Con “Nessuna come Lei”, Sara De Simone, vicepresidente dell’Italian Virginia Woolf Society, penna critica del Manifesto e traduttrice, ha dato luce ad aspetti solitamente poco esplorati, vagamente raccontati o clandestinamente trasmessi, non solo della biografia delle due grandi autrici Mansfield e Woolf, ma di una certa storia della letteratura che ha a che fare con le abitudini, i canoni e le convenzioni sociali, così come le abbiamo ereditate.
La scena che troppo spesso non figura nella storia della letteratura è quella di due donne – due scrittrici – che parlano dei propri libri […] e si guardano negli occhi, e si temono, e si ammirano. E sono amiche
Pubblicato nel gennaio di quest’anno per i Colibrì di Neri Pozza, Nessuna come lei è un’autentica biografia di un’amicizia che al contempo racconta di un quotidiano tanto difforme – per quanto radicalmente simile – due vite da scrittrici perfettamente parallele.
Con serietà, accortezza e intelligenza, Sara de Simone restituisce gli anni del fervore artistico e intellettuale europeo del XX secolo. Dal 1916 al 1941, aneddoti intimi e mondani si intrecciano alla storia letteraria e sociale. Ai carteggi – significativamente importanti ai fini delle relazioni intrattenute dalle due scrittrici non solo fra di loro, ma anche con le persone coinvolte nelle loro vite – si aggiungono i diari, gli esimi testimoni di quello che risulta essere il fulcro vitale del libro, la sua ragione d’essere. In poche parole, la volontà di restituzione di un’ostinazione verso il vero, di una ricerca essenziale – ai limiti dell’ossessione – della verità non solo artistica, ma anche umana.
Una verità che De Simone ha voluto illuminare, raccontare – finalmente – dalla parte delle donne. Due, queste, che risultano irraggiungibili a loro stesse e fuse allo stesso tempo. Parallele perché in una condivisione quasi timida e tacita di una fragilità e sensibilità impareggiabili. Entrambe soffrono, si ammalano, vivono una posizione orizzontale che, nella costrizione, trasformano in azione creativa, in ricerca di quella stessa cosa che è uno sguardo differente che verte sulle differenze.
Sara De Simone lo racconta lungo tutto il libro, senza troppo ripeterlo, quanto la ricerca del vero di Mansfield e Woolf abbia abitato i loro inchiostri, immortali e discussi, sinfonici e vivifici, di falsa invidia e forse, pura gelosia.
Un lavoro di ricerca mastodontico, “Nessuna come Lei”, che in sostanza serve due voci umane di donne pilastro nella storia della letteratura. Il risultato di questa ricerca, secondo la penna di chi scrive, è che una delle due voci, quella di Virginia Woolf, che quasi si invocherebbe a mainstream – da postuma influenza la ricezione dell’altra, di Katherine Mansfield che, a sua volta, ha fatalmente viaggiato davanti, ha influenzato la scrittrice che Woolf è diventata.
Ci si augura che a questo saggio biografico ne seguano altri. Che pubblico resti, questo amore per le parole, il loro peso, il loro infinito silenzio.
«Entrambe mettevano la letteratura al primo posto. E questa non era un’affinità come un’altra: era tutto. Era come essere partecipi di un rito segreto, come camminare sulle stesse zolle di terra incandescente, dove nessun altro osava avventurarsi».
«Mio Dio, Virginia, adoro pensare a te come un’amica». – Katherine Mansfield
Il 2/2 del ’22, il 2222, fu una specie di esplosione verbale di cui s’ode ancora l’impeto, imperiale: nessuno, da lì in poi, può prescindere dal “super-romanzo” di James Joyce, per sottomissione o ribellione. Una storia dell’influenza di Ulisse nella letteratura occidentale del Novecento finisce grosso modo per coincidere con la letteratura occidentale del Novecento: T.S. Eliot – pur usandolo per tirare il carro alla propria estetica – aveva capito tutto, “Usando il mito e operando un continuo parallelo tra contemporaneità e antichità, Joyce instaura un metodo che altri potranno utilizzare dopo di lui”; seguiva, per capirci, il paragone con “le scoperte di un Einstein”. Insomma, il ‘metodo’ di Joyce era equivalente alla teoria della relatività generale di Einstein (che nel 1921 aveva ricevuto il Nobel per la fisica).
Da allora, nulla sarebbe stato più come prima. Virginia Woolf legge Ulisse irritandosi – “Ho terminato l’Ulisse e mi sembra un colpo mancato. Genio ne ha, direi, ma di una purezza inferiore. Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso di ovvio, ma nel senso letterario” –, Ezra Pound lo esalta esalando urla: “Tutti gli uomini dovrebbero «unirsi per elogiare Ulisse»; chi non lo farà potrà accontentarsi di un posto negli ordini intellettuali inferiori; non voglio dire che tutti debbano elogiarlo a partire dallo stesso punto di vista, ma tutti i seri uomini di lettere, che ne scrivano o meno una critica, dovranno di certo concepirne una per loro uso e consumo”. William Faulkner, dopo una gita tra bordelli italiani vari, atterra a Parigi, nel ’25, e sogna di vedere Joyce dalla vetrata di un cafè, in Place de l’Odéon: la lezione di Ulisse gli è necessaria per giungere a L’urlo e il furore.
Nel 1932, per onorare i cinquant’anni di JJ, Hermann Broch, a Vienna, dà lettura del suo saggio, James Joyce und die Gegenwart (poi pubblicato nel 1936; in Italia è uscito come James Joyce nel 1983, da Editori Riuniti): lo stesso editore tedesco dell’Ulisse pubblicherà il capolavoro di Broch, La morte di Virgilio, che usa, a modo suo, il ‘metodo’ di Joyce. L’Ulisse è testo assoluto e seminale: inimitabile, ha mutato le geografie fino ad allora sperimentate dal genere romanzo; una specie di rivoluzione quantistica. Ne Il gioco degli occhi, Elias Canetti racconta quando ha incontrato Joyce, a Zurigo, nel 1935: fu una fuga nel frainteso. Canetti aveva letto, in pubblico, la sua Commedia della vanità, di cui Joyce aveva recepito solo alcuni frammenti. “Nell’intervallo fui presentato a Joyce”, scrive Canetti, “il quale si espresse in termini molto bruschi e molto personali: ‘Io mi faccio la barba col rasoio, senza specchio!’”. Nella Commedia si accennava agli specchi, al loro inesorabile enigma, ma quella di Joyce pare una frase che nasconda un cabbalista, dai sensi irritati e sovrapposti. Spesso i biografi ricordano che dopo aver pubblicato Ulisse, Joyce subì “nuovi disturbi agli occhi”, quasi che vi fosse una coincidenza tra scrittura e cecità.
“Leggere l’Ulisse,” opera realistica e burlesca al tempo stesso, come scrive Alessandro Ceni nella sua Nota introduttiva, “è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto” dove le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano. Trascinata da una scrittura mutevole e mimetica, da un uso delle parole che è esso stesso narrazione, la complessa partitura del romanzo procede con un impeto che scuote e disorienta. Perché “un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza”. Solo immergendosi senza riserve nella scrittura il lettore potrà uscirne davvero, alla fine, inondato di tutta la luce che questo romanzo concentra in sé.
Ciò che rende Ulisse imponente non è, infatti, il tema ma la scala su cui viene sviluppato. Sono serviti sette anni a Joyce per scriverlo e l’ha fatto in settecentotrenta pagine, che sono probabilmente le pagine più assolutamente “scritte” da Flaubert in poi. Non solo l’aneddoto è espanso fino alla sua forma più piena possibile – c’è un resoconto elaborato di quasi tutto vien fatto o pensato da Mr. Bloom dal mattino alla notte nel giorno in questione – ma si ha sia il metodo “psicologico” che quello flaubertiano di rendere lo stile in linea con la cosa descritta, metodo portato diversi passi avanti più di quanto non sia stato fatto sinora, così che mentre in Flaubert si hanno banalmente le parole e le cadenze adattate con cura a suggerire uno specifico stato d’animo o un personaggio senza alcun tentativo di identificare la storia con il flusso di coscienza della persona descritta, e in Henry James la semplice esplorazione del flusso di coscienza con vocabolario e cadenza unici per tutto l’insieme di stati d’animo e personaggi, in Joyce non si hanno soltanto la vita descritta dall’esterno con virtuosità flaubertiana ma pure la consapevolezza che ogni personaggio e ogni suo stato d’animo sono messi a parlare in un idioma loro proprio, il linguaggio usato in riferimento al linguaggio. Se Flaubert insegnava a Maupassant come trovare l’aggettivo che avrebbe distinto una certa carrozza da tutte le altre carrozze al mondo, James Joyce ha stabilito che si deve trovare il dialetto che potrebbe distinguere i pensieri di un certo Dublinese da quelli di ogni altro Dublinese.
“Peccato per il pubblico se si attende di trovare una morale nel mio libro – o peggio, potrebbero prenderlo ancora più sul serio e, onore di gentiluomo, non vi è una sola riga seria lì dentro” J. Joyce
Mr Bloom, coi suoi generosi impulsi e i suoi tentativi di comprendere e padroneggiare la vita, è il simbolo epico dell’uomo raziocinante, umiliato e ridicolo, pure in grado di districarsi con l’astuzia dagli spiriti che tentano di distruggerlo; e Mrs. Bloom, con la sua forza terrificante frammista di affetti amorosi e materni, con le sue radici nello sporco della terra e il suo gioioso fiorire in bellezza, è l’immagine gigantesca della terra stessa da cui sia Dedalus che Bloom sono sorti e che sembra essere il fondamento profondo dell’intero dramma come il tono base all’inizio dell’Oro del Reno.
Il tema principale del capolavoro di Joyce va cercato nel suo parallelo con l’Odissea: Bloom è una specie di moderno Ulisse – con Dedalo come Telemaco – e lo schema e le proporzioni del romanzo vanno fatti corrispondere a quelli dell’epica. Sono questi e non le necessità interne dell’argomento ad aver dettato le dimensioni e la forma di Ulisse.
Il sogno di una vita serena, con una pianta di aspidistra alla finestra, e la difficoltà di raggiungerlo, è questa in estrema sintesi la trama del romanzo del 1936 “Fiorirà l’aspidistra” (edizione italiana nel 1960) di George Orwell, che è una dura critica alla società capitalista: l’ossessione per i quattrini, visti come unico motore del mondo, che porta il protagonista Gordon all’abbrutimento totale.
Il romanzo di Orwell è attuale oggi come allora. Delinea i tratti senza tempo di ricchi e poveri; di chi i soldi li ha e di chi li desidera con tutto se stesso, tramutandoli in un’ossessione distruttiva. È un libro che richiede tempo per essere letto, digerito e compreso.
Gordon Comstock non è come tutti gli altri. Anche se mi rendo conto quanto nessuno, in fin dei conti, si senta mai “come gli altri”. Si crede sempre, specie in giovane età, d’essere diversi. Di avere quella luce, li, fissa negli occhi, a differenziarci da tutti gli altri. Ma la maggior parte, ahimè, crescendo, si arrenderà al fatto che in fondo si è un po’ tutti simili.
Gordon, invece, diverso lo è davvero.
Si dimena, scalcia, grida forte nella sua diversità, a tal punto che le persone che gli vogliono bene, come la sorella o la fidanzata, a un certo punto si arrendono nel ripetergli di quanto sia sicura e percorribile la “normalità”. Quella normalità che insegue il denaro ed è succube del buon posto di lavoro con tutte le sue catene ben fissate alla scrivania di quel minuscolo ufficio. Per Gordon la vita è un equazione semplice. Se hai i soldi hai tutto, e se non dovessi averli, scordati pure le attenzioni della gente o l’amore delle donne. Tutto e tutti cercheranno di mantenere le distanze da te evitandoti.
Per quanto Gordon sia fermamente convinto che il mondo funzioni così, non fa nulla né per opporvisi e né tantomeno per farne parte. La sua vita consiste in un perenne galleggiare tra lavori pagati due soldi e la sua ambizione letteraria di diventare scrittore.
In passato non sono poche le opportunità che ha avuto per potersi creare una carriera nel mondo pubblicitario come copywriter, ma non appena si è reso conto d’avere talento, e quindi di poter guadagnare sempre più, ha deciso di abbandonare il lavoro. Il terrore puro, dell’eventualità di poter essere come tutti gli altri, schiavo del Dio denaro quindi, lo ha condotto verso la fuga.
“Ebbe una visione di Londra, del mondo occidentale: vide milioni di schiavi sgobbare e strisciare ai piedi del trono di Quattrino.”
Julia, la sorella di Gordon, è esattamente l’esempio di quel che lui intende in queste due righe quando parla di “schiavo”. Dopotutto lei vive una vita nella miseria lavorando dalla mattina alla sera, sopravvivendo a malapena con il suo salario, e cercando in mille modi di aiutare il fratello, il quale è messo addirittura peggio di lei.
Gordon, in cuor suo, disprezza Julia, ma lo fa nonostante le voglia un gran bene e riconosca quanto lei abbia sempre cercato di aiutarlo. Non riesce però a nascondere la totale mancanza di stima nei suoi confronti, per il semplice fatto che per tutta la durata della sua vita lei non abbia fatto altro che lavorare bramando denaro.
La sua perenne fuga dal denaro, è probabilmente dovuta dalla paura di non essere in grado di gestirlo, se mai ne avesse avuto. Questo suo incubo, ad un certo punto del romanzo, diviene realtà. Un importante rivista accetta una della sue poesie, inviandogli ben dieci sterline. Soldi che di colpo lo gettano nel panico, facendogli compiere una serie di sciocchezze. Nonostante il suo primo pensiero sia quello di dare parte di quel guadagno alla sorella Julia, come se fosse un risarcimento per tutto quel che lei ha fatto per lui durante quegli anni, alla fine si ubriaca dandosi alla pazza gioia, sperperando tutto.
È difficile scindere l’odio verso gli altri dalla povertà. Quando si ha poco o niente, l’unica cosa che rimane è detestare tutti quelli che hanno qualcosa, e Gordon ovviamente non può esimersi da questo.
“Londra! Chilometri e chilometri di case modeste, solitarie, tutte ad appartamentini e camere in affitto: non focolari, non comunità, ma semplicemente fasci di vite senza senso trascinate da una specie di caos sonnolento in lenta deriva verso la tomba! Vedeva passare gli uomini come cadaveri deambulanti”. Li detesta tutti Gordon, e dietro al suo sguardo scrutatore e senza ritegno, li considera dello stesso valore dell’aspidistra che tiene dietro la finestra in cucina.
Gordon ha una fidanzata, Rosemary, con la quale non riesce a fare l’amore perché convinto che per poter andare a letto con una ragazza ci vogliano i soldi. Dopotutto, offrirle una cena fuori aiuterebbe no? E portarla in una bella camera d’albergo, non sarebbe certamente d’aiuto? Per non parlare dei vestiti, indossare un capo di tutto rispetto, ci farebbe partire sicuramente avvantaggiati. Non potendo usufruire di tutto questo, il vittimismo di Gordon la fa da padrone ingurgitandolo e risucchiandolo in un vortice di negatività dal quale proverà ad uscire solamente nelle ultime pagine del romanzo.
In Fiorirà l’aspidistra, George Orwell ha messo a punto una precisa scelta ideologica. Un protagonista che diventa un borghese modello, con tanto di cravatta ed aspidistra, non significa altro che la vittoria del profitto, del denaro sull’idealismo, dell’apparenza sociale sull’essere. L’individuo è così soddisfatto, socialmente contento, ma sconfitto, a vantaggio di una visione utilitaristica e conformista dell’uomo.
Ed è proprio questa scelta politica che rende il romanzo realistico e visionario allo stesso tempo, nonché sempre attuale:
“Si chiese chi fosse la gente che abitava in quelle case. Dovevano essere, per esempio, piccoli impiegati, commessi di negozio, viaggiatori di commercio, galoppini di assicuratori, tranvieri. Sapevano di essere soltanto marionette che ballavano solo quando il denaro tirava i fili? C’era da scommettere la testa che non lo sapevano. E quand’anche lo avessero saputo, non gliene sarebbe importato nulla. Erano troppo occupati a nascere, a sposarsi, far figli, lavorare, morire”.
Fiorirà l’aspidistra è un pamphlet antiborghese con diversi riferimenti autobiografici, una sorta di resa dei conti tra l’autore, le proprie aspirazioni e passioni, i compromessi rifiutati e quelli accettati durante la sua carriera, portato avanti con una scrittura mirabile e con una dettagliata definizione dei personaggi che dicono molto sul nostro modo di agire in qualsiasi luogo e tempo, di come un nobile sogno possa trasformarsi una pericolosa ossessione.
Ma è il capitalismo a renderci davvero più egoisti e ambiziosi o il desiderio insito nell’essere umano a migliorarsi continuamente per sfuggire alla mortifera noia e all’immobilismo? Manca forse in Fiorirà l”aspidistra l’attenzione per la dimensione psicologica, o meglio esistenziale della natura umana, concentrandosi su quella politica e sociale.
Il signore delle mosche è un capolavoro della letteratura inglese di William Golding, pubblicato nel 1954, grazie all’interessamento di T. S. Eliot. Il successo editoriale fu gigantesco: 14 milioni di copie vendute in Inghilterra. Quest’opera ha avuto diverse trasposizioni cinematografiche. Il primo film sul “Signore delle mosche” è del 1963 ad opera del regista Peter Brook.
Il libro non è altro che una favola moderna. Un gruppo di ragazzi sopravvive ad un incidente aereo e finisce su un’isola disabitata. Il cuore dell’isola è costituito da una macchia fitta, ricca di frutti e maiali. C’è anche una montagna da cui possono scrutare l’orizzonte e guardare se passano le navi. I ragazzi hanno solo un barlume di speranza che possano portarli in salvo gli adulti perché durante il conflitto mondiale è esplosa la bomba atomica. Gli adolescenti devono adattarsi alla vita dell’isola: devono costruire rifugi, andare a caccia, fare delle leggi, eleggere un capo, tenere vivo il fuoco.
Naturalmente dovranno fare tutto da soli perché non c’è la supervisione di nessun adulto. inizialmente viene eletto capo Ralph, il cui tipo di organizzazione simboleggia un’ideale di società democratica, in cui ognuno lavora per il benessere collettivo. Il capo ed i consiglieri possiedono la conchiglia, che rappresenta la conoscenza e la saggezza. Successivamente però si impone la società di Jack, basata sull’obbedienza e la subordinazione: una vera e propria dittatura. I due gruppi si scontrano e nella lotta muoiono due bambini: Simone e Piggy. Il microcosmo isolato dal mondo reale ed occasione per una rinascita dell’umanità diviene quindi un’ulteriore conferma della malvagità del genere umano: i bambini sono regrediti dalla civiltà alla barbarie.
A questo romanzo naturalmente sono state date le più svariate interpretazioni. C’è chi ha ritenuto che fosse un’allegoria religiosa, a causa del titolo. Infatti “Signore delle mosche” è uno dei tanti appellativi del diavolo. C’è chi invece ha posto l’accento sulla lotta tra il bene ed il male, cioè tra Ralph e Jack. Altri hanno visto nel romanzo il simbolo di quel che era accaduto nella seconda guerra mondiale ed hanno intuito in Jack il carisma e la forza di persuasione di Hitler.
Certamente da questo libro si possono comprendere tre concetti basilari su cui si fondano tutte le opere di Golding: 1) l’autore scrisse in un periodo della letteratura inglese, chiamato epoca tra il realismo ed il modernismo. E lo scrittore riuscì ad essere sia realista (perché anche se questa storia è completamente inventata potrebbe sempre accadere) che modernista (in quanto fece largo uso di metafore, simboli ed allegorie) 2) il suo pessimismo riguardo la natura umana, dovuto al fatto che vide direttamente gli orrori della seconda guerra mondiale, perché fu ufficiale della marina britannica 3) la sua totale sfiducia nel sistema scolastico inglese.
Il signore delle mosche infatti può essere anche inteso come una critica distruttiva nei confronti degli agenti di socializzazione dell’Inghilterra di quel tempo. I ragazzi del “Signore delle mosche” sono già andati a scuola, sono già stati deformati dalla scuola britannica. Sono già stati temprati dalla severa disciplina e dalle norme ottuse di quel periodo. Golding non a caso fu maestro e subì l’influsso della pedagogia steineriana.
Steiner è stato il fondatore dell’antroposofia, che potremmo definire una scienza dello spirito. Come educatore il filosofo Steiner fu straordinario. La sua pedagogia non si basa su nessuna imposizione e su nessuna ricetta. Lascia spazio alla creatività dell’insegnante, che a seconda delle sue esigenze e delle esigenze degli allievi può stabilire quali sono i modi più idonei di apprendimento.
La pedagogia steineriana sostituì la disciplina ferrea con il calore umano tra allievo ed insegnante, dato che secondo il filosofo non bisognava educare solo la testa del bambino, ma anche l’intero corpo. Chiaramente Golding avendo in mente Steiner non poteva che essere contrarissimo al modo di insegnare della maggior parte degli insegnanti inglesi, così freddi ed impostati.
“La prima cosa a cui si abituarono fu il ritmo del lento passaggio dall’alba al rapido crepuscolo. Accettavano i piaceri del mattino, il bel sole, il palpito del mare, l’aria dolce, come il tempo adatto per giocare, un tempo in cui la vita era così piena che si poteva fare a meno della speranza”.
Sir Arthur Conan Doyle è sicuramente tra gli scrittori più apprezzati del novecento inglese, considerato capostipite del giallo deduttivo, nonché del romanzo fantastico e di avventura moderno.
Il medico scozzese iniziò a scrivere quasi per caso, quando, nel sobborgo di Portsmouth, lo studio che aveva appena avviato, fallì.
Risalgono a questo periodo le prime uscite delle avventure del famigeratoSharlock Holmes. Famoso per questo in tutto il mondo, Doyle avrà un rapporto di amore ed odio con il celebre personaggio. Egli infatti, predilesse altri generi e si specializzò nel romanzo storico, fantascientifico e di avventura, abbandonando il giallo.
Collezionò più di un centinaio di opere tra cui The Maracot Deep (L’Abisso di Maracot). Tra i suoi ultimi lavori, il breve romanzo è l’esempio di come l’autore ha più volte fuso insieme i suoi tre generi preferiti. Apparve in serie già nel 1927 sul The Strad Magazine, ma, solo nel 1929, fu pubblicato in versione integrale dall’editore John Murray a Londra e dalla Doubledau Books negli Stati Uniti.
Nel libro, la leggendaria isola di Atlantide descritta da Platone, fa da sfondo all’avventura di tre personaggi: il Professor Maracot, lo zoologo Cyrus Headly e dal meccanico Bill Scanlan. I tre, discesi nell’abisso per delle ricerche, si ritroveranno per caso ad affrontare strabilianti avventure in fondo al mare.
Precipiteranno fuori le mura dell’antica città creduta perduta. Qui entrano in contatto con una realtà straordinaria ,prendendo coscienza della veridicità del famoso mito greco. La civiltà sorprendentemente all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, risulta non distanziarsi da quelle lasciate sulla terra ferma. Come le grandi metropoli nascenti del novecento, anch’essa è proiettata verso un futuro curioso di innovazioni e di saperi restando tuttavia ancorata alle credenze e tradizioni del passato. La mitologica popolazione ricca d’ingegno ha reso possibile la vita sottomarina.
Il progresso acquisito ha eliminato quelle barriere fisiche e culturali che il mondo in superficie non era stato in grado di superare. Nella nuova tipologia di avventura, l’amore per il conoscere spinge l’uomo ad oltrepassare i limiti naturali affidandosi ed alimentando, dunque, l’ingegno.
Elementi come oggetti tecnologici, le scoperte e imprese scientifiche, menzionati nella narrazione, sono i nuovi strumenti mistici: contribuiscono in maniera vitale a rendere tutto l’accaduto, un’ impresa epica. Il connubio di fantascienza e scienza è efficace al fine di non distaccare l’irrealtà dalla realtà. Si passa dunque al mondo del probabile, dove tutto può accadere.
La scienza e la tecnologia sono anche lo strumento di unione di due popoli mai venuti a contatto. I tre uomini avviano un processo di corrispondenza del sapere: durante la permanenza conoscono e utilizzano le invenzioni fatte dagli Atlantidei. Allo stesso modo , dopo il naufragio della nave Stratford, nave che aveva accompagnato i protagonisti per la ricerca, al popolo inabissato vengono mostrati gli strumenti adoperati dalle popolazioni in superficie. La nuova idea novecentesca che guarda al progresso con ammirazione e curiosità, impregna il romanzo.
Un agglomerato di diversi documenti compone la struttura del romanzo di Doyle. Sono principalmente lettere scritte da Headly alla quale seguono, altre testimonianze come diari di bordo o comunicati marittimi di varia provenienza. L’autore, infatti, premette di essere stato incaricato di riassemblare gli scritti al solo fine di far conoscere l’incredibile vicenda. Risalto va dato alla disposizione delle tre lettere che riportano i fatti rispettivamente in un tempo antecedente, contemporaneo e posteriore all’incredibile scoperta. A queste segue un commento dell’autore che riporta l’attenzione del lettore alla sua intenzione principale, ovvero divulgare la storia in suo possesso.
La divisione non interrompe il filo narrativo, ma anzi, spinge ad appassionarsi e attendere l’epilogo. Le tre lettere sono però differenti tra loro: la prima scritta per Talbot (amico e collega di Headly) ha una forma lessicale formale e il tono risulta leggero e rilassato. In questa occasione, l’emittente tende a soffermarsi poco sulla parte descrittiva,prediligendo i fatti, incuriosito dagli avvenimenti che si susseguono e dalla figura di Maracot.
La seconda ,invece, essendo indirizzata all’umanità, ha un lessico meno formale ed è più ricca di particolari illustrativi del mondo Atlantideo. È evidente il contrasto di emozioni vissute dallo zoologo: la rassegnazione al pensiero di non ritornare mai a casa si alterna al senso di serenità e gioia trovato nella sua nuova condizione.
L’ultima lettera è scritta da Headly ,dopo esser stato salvato ed essersi reintegrato tra i suoi pari in patria. Questa, molto più simile ad una pagina di diario, si concentra sul risaltare l’aspetto favolistico e leggendario della vicenda , consacrando gli stessi protagonisti a personaggi fantastici. Traspare entusiasmo dalle parole dell’autore che si concentra sull’esaltare la sua figura e quella dei suoi compagni, paragonandosi a personaggi celesti, enfatizzando le avventure più salienti.
Attribuendo le fonti direttamente ad uno dei protagonisti, Doyle auspica alla verosimiglianza dei fatti narrati, assottiglia così la linea immaginaria tra finzione e realtà. Il trucchetto risulta molto efficace soprattutto se si considera la scelta tra i tre avventurieri: Headly non solo è riemerso come i suoi compagni, ma è colui che ha portato con se un abitante di quel posto. La sua compagna è una prova inequivocabile che avvalora maggiormente il suo racconto.
Pensando a questo espediente non si può far altro che sottolineare la genialità di Doyle nell’attrarre l’attenzione del lettore. Sarà preso a modello dai posteri e, per il suo nuovo modo di raccontare, gli sarà riconosciuta dunque la fama di precursori del genere fantascientifico moderno.
Jim Crace è tra i più brillanti scrittori contemporanei del panorama letterario inglese. Nato il 1 Marzo 1946 a Hertfordshire in Inghilterra, dopo la laura triennale in letteratura inglese, si arruola nel Voluntary Service Overseas (VSO) e comincia a lavorare come assistente televisivo in Sudan. Nonostante la carriera giornalistica già avviata, Crace si lascia ammaliare dalla narrativa pubblicando nel 1974 sulla rivista letteraria New Review il suo primo racconto “Annie, California Plates”. La sua vita è divisa tra la mansione di giornalista freelance e lo scrittore di racconti. Tutto cambia quando nel 1986 esce il suo primo libro Continent: sono sette storie interconnesse ambientate in un immaginario settimo continente. Il libro raccoglie pieni consensi e viene insignito da prestigiosi premi come il Whitbread First Novel Award, il Guardian Fiction Prize e il David Higham Prize. Il successo riscosso fu così grande che Crace rinuncia al giornalismo per dedicarsi completamente alla scrittura.
Nel 1988 Crace pubblica il suo secondo scritto The Gift of Stones: ambientato prima dell’avvento dell’età del bronzo, racconta di una comunità di operai che abita in un villaggio nei pressi del mare che ben presto deve fare i conti con l’avvento di una nuova era.
Jim Crace comincia ad acquisire una certa notorietà imponendosi prepotentemente nel panorama letterario di quegli anni. La fama lo invade e il romanziere di pronta risposta continua a prolificare la sua produzione letteraria.
Nel 1992 esce Arcadia, il suo terzo libro ambientato in una immaginaria città britannica nel futuro: Arcadia è un centro commerciale che Victor, il giovane protagonista vuole erigere nello spazio occupato dal mercato cittadino. Ad opporsi ci sono però i cittadini che non sembrano disposti a sacrificare il cuore della loro città.
Due anni dopo Crace pubblica Signals of Distress, ambientato in Inghilterra nel 1836,il libro parla del naufragio di un veliero al culmine della rivoluzione industriale. Anche questa opera vince Winifred Holtby Memorial Prize.
La penna di Crace è inaresstabile e nel 1997 arriva Quarantine: rievoca un episodio del Nuovo Testamento, i quaranta giorni di Gesù nel deserto, primo testo tradotto in italiano edito da Guada nel 1998. Con questo scritto approda in Italia. La casa editrice cavalca questa positiva onda di popolarità continuando a pubblicare altri suoi libri: La dispensa del Diavolo nel 2002 (The Devil’s Larder, 2001); Una Storia naturale dell’amore nel 2004 (Being dead,1999); La città dei baci nel 2006 (Six,2003); Tutto ciò che abbiamo amato nel 2010 (The Pesthouse,2007) ed infine il lirico Il Raccolto nel 2016 (Harvest, 2013), insignito del James Tait Black Memorial Prize e dell’International IMPAC Dublin Literary Award.
I suoi romanzi più recenti sono On Heat del 2008, All That Follows del 2010 e The Melody del 2018.
Una storia Naturale dell’amore, è senza dubbio uno dei romanzi più celebri di Crace ma anche quello più singolare e crudo. Il romanzo racconta di una coppia di due coniugi: sono passati trent’anni da quando Joseph e Celice si incontrarono come studenti di zoologia in gita alla baia di Baritone Bay. Joseph, desideroso di ritrovare il sito tra le dune della loro prima volta, guida Celice in una nostalgica visita di ritorno alla Baia, ma la coppia viene uccisa da un ladro di passaggio. Nel momento della morte, Joseph stende delicatamente la mano sulla gamba di Celice. Scoperti per giorni, i corpi diventano preda di granchi di sabbia, mosche e gabbiani.
Il romanzo si snoda in quattro fili narrativi: il primo racconta le avventure dei coniugi dalla partenza per Baritone fino all’omicidio; il secondo, gli inizi della loro storia d’amore; il terzo descrive minuziosamente lo stato di decomposizione nel susseguirsi dei giorni infine il quarto racconta gli sforzi di Syl, figlia dei coniugi, per ritrovare i genitori scomparsi.
I quattro filoni si interrompono costantemente l’un l’altro, eppure il romanzo nel suo complesso è estremamente efficace. Nonostante le premesse tragiche il finale è molto tenero: il gesto di Joseph, che appena prima di morire appoggia la sua mano sulla gamba di Celice, è racchiusa l’essenza dell’amore che sopravvive alla morte. L’amore conferisce ai coniugi una consolazione conferendogli un’eterna umanità.
Jim Crace e la sua Craceland
Realismo destabilizzante o fabulismo inquietante sono le diciture usate dai critici per definire lo stile di Crace. L’autore lo chiama semplicemente “Craceland”, godendo della stima sia ai piani alti, tra critici e giornalisti, sia tra il pubblico. Questo perché il suo stile è unico, senza precedenti: lo scrittore, attraverso i suoi romanzi punta a ringiovanire generi del passato come il romanzo distopico, il romanzo di ricerca, il bestiario medievale e il fabliaux, inserendo una forte componente apocalittica, visionaria ed emotiva. Crace, attraverso l’evocazione di mondi immaginari, tratta di temi universali quali la vita, la morte e la paura per il futuro.
Il New York Times lo ha descritto come “uno scrittore magistrale, perfetto per i nostri tempi incerti e spietati”, l’unica certezza però è che i suoi libri sono sorprendentemente destabilizzanti per chi li legge, preso dal potere ritmico della sua prosa, costruita su vivide immagini fisiche e brillanti atmosfere e scaturite dallo spirito elegiaco e straniante del tagliente e spesso paradossale autore inglese che ama sfidare i suoi lettori.
“Dalla corsia, guardando verso il profilo dei salici sul ruscello, l’estremità superiore del nostro prato d’orzo, irto e tremante nella brezza, ci ha mostrato finalmente le sue ocre e i suoi cadmi, le sue ambre e i suoi cromi. che per così tanto tempo in questa lenta estate erano deboli e umidi, diventavano simili a noci e zuccheri e promettevano birre e birre invernali”. (da “Il raccolto)
Aldous Huxley (1894-1963), visionario e tormentato autore inglese, pubblica nel 1932 la sua opera, forse, che sarà destinata a diventare una delle pietre miliari per il genere distopico/fantascientifico: appassionato di filosofia (avvicinatosi anche al misticismo) Huxley non ha problemi a imbastire un racconto di spietata visione filosofica sul futuro dell’umanità. Come in ogni narrazione distopica, i pensieri e le azioni degli uomini sono immaginate sino alle estreme conseguenze, ma qui c’è un qualcosa in più che caratterizza Il mondo nuovo (1932), opera di fantascientifica di Huxley.
Tutta la narrazione è pervasa da quel senso di oppressione tipico delle opere distopiche/post apocalittiche: e qui Huxley dimostra, per l’epoca in cui ha scritto il suo romanzo, di essere capace di vedere già molto al di là dell’orizzonte del suo tempo. Ecco quindi che il mondo che descrive, il mondo del 2500 circa, è stretto dalla morsa non solo dei “controllori” ma anche di pratiche scientifiche spietate e di indottrinamenti subconsci a cui tutta la popolazione è sottoposta. “Il Processo Bokanovsky è uno dei maggiori strumenti della stabilità sociale! Uomini e donne tipificati; a infornate uniformi”; è questo quello che il direttore del “Centro di incubazione e di condizionamento” spiega ai suoi allievi: qui gli embrioni vengono infatti creati, sviluppati secondo precise esigenze per essere inidirizzati in particolari e precise categorie di persone (gli alfa, i beta, i gamma, i delta e gli epsilon) che hanno determinate caratteristiche e determinate peculiarità in base al loro quoziente intellettivo programmatogli. “Comunità, Identità, Stabilità” è il motto planetario che ricorre in questa società che vede quindi annullata ogni forma di personalità individuale e ogni libera espressione: in questo modo i Controllori hanno la pretesa di assicurare la felicità delle persone:una felicità creata, indotta, controllata, frutto dello spietato calcolo scientifico e quindi non reale.
“Noi condizioniamo le masse a odiare la campagna concluse il Direttore. Ma contemporaneamente le condizioniamo ad amare ogni genere di sport all’aria aperta. Nello stesso tempo facciamo sì che tutti gli sport all’aria aperta rendano necessario l’uso di apparati complicati. In questo modo si consumano articoli manufatti e si adoperano i mezzi di trasporto. Ecco la ragione delle scosse 20 elettriche”. I bambini infatti venivano educati alla visione dei libri e dei fiori in concomitanza con scosse elettriche e assordanti rumori, in questo modo si trovano a sviluppare un disgusto verso questo genere di cose.
In questa società massificata, Huxley fa però emergere due protagonisti: Lenina e Bernand, entrambi infatti si distinguono da tutti gli esseri umani che si incontrano nel romanzo. Lenina per alcuni periodi è alla ricerca di un partner “fisso”, contravvenendo alle “regole” della società che invece vuole che il sesso e il godimento erotico siano esaltati e praticati, così da prevenire frustrazioni e sentimenti negativi. Bernard invece è uno psicologo che dimostra un alto grado di consapevolezza per quanto riguarda il fatto che la felicità che vivono è illusoria, indotta in alcuni casi dalla “soma”, una droga sintetica che provoca stati di euforia e che addirittura accompagna anche le persone verso la morte. Nel romanzo si parla di Corso Elementare di Coscienza di Classe, di Lezione Sessuale Elementare, del ruolo di “Assistente Predestinatore”, del Collegio di Ingegneria Emotiva, del Direttore delle Incubatrici, del trattamento di Surrogato di Passione Violenta: tutto ciò che serve per far emergere un quadro incredibilmente asfissiante della società che Huxley immagina.
Ma non è tutto, infatti: “Bisogna scegliere tra la felicità e ciò che una volta si chiamava la grande arte. Abbiamo sacrificato la grande arte. Ora abbiamo i film odorosi e l’organo profumato”, così racconta Mustafa Mod, il controllore dell’Europa occidentale, quando ricorda la decisione dell’annullamento di ogni forma di espressione artistica umana: l’arte non bisogno praticamente solo di sensazioni pure, ed è quindi nemica dello sfruttamento delle risorse, quello a cui invece tutto è qui volto e indirizzato: si indirizzavano i bambini verso godimenti e felicità per giochi che ad esempio richiedevano un grosso dispendio di materiale elettrico per esser costruiti.
Ma per capire cosa veramente è il mondo disegnato da Huxley, si deve aspettare l’incontro con il “Selvaggio” John, conosciuto da Bernarnd e Lenina durante il loro esilio in Islanda, a causa dei loro comportamenti giudicati eccentrici dal controllore dell’Europa Occidentale. John e Linda, sua madre, sono cresciuti e vissuti nelle “riserve”, ovvero dove vivono gli appartenenti alla casta degli alfa non allineati con il Governo. John ha però una altra peculiarità: è riuscito a leggere alcune opere di Shakspeare (L’Amleto, Romeo e Giulietta, l’Otello) prima che tutti i libri venissero distrutti. Ciò gli permertte di affrontare il governatore dell’Europa occidentale in un discorso appassionato tra le diverse visioni del mondo: “Adesso il mondo è stabile. La gente è felice; ottiene ciò che vuole, e non vuole mai ciò che non può ottenere. Sta bene; è al sicuro; non è mai malata; non ha paura della morte; è serenamente ignorante della passione e della vecchiaia; non è ingombrata né da padri né da madri; non ha spose, figli o amanti che procurino loro emozioni violente; è condizionata in tal modo che praticamente non può fare a meno di condursi come si deve. E se per caso qualche cosa non va, c’è il “soma”… che voi gettate via, fuori dalle finestre, in nome della libertà, signor Selvaggio. Libertà!”
Il selvaggio John verrà quindi portato nel “nuovo mondo”, ma le conseguenze saranno disastrose: una volta resosi conto che è stato ormai irrimediabilmente attaccato e compromesso dalla società, deciderà di tornare nella sua isola e autoflagellarsi per espiare le sue colpe, ma a lungo andare troverà la morte.
L’intreccio che Huxley realizza nel Nuovo mondo è ravvisabile anche nel gioco che fa compiere alla figura di Henry Ford, vista come un Dio dalla società che descrive (infatti gli anni partono dalla data della sua nascita) e dalla figura di Sigmund Freud, molte volte chiamata indirettamente in causa: quindi i due miti della produzione e della psicoanalisi. L’estremizzazione di queste due discipline portano Huxley a immaginare questa società disumanizzata in cui non c’è posto per l’arte, per i libri, per la libera espressione, in cui l’essere umano è programmato e condizionato psicologicamente sin dalla nascita verso una esistenza precisa e prestabilita in funzione della produttività.
Il suicidio del Selvaggio, forse l’unico elemento di speranza e di rottura, contribuisce a rendere ancora più cupa la visione del mondo futuro dell’autore inglese: il mondo nuovo che vede Huxley sembra essere quindi privo di una qualsiasi speranza in un futuro.
“E questo, aggiunse il Direttore sentenziosamente «questo è il segreto della felicità e della virtù: amare ciò che si deve amare. Ogni condizionamento mira a ciò: fare in modo che la gente ami la sua inevitabile destinazione sociale”. (Il mondo senza futuro)
Secondo Umberto Eco, per poter comprendere un testo è necessario fare ipotesi riguardo al mondo possibile che quello specifico testo vuole rappresentare. Il problema intrinseco a questa affermazione sgorga quando il testo stesso, il testo di base da tradurre, o da leggere, altro non è che la vera e propria creazione di un mondo dell’assurdo, dell’impossibile e dell’inimmaginabile. E, ovviamente, tra i re indiscussi della letteratura del non-sense e del fantastico vi è Lewis Carrol con la sua scaltra Alice. Come formulare, quindi, ipotesi di un mondo possibile, se questo si basa sull’assurdo e sul non-sense?
Prima in Alice in wonderland (1871) e in seguito in Through the looking-glass and what Alice found there (1871), Carrol demolisce, un passo alla volta, tutte le convenzioni sociali, dando vita all’inaspettato. Tutti conoscono il fortunato classico che Disney ha modellato sulla storia di Alice, creando un simpatico mix delle due storie, ma pochi hanno letto, e compreso a fondo, il testo originale, ricco di insidie per chi lo affronta a cuor leggero, illudendosi di aver scelto una semplice favoletta per bambini. E, se il testo risulta un’intricata matassa per i curiosi lettori, peggio è stato per tutti i traduttori che, nel corso dei decenni hanno affrontato questo testo, che sembra non seguire alcuna logica apparente.
In particolare, fonti di grandi problemi per questi ultimi, sono quelle che Carrol stesso definì “parole-valigia”, ossia neologismi di sua invenzione nati dall’unione di tratti di diverse parole, dando vita ad un’unica parola, il cui significato contiene entrambi i significati delle parole di base, ma la cui comprensione risulta ardua, in quanto gli ingredienti base sono resi irriconoscibili. Il problema di queste parole, in traduzione, risiede quindi su tre livelli: la mera comprensione del testo, la scelta di parole che abbiano un significato comparabile a quelle del testo originale, ed infine le parole scelte devono essere anche spezzabili, divisibili, e poi ri-unibili in una nuova forma, per creare il neologismo equivalente. Ed altrettanto incomprensibile.
Un ulteriore, ma correlato problema che traduttori e linguisti prima, lettori e studenti poi, hanno dovuto affrontare è quello riguardante la filosofia a cui l’autore si ispira nel suo redigere queste due opere: il nominalismo. Si tratta di una reale corrente filosofica, presente in modo più o meno accentuato in molti tratti delle teorie più classiche, che nel suo punto di massima forza rinuncia ad un significato fisso ed universale delle parole, in favore delle scelte personali e del più estremo soggettivismo. Esponente e portavoce di questo approccio nel libro è Humpty Dumpty, figura poco conosciuta, ma di importanza fondamentale nell’esprime il pensiero dell’autore, in quanto, in un dialogo con Alice, arriva ad affermare: “quando dico una parola, questa significa solo ciò che io voglio che significhi“; una sorta di estremismo linguistico dunque, che riduce al minimo le possibilità di comprensione tra i dialoganti, tanto che lo stesso autore, lungo il testo, dissemina spiegazioni, senza le quali non sarebbe possibile comprendere il testo.
Il bel viaggio onirico di Alice nasconde insomma numerose insidie non solo per la protagonista, ma anche per i suoi fan. Si abbandoni quindi la semplificazione Disneyana o lo sviluppo ombroso e recente dell’eccentrico Burton, per affrontare le insidie linguistiche. E se vi sono ancora dei dubbi, se si crede che tutto questo sia un’esagerazione, ecco di seguito la traduzione del poema del Ciciarampa, uno dei tanti intrigati esempi che si ritrovano al di là dello specchio:
Ghiarivan foracchiando nel pedano:
Stavano tutti mifri i vilosnuoppi,
Mentre squoltian i momi radi invano.
«Rifuggi il Ciciarampa, figliuol mio! Ganascia sgramia e artiglio scorticante! Sfuggi all’uccello Ciciacià, perdio. Guardati dal Grafobrancio ch’è friumante!»
La spada bigralace ei strinse in pugno; L’omincio drago cominciò a cercare – Infin che stanco sotto il pin Tantugno, Fermossi un poco per poter posare.
E mentre egli broncioso ponderava, Il Ciciarampa come d’ira spinto, Sbruffando sortì fuor dalla sua cava, Di schiuma e bava sbiascico e straminto.
L’un colpo appresso all’altro si raddoppia: Scric-scrac trinciava il bigralace brando! Lo lasciò morto, e la sua testa moppia A casa riportava galonfando.
«Il Ciciarampa! E lo uccidesti tu? Ti stringo al petto, mio solare figlio! O gioiglorioso giorno! Ippioh! Ippiuh!» Ansante, ei ridonchiava in suo giupiglio!
Era cerfuoso e i viviscidi tuoppi Ghiarivan foracchiando nel pedano: Stavano tutti mifri i vilosnuoppi, Mentre squotian i momi radi invano.
La maggior parte delle parole presenti sono ovviamente una invenzione di Carroll e molte rientrano nella categoria delle parole macedonia, parole nuove formate dalla fusione di due parole diverse.