanta con questa rappresentazione insolita, rarefatta, proustiana per il modo di ricordare del protagonista, e meravigliosamente amara dell’eros, lusinga con immagini velate e parole sottili, che sottendono ma non sempre dicono per poi sorprenderci con una conclusione imprevista, o forse l’unica possibile. La vecchia e celebre Bella addormentata di Perrault diventa qui dieci, venti ragazze e l’immagine della principessa vittima del sortilegio si trasforma e si moltiplica nei volti delle inconsapevoli e complici bellezze nipponiche.

‘Norwegian Wood’, il travolgente origami di Haruki Murakami

Norwegian Wood è un famosissimo romanzo di Haruki Murakami del 1987, pubblicato in Italia (1993) con il titolo di Tokyo Blues.

Nonostante sia stato riconosciuto dalla critica come un clamoroso successo della letteratura giapponese, ancora oggi Norwegian Wood rappresenta un’oasi vergine per molti giovani lettori. Tuttavia Tokyo Blues conserva la sigla di capolavoro e sembra non subire l’ombra del tempo. Norwegian Wood è anche considerato il lavoro più introspettivo di Murakami, che qui esplora in velina la sfera dei sentimenti e della solitudine. Non deve quindi stupire se Norwegian Wood resta, per molteplici e validi motivi, un grande romanzo incentrato sull’adolescenza, sul conflitto tra il desiderio di essere integrati nel mondo della vita adulta e il bisogno di restare se stessi. Come Holden o il protagonista de Il Budda delle Periferie, Toru è continuamente lacerato dal dubbio di aver sbagliato nelle sue scelte di vita e sentimentali, ma è anche guidato da una propria morale che produce in lui una radicata avversione per tutto ciò che sia artificialmente costruito. Così Toru, diviso ma anche affascinato da Naoko e Midori, può decidere stoicamente o abbandonarsi al fatalismo.

Il romanzo è un lungo flashback, narrato in prima persona proprio dal protagonista Toru. Su un aereo atterrato ad Amburgo, il suono di Norwegian Wood dei Beatles, richiama alla sua mente, in modo nitido, un episodio avvenuto diciassette anni prima e che ha segnato la sua giovinezza: l’incontro casuale con Naoko. Il ricordo di Naoko è il pretesto che consente al protagonista di ripercorrere i difficili anni dell’università e l’amore impossibile per la ragazza (poi ricoverata in un istituto psichiatrico) e quello per Midori. Anche quest’ultima, compagna di corso all’università, è annichilita a causa di lutti familiari, dal collegio e dall’amicizia con Nagasawa, ragazzo controverso e alter ego del protagonista. I tumulti nelle università forniscono solo un riferimento temporale, la narrazione è collocata alla fine degli anni Sessanta ma Murakami sembra non voler scivolare nel cliché, stereotipato oltre che abusato, che caratterizza i romanzi ambientati proprio in quegli anni. All’autore interessa indagare in una sfera meno prevedibile e più introspettiva. Toru rimarrà quindi estraneo alle occupazioni delle università, ai propositi rivoluzionari e il suo è un percorso di dolore e consapevolezza personale, che lo porterà a constatare che la morte non è l’antitesi della vita ma una sua parte intrinseca.

La narrazione e la stessa scrittura di Murakami sono impalpabili, un grazioso origami e qualsiasi cosa egli scelga di descrivere vibra di carica simbolica, solo come un certo gusto orientale riesce ad esprimere con estrema raffinatezza. Non sembri azzardata una libera associazione tra questo romanzo e alcuni celebri film come Ferro 3 o In the mood of Love; leggere e immergersi in Norwegian Wood permette al lettore, non neofita, questo tipo di parallelismi che consentono di ampliare l’orizzonte psichico sino a dilatare la pagina in una dimensione altra.

Travolgente, emozionante, puro incanto. Norwegian Wood è uno di quegli esempi letterari che esercita il fascino della parola, attraverso una forte carica evocativa, a tratti poetica. È un libro che vibra sotto pelle e avvolge il cuore, dove le immagini e le parole continuano a risuonare nella mente, dove  gli stati d’animo sono resi magistralmente. Non si può leggere questo libro senza provare una stretta al cuore per la loro malinconica bellezza.

Nonostante Norwegian Wood sia etichettato come romanzo adolescenziale (e lo è, nella sua accezione positiva), non vi è nulla di superficiale o stucchevole in esso. Adolescenziale è ben diverso da romanzo per adolescenti. È una precisazione necessaria, onde evitare grossolani errori di valutazione e odiose generalizzazioni che questo libro non merita, rientrando in una categoria superiore ad ogni libro di recente uscita.

Murakami è riuscito a dare voce, come pochi vi riescono (pensiamo a Salinger o a Tondelli), ad una fase della vita che non è affatto semplice con i suoi piccoli o insormontabili drammi. Un romanzo riuscito, perfetto perché è dolce, triste e tremendamente doloroso, come solo l’adolescenza sa essere.

-Se c’è una cosa che non mi manca è il tempo.

– Davvero ne hai tanto?

– Tanto che mi piacerebbe dartene un po’, e farti dormire lì dentro.

 

 

 

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