‘’Le lettere a Nora’’ di Andrea Carloni: l’audace scambio epistolare fra James Joyce e Nora Barnacle

‘’Le lettere a Nora’’ è il libro di Andrea Carloni pubblicato da Alter Ego Edizioni in cui l’autore racconta il legame carnale di James Joyce con Nora Barnacle attraverso un intenso scambio epistolare dalle passionali sfumature erotiche. Se tanto si conosce su James Joyce, molto poco si sa sulla figura che è stata fonte di ispirazione e passione dello scrittore; l’incontro fra Nora e James risale al 10 giugno 1904 ma la relazione fra i due inizia il successivo 16 giugno.

Questa data, in seguito, è stata poi scelta dallo stesso Joyce per ambientare il suo più celebre romanzo, Ulisse, che si svolge appunto in una sola giornata a Dublino. La data ha poi raggiunto una certa notorietà tanto da esser celebrata in tutto il mondo come Bloomsday. Il copioso scambio epistolare fra Nora e James permette al lettore di entrare nell’intimità di un rapporto controverso e sopra le righe, ma soprattutto di captare al meglio chi, davvero, possa essere stata Nora Barnacle nonostante le informazioni su di lei siano esigue. Andrea Carloni nell’introduzione di ‘’Le lettere a Nora’’ scrive:

 Nora la vittima, Nora l’innamorata, Nora l’ingenua, Nora la ribelle, Nora l’ignorante, Nora l’emancipata, Nora la sacrificata…

Ma chi era Nora?

Una personalità controversa, ribelle, emancipata, di spirito semplice, ma sensuale. E così, l’autore nella prefazione che introduce l’intenso scambio epistolare fra i due amanti, raffigura Nora come una donna dallo stile di scrittura fluente ma istintiva, che non si cura della forma come della sintassi o dell’ortografia; un modo di scrivere che rimanda al flusso di coscienza di Molly Bloom, come lo stesso Andrea Carloni sottolinea. Figura eterea e, al contempo, libidinosa l’autore sottolinea come Joyce amasse di Nora l’anima semplice e la capacità di stare accanto a lui nonostante le incombenze, le difficoltà economiche e la lontananza. Ed è proprio per la lontananza che Nora acconsente a uno scambio di missive erotiche,  avendo timore che James potesse supplire all’assenza di lei frequentando prostitute.

 

La tenerezza di uno scambio epistolare intriso di erotismo

 

L’amore fra James Joyce e Nora Barnacle è viscerale, selvaggio, carnale, possessivo; un rapporto considerato osceno per il tempo ma che comunque non si basa esclusivamente sull’effimera libidine perché, nello scambio epistolare, i due amanti si raccontano, l’un l’altro, porzioni di vita; debiti, incombenze, delusione, malattie, l’amore. Ogni tassello si posiziona in un sfondo tinteggiato di erotico che rende la narrazione globale e fluente, facendo carpire al lettore chi davvero sono stati questi due amanti teneri e selvatici che, 120 anni fa, tenevano in vita il loro amore attraverso il potere delle parole e della fantasia. Il carteggio, infatti, appartiene agli anni in cui Nora Barnacle e James Joyce non erano, fisicamente, insieme. Nello specifico, le lettere riportate nel libro di Andrea Carloni vanno da giugno a ottobre 1904: l’incontro e la frequentazione dei due, prima di lasciare l’Irlanda.

La corrispondenza si sposta poi dal 1909 al 1912, quando la coppia si è stabilita a Trieste e si separa per alcune visite a Dublino. Infine, il carteggio copre l’arco di tempo dell’ Agosto 1917, quando Nora si trasferisce a Zurigo prima di James. È  interessante notare come l’autore si concentri anche sul tema dei viaggi che diventa protagonista indiretto degli scambi epistolari fra i due; la lontananza è sia combustibile che alimenta lo scambio epistolare generoso che unguento saliente che lenisce la pena dell’assenza. I viaggi, i trasferimenti, le città: tutto raccontato con dovizia, attraverso uno stile scorrevole e un linguaggio semplice e diretto.

Andrea Carloni

La dualità di Nora e l’imperituro legame viscerale con Joyce

 

Nora non è una donna amante delle faccende domestiche, non è  Estia  la dea del focolare e della famiglia; eppure è una buona moglie e una buona madre che all’occorrenza sa farsi bramare da Joyce e divenire l’oggetto dei suoi desideri. Una delle prime lettere riportate nel libro di Andrea Carloni, datata fine luglio 1904, sottolinea come la mescolanza di emozioni contrastanti, l’erotismo e un viscerale senso di appartenenza imbevuto da una evidente connessione mentale legasse Nora e James:

 

‘’[Fine luglio 1904] 60 Shelbourne Road, Dublino

Mia particolarmente imbronciata Nora, ti avevo detto che ti avrei scritto. Ora scrivimi tu e dimmi che diavolo avevi l’altra sera. Sono sicuro che qualcosa non andava. Mi sembrava tu fossi dispiaciuta per qualcosa che non era accaduta – che sarebbe cosa molto da te. Ho cercato di consolare la mia mano da allora ma senza riuscirci. Dove sarai sabato sera, domenica sera, lunedì sera, dato che non potrò vederti? Adesso, adieu, carissima. Ti bacio quella fossetta miracolosa sul collo, il Tuo Cristiano Fratello di Lussuria.

J.A.J.

Quando tornerai di nuovo lascia i bronci a casa – pure i corsetti’’

 

Si noti  come Joyce utilizzi l’appellativo ironico e allo stesso tempo moderno ‘’Fratello di lussuria’’: un linguaggio estremamente contemporaneo e intimo, riflesso di una relazione sfaccettata ed eclettica. Nell’agosto del 1904, invece, Nora scriverà al suo James:

 

‘’[…] Mi sembra di essere sempre in tua compagnia nelle più svariate circostanze possibili parlare con te camminare con te incontrarmi con te improvvisamente in posti differenti finché inizio a chiedermi se il mio spirito se ne vada dal mio corpo nel sonno e vada a cercarti, e per di più trovarti o forse questa è solo una fantasia[…]’’

 

Una passionalità concreta che si riconosce nella visione carnale, angelica ed erotica, al contempo, che Joyce ha della sua donna e che si scorge anche nelle descrizioni che lo scrittore fa di Nora, come in questa lettera dell’agosto 1909:

‘’Ti ricordi i tre aggettivi che ho usato ne I morti per parlare del tuo corpo? Sono questi: “musicale e strano e profumato”.

Sono trascorsi 120 anni da queste lettere ma il libro di Andrea Carloni appare come la fotografia di un amore senza tempo: nonostante il fluire dei giorni,  le difficoltà della vita e la lontananza imposta questi due amanti –  quasi come eterni bambini  – continuano a giocare al gioco dell’amore; un amore passionale, tenero, energico, erotico, eclettico trasmesso attraverso la maestria dell’autore, la cura, la traduzione e l’utilizzo di  un linguaggio contemporaneo che racconta un’esistenza libera e un rapporto conteso fra dimensione eterea e passionalità.

La casa-museo a Roma del dimenticato Mario Praz. Collezionare punti di svolta

Luchino Visconti vi girò nel 1974 il film Gruppo di famiglia in un interno: un rigoroso professore, Burt Lancaster, che vive in un antico palazzo romano ricco di arredi preziosi e libri antichi, nel ricordo di sua madre e sua moglie e il giovane dissoluto con manie rivoluzionarie, Helmut Berger, accampato al piano superiore con i suoi immorali amici. Schifano affittò l’appartamento all’ultimo piano dove si consumavano cene, feste e vita sfrenata.

È la casa-museo del grande e temuto anglista Mario Praz che sembra richiamare il titolo di una sua opera “La carne, la morte e il diavolo” sulla letteratura romantica, per la sua ricchezza di vita vissuta per lo studio e per il gusto del dettaglio al suo interno; è il regno di uno dei più grandi studiosi e critici che l’editoria italiana ha dimenticato: Mario Praz.

È stato inaugurato a Roma, nell’appartamento di Palazzo Primoli, in via Zanardelli, il Museo “Mario Praz”, dedicato proprio al celebre critico che lì visse dal 1969 fino alla sua morte nel 1982.

L’operazione è stata possibile grazie all’intervento della Direzione generale Musei del Ministero della Cultura, guidata dal prof. Massimo Osanna, che in questa fase riveste anche il ruolo di Direttore avocante della Direzione Musei Statali della Città di Roma, di cui il museo fa parte.

La casa riflette l’anticonformismo, la malinconia, il conservatorismo di Praz, collezionista non solo di antiquariato ma di solitudini, amante dello stile Impero e del pettegolezzo dotto, e instancabile viaggiatore, alimentatore della sua fama di “iettatore”, data la sua claudicanza, strabismo e predilezione per i temi demoniaci.

Sinistro, morboso, eccentrico, patologico, cupo, sono alcuni tra gli aggettivi accollati a Praz, al quale piaceva contribuire alla creazione di una inquietante aura attorno alla sua figura.

Il professor Mario Praz insegnò a Liverpool, Londra, Manchester, prima di stabilirsi alla “Sapienza”, e poi, a Palazzo Ricci, in via Giulia, sempre a Roma.

La sua Storia della letteratura inglese, seppur datata ovviamente, spicca, in un’epoca come questa, dei critici incompetenti e dai giudizi sommari, privi di carisma e passione. Praz suscitava invidia anche quando era in vita, era coltissimo e raffinato, ha anticipato i cultures studies, in un romanzo intravedeva le linee di un ritratto pittorico. L’ampiezza di sguardo, tuttavia non lo risparmiò dal prendere un abbaglio con Pound non capendo il suo talento e con Joyce che addirittura considerava inutile.

Raffinato osservatore dello svariare delle mode e dei costumi, collezionista di punti di svolta, Praz sicuramente avrebbe sottoscritto l’invito di Sergio Solmi a ricordare che sia il critico sia l’autore sono «punti egualmente mobili nel tempo», ma non sempre applica con uguale costanza queste sue doti a sé stesso. Spesso infatti mantiene la struttura generale di uno scritto  modificando però dettagli, aggiungendo note recenti, facendo rapidamente i conti con nuove prospettive critiche.

Se Voce dietro la scena incoronò definitivamente Mario Praz saggista, che nella Prefazione si accosta ancora una volta allo stile dell’Elia di Lamb, nel Mondo che ho visto, invece, Praz scrittore di viaggio raggiunge la vetta più alta fornendo una impressionante carrellata di  impressioni e suggestioni di viaggio osservando come «pochi viaggiatori sanno essere personali, sanno vedere con occhi che penetrano nell’essenza delle cose».

La casa-museo racchiude decenni di appassionato collezionismo e ne riflette gusti e inclinazioni: dall’amore per il periodo napoleonico all’interesse per l’arredamento d’interni e per gli oggetti d’uso dello stesso periodo, che insieme formano e ci riportano concretamente il gusto di un’epoca, alla profonda cura per il dettaglio visibile nell’accurata scelta della posizione di ogni oggetto, sulla base di rispondenze non solo estetiche ma anche culturali e intellettuali. Durante il periodo di chiusura temporanea, il MiC ha curato approfonditi restauri, sia sulle strutture di servizio che sulle opere, coordinati dalla Direttrice del Museo, Francesca Condò, con la collaborazione della restauratrice Silvana Costa.

‘Il soffitto stregato’, il racconto di Wells ritrovato, pubblicato per la prima volta in Italia da Edizioni Spartaco

The Haunted Ceiling (Il soffitto stregato) appare nella sua prima traduzione italiana grazie alla casa editrice Spartaco. Ritrovato da Andrew Gulli fra gli scritti di Wells conservati presso l’università dell’Illinois, il racconto è stato pubblicato nel gennaio del 2016 su “The Strand Magazine”. Non risulta che l’autore l’abbia mai dato alle stampe.

Due noti studiosi di Wells, Patrick Parrinder e Michael Sherborne, lo fanno risalire, in base a criteri che investono stile e contenuto, alla metà degli anni Novanta dell’800, il lasso di tempo in cui Wells si dedicò con particolare impegno alla forma breve. Il testo degli altri quattro racconti è ripreso da The Complete Short Stories of H. G. Wells, a cura di John Hammond, London, Phoenix Press, 2000.

Fantasmi, prodigi, apparizioni. Ma niente è come sembra. Il “soprannaturale” di Herbert George Wells è in continua lotta con il razionale. Scettici e creduloni, uomini di scienze e di lettere si fronteggiano in uno scontro dove la debolezza umana può imbattersi in quel «verde orrore» di cui già parlava Omero.

La mia candela, una minuscola lingua di fiamma in tanta vastità, non riusciva ad arrivare fino all’estremità opposta della camera e, al di là della sua isola di luce, lasciava un oceano di mistero e suggestione.

Una macchia sul soffitto che prende la forma di una donna misteriosa. Un gioco di luce che proietta la sagoma di una defunta. Un inquietante sosia che vaga molesto durante la vigilia di Natale. Un’ombra che terrorizza un giovane entrato nella casa sbagliata. Una camera infestata dalla più invincibile delle presenze, la paura.

Cinque storie, cinque affascinanti “visioni”, nell’elegante e originale traduzione di Stefano Manferlotti, che si aprono con un racconto scoperto pochi anni fa e adesso per la prima volta proposto in italiano. Tutte rivelano aspetti inediti dell’opera del grande scrittore britannico che indaga il paranormale al lume della ragione.

«I libri di Wells dovranno incorporarsi alla memoria generale della specie» Jorge Luis Borges

«L’uomo di scienza che è in Wells ha sempre l’ultima e chiarificatrice parola» Stefano Manferlotti

 

Stefano Manferlotti, professore emerito di letteratura inglese, ha insegnato all’Università di Napoli Federico II. Oltre a numerosi saggi in rivista e in opere collettanee, ha pubblicato volumi su Shakespeare, Orwell, Huxley, Joyce, Burgess e sulla letteratura interetnica in Gran Bretagna. Intensa anche la sua attività di traduttore. Ultima, in ordine di tempo, la traduzione e cura de La fattoria degli animali di George Orwell (Marsilio, 2021). Dirige la collana di studi inglesi e americani Il Leone e l’Unicorno edita da Liguori.

‘Nessuna come lei’ di Sara de Simone. Katherine Mansfield e Virginia Woolf: storia di un’amicizia

Con “Nessuna come Lei”, Sara De Simone, vicepresidente dell’Italian Virginia Woolf Society, penna critica del Manifesto e traduttrice, ha dato luce ad aspetti solitamente poco esplorati, vagamente raccontati o clandestinamente trasmessi, non solo della biografia delle due grandi autrici Mansfield e Woolf, ma di una certa storia della letteratura che ha a che fare con le abitudini, i canoni e le convenzioni sociali, così come le abbiamo ereditate.

 La scena che troppo spesso non figura nella storia della letteratura è quella di due donne – due scrittrici – che parlano dei propri libri […] e si guardano negli occhi, e si temono, e si ammirano. E sono amiche

Pubblicato nel gennaio di quest’anno per i Colibrì di Neri Pozza, Nessuna come lei è un’autentica biografia di un’amicizia che al contempo racconta di un quotidiano tanto difforme – per quanto radicalmente simile – due vite da scrittrici perfettamente parallele.

Con serietà, accortezza e intelligenza, Sara de Simone restituisce gli anni del fervore artistico e intellettuale europeo del XX secolo. Dal 1916 al 1941, aneddoti intimi e mondani si intrecciano alla storia letteraria e sociale. Ai carteggi – significativamente importanti ai fini delle relazioni intrattenute dalle due scrittrici non solo fra di loro, ma anche con le persone coinvolte nelle loro vite – si aggiungono i diari, gli esimi testimoni di quello che risulta essere il fulcro vitale del libro, la sua ragione d’essere. In poche parole, la volontà di restituzione di un’ostinazione verso il vero, di una ricerca essenziale – ai limiti dell’ossessione – della verità non solo artistica, ma anche umana.

Una verità che De Simone ha voluto illuminare, raccontare – finalmente – dalla parte delle donne. Due, queste, che risultano irraggiungibili a loro stesse e fuse allo stesso tempo. Parallele perché in una condivisione quasi timida e tacita di una fragilità e sensibilità impareggiabili. Entrambe soffrono, si ammalano, vivono una posizione orizzontale che, nella costrizione, trasformano in azione creativa, in ricerca di quella stessa cosa che è uno sguardo differente che verte sulle differenze.

Sara De Simone lo racconta lungo tutto il libro, senza troppo ripeterlo, quanto la ricerca del vero di Mansfield e Woolf abbia abitato i loro inchiostri, immortali e discussi, sinfonici e vivifici, di falsa invidia e forse, pura gelosia.

Un lavoro di ricerca mastodontico, “Nessuna come Lei”, che in sostanza serve due voci umane di donne pilastro nella storia della letteratura. Il risultato di questa ricerca, secondo la penna di chi scrive, è che una delle due voci, quella di Virginia Woolf, che quasi si invocherebbe a mainstream – da postuma influenza la ricezione dell’altra, di Katherine Mansfield che, a sua volta, ha fatalmente viaggiato davanti, ha influenzato la scrittrice che Woolf è diventata.

Ci si augura che a questo saggio biografico ne seguano altri. Che pubblico resti, questo amore per le parole, il loro peso, il loro infinito silenzio.

«Entrambe mettevano la letteratura al primo posto. E questa non era un’affinità come un’altra: era tutto. Era come essere partecipi di un rito segreto, come camminare sulle stesse zolle di terra incandescente, dove nessun altro osava avventurarsi».

«Mio Dio, Virginia, adoro pensare a te come un’amica». – Katherine Mansfield

 

 

 

Ricordando James Joyce a 131 anni dalla nascita attraverso il suo capolavoro ‘Ulisse’

Il 2/2 del ’22, il 2222, fu una specie di esplosione verbale di cui s’ode ancora l’impeto, imperiale: nessuno, da lì in poi, può prescindere dal “super-romanzo” di James Joyce, per sottomissione o ribellione. Una storia dell’influenza di Ulisse nella letteratura occidentale del Novecento finisce grosso modo per coincidere con la letteratura occidentale del Novecento: T.S. Eliot – pur usandolo per tirare il carro alla propria estetica – aveva capito tutto, “Usando il mito e operando un continuo parallelo tra contemporaneità e antichità, Joyce instaura un metodo che altri potranno utilizzare dopo di lui”; seguiva, per capirci, il paragone con “le scoperte di un Einstein”. Insomma, il ‘metodo’ di Joyce era equivalente alla teoria della relatività generale di Einstein (che nel 1921 aveva ricevuto il Nobel per la fisica).

Da allora, nulla sarebbe stato più come prima. Virginia Woolf legge Ulisse irritandosi – “Ho terminato l’Ulisse e mi sembra un colpo mancato. Genio ne ha, direi, ma di una purezza inferiore. Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso di ovvio, ma nel senso letterario” –, Ezra Pound lo esalta esalando urla: “Tutti gli uomini dovrebbero «unirsi per elogiare Ulisse»; chi non lo farà potrà accontentarsi di un posto negli ordini intellettuali inferiori; non voglio dire che tutti debbano elogiarlo a partire dallo stesso punto di vista, ma tutti i seri uomini di lettere, che ne scrivano o meno una critica, dovranno di certo concepirne una per loro uso e consumo”. William Faulkner, dopo una gita tra bordelli italiani vari, atterra a Parigi, nel ’25, e sogna di vedere Joyce dalla vetrata di un cafè, in Place de l’Odéon: la lezione di Ulisse gli è necessaria per giungere a L’urlo e il furore.

Nel 1932, per onorare i cinquant’anni di JJ, Hermann Broch, a Vienna, dà lettura del suo saggio, James Joyce und die Gegenwart (poi pubblicato nel 1936; in Italia è uscito come James Joyce nel 1983, da Editori Riuniti): lo stesso editore tedesco dell’Ulisse pubblicherà il capolavoro di Broch, La morte di Virgilio, che usa, a modo suo, il ‘metodo’ di Joyce. L’Ulisse è testo assoluto e seminale: inimitabile, ha mutato le geografie fino ad allora sperimentate dal genere romanzo; una specie di rivoluzione quantistica. Ne Il gioco degli occhi, Elias Canetti racconta quando ha incontrato Joyce, a Zurigo, nel 1935: fu una fuga nel frainteso. Canetti aveva letto, in pubblico, la sua Commedia della vanità, di cui Joyce aveva recepito solo alcuni frammenti. “Nell’intervallo fui presentato a Joyce”, scrive Canetti, “il quale si espresse in termini molto bruschi e molto personali: ‘Io mi faccio la barba col rasoio, senza specchio!’”. Nella Commedia si accennava agli specchi, al loro inesorabile enigma, ma quella di Joyce pare una frase che nasconda un cabbalista, dai sensi irritati e sovrapposti. Spesso i biografi ricordano che dopo aver pubblicato Ulisse, Joyce subì “nuovi disturbi agli occhi”, quasi che vi fosse una coincidenza tra scrittura e cecità.

“Leggere l’Ulisse,” opera realistica e burlesca al tempo stesso, come scrive Alessandro Ceni nella sua Nota introduttiva, “è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto” dove le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano. Trascinata da una scrittura mutevole e mimetica, da un uso delle parole che è esso stesso narrazione, la complessa partitura del romanzo procede con un impeto che scuote e disorienta. Perché “un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza”. Solo immergendosi senza riserve nella scrittura il lettore potrà uscirne davvero, alla fine, inondato di tutta la luce che questo romanzo concentra in sé.

Ciò che rende Ulisse imponente non è, infatti, il tema ma la scala su cui viene sviluppato. Sono serviti sette anni a Joyce per scriverlo e l’ha fatto in settecentotrenta pagine, che sono probabilmente le pagine più assolutamente “scritte” da Flaubert in poi. Non solo l’aneddoto è espanso fino alla sua forma più piena possibile – c’è un resoconto elaborato di quasi tutto vien fatto o pensato da Mr. Bloom dal mattino alla notte nel giorno in questione – ma si ha sia il metodo “psicologico” che quello flaubertiano di rendere lo stile in linea con la cosa descritta, metodo portato diversi passi avanti più di quanto non sia stato fatto sinora, così che mentre in Flaubert si hanno banalmente le parole e le cadenze adattate con cura a suggerire uno specifico stato d’animo o un personaggio senza alcun tentativo di identificare la storia con il flusso di coscienza della persona descritta, e in Henry James la semplice esplorazione del flusso di coscienza con vocabolario e cadenza unici per tutto l’insieme di stati d’animo e personaggi, in Joyce non si hanno soltanto la vita descritta dall’esterno con virtuosità flaubertiana ma pure la consapevolezza che ogni personaggio e ogni suo stato d’animo sono messi a parlare in un idioma loro proprio, il linguaggio usato in riferimento al linguaggio. Se Flaubert insegnava a Maupassant come trovare l’aggettivo che avrebbe distinto una certa carrozza da tutte le altre carrozze al mondo, James Joyce ha stabilito che si deve trovare il dialetto che potrebbe distinguere i pensieri di un certo Dublinese da quelli di ogni altro Dublinese.

“Peccato per il pubblico se si attende di trovare una morale nel mio libro – o peggio, potrebbero prenderlo ancora più sul serio e, onore di gentiluomo, non vi è una sola riga seria lì dentro” J. Joyce

Mr Bloom, coi suoi generosi impulsi e i suoi tentativi di comprendere e padroneggiare la vita, è il simbolo epico dell’uomo raziocinante, umiliato e ridicolo, pure in grado di districarsi con l’astuzia dagli spiriti che tentano di distruggerlo; e Mrs. Bloom, con la sua forza terrificante frammista di affetti amorosi e materni, con le sue radici nello sporco della terra e il suo gioioso fiorire in bellezza, è l’immagine gigantesca della terra stessa da cui sia Dedalus che Bloom sono sorti e che sembra essere il fondamento profondo dell’intero dramma come il tono base all’inizio dell’Oro del Reno.

Il tema principale del capolavoro di Joyce va cercato nel suo parallelo con l’Odissea: Bloom è una specie di moderno Ulisse – con Dedalo come Telemaco – e lo schema e le proporzioni del romanzo vanno fatti corrispondere a quelli dell’epica. Sono questi e non le necessità interne dell’argomento ad aver dettato le dimensioni e la forma di Ulisse.

 

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‘Fiorirà l’aspidistra’ di George Orwell. Quando un nobile sogno diviene ossessione

Il sogno di una vita serena, con una pianta di aspidistra alla finestra, e la difficoltà di raggiungerlo, è questa in estrema sintesi la trama del romanzo del 1936 “Fiorirà l’aspidistra” (edizione italiana nel 1960) di George Orwell, che è una dura critica alla società capitalista: l’ossessione per i quattrini, visti come unico motore del mondo, che porta il protagonista Gordon all’abbrutimento totale.

Il romanzo di Orwell è attuale oggi come allora. Delinea i tratti senza tempo di ricchi e poveri; di chi i soldi li ha e di chi li desidera con tutto se stesso, tramutandoli in un’ossessione distruttiva. È un libro che richiede tempo per essere letto, digerito e compreso.

Gordon Comstock non è come tutti gli altri. Anche se mi rendo conto quanto nessuno, in fin dei conti, si senta mai “come gli altri”. Si crede sempre, specie in giovane età, d’essere diversi. Di avere quella luce, li, fissa negli occhi, a differenziarci da tutti gli altri. Ma la maggior parte, ahimè, crescendo, si arrenderà al fatto che in fondo si è un po’ tutti simili.

Gordon, invece, diverso lo è davvero.

Si dimena, scalcia, grida forte nella sua diversità, a tal punto che le persone che gli vogliono bene, come la sorella o la fidanzata, a un certo punto si arrendono nel ripetergli di quanto sia sicura e percorribile la “normalità”. Quella normalità che insegue il denaro ed è succube del buon posto di lavoro con tutte le sue catene ben fissate alla scrivania di quel minuscolo ufficio. Per Gordon la vita è un equazione semplice. Se hai i soldi hai tutto, e se non dovessi averli, scordati pure le attenzioni della gente o l’amore delle donne. Tutto e tutti cercheranno di mantenere le distanze da te evitandoti.

Per quanto Gordon sia fermamente convinto che il mondo funzioni così, non fa nulla né per opporvisi e né tantomeno per farne parte. La sua vita consiste in un perenne galleggiare tra lavori pagati due soldi e la sua ambizione letteraria di diventare scrittore.

In passato non sono poche le opportunità che ha avuto per potersi creare una carriera nel mondo pubblicitario come copywriter, ma non appena si è reso conto d’avere talento, e quindi di poter guadagnare sempre più, ha deciso di abbandonare il lavoro. Il terrore puro, dell’eventualità di poter essere come tutti gli altri, schiavo del Dio denaro quindi, lo ha condotto verso la fuga.

“Ebbe una visione di Londra, del mondo occidentale: vide milioni di schiavi sgobbare e strisciare ai piedi del trono di Quattrino.”

Julia, la sorella di Gordon, è esattamente l’esempio di quel che lui intende in queste due righe quando parla di “schiavo”. Dopotutto lei vive una vita nella miseria lavorando dalla mattina alla sera, sopravvivendo a malapena con il suo salario, e cercando in mille modi di aiutare il fratello, il quale è messo addirittura peggio di lei.

Gordon, in cuor suo, disprezza Julia, ma lo fa nonostante le voglia un gran bene e riconosca quanto lei abbia sempre cercato di aiutarlo. Non riesce però a nascondere la  totale mancanza di stima nei suoi confronti, per il semplice fatto che per tutta la durata della sua vita lei non abbia fatto altro che lavorare bramando denaro.

La sua perenne fuga dal denaro, è probabilmente dovuta dalla paura di non essere in grado di gestirlo, se mai ne avesse avuto. Questo suo incubo, ad un certo punto del romanzo, diviene realtà. Un importante rivista accetta una della sue poesie, inviandogli ben dieci sterline. Soldi che di colpo lo gettano nel panico, facendogli compiere una serie di sciocchezze. Nonostante il suo primo pensiero sia quello di dare parte di quel guadagno alla sorella Julia, come se fosse un risarcimento per tutto quel che lei ha fatto per lui durante quegli anni, alla fine si ubriaca dandosi alla pazza gioia, sperperando tutto.

È difficile scindere l’odio verso gli altri dalla povertà. Quando si ha poco o niente, l’unica cosa che rimane è detestare tutti quelli che hanno qualcosa, e Gordon ovviamente non può esimersi da questo.

“Londra! Chilometri e chilometri di case modeste, solitarie, tutte ad appartamentini e camere in affitto: non focolari, non comunità, ma semplicemente fasci di vite senza senso trascinate da una specie di caos sonnolento in lenta deriva verso la tomba! Vedeva passare gli uomini come cadaveri deambulanti”. Li detesta tutti Gordon, e dietro al suo sguardo scrutatore e senza ritegno, li considera dello stesso valore dell’aspidistra che tiene dietro la finestra in cucina.

Gordon ha una fidanzata, Rosemary, con la quale non riesce a fare l’amore perché convinto che per poter andare a letto con una ragazza ci vogliano i soldi. Dopotutto, offrirle una cena fuori aiuterebbe no? E portarla in una bella camera d’albergo, non sarebbe certamente d’aiuto? Per non parlare dei vestiti, indossare un capo di tutto rispetto, ci farebbe partire sicuramente avvantaggiati. Non potendo usufruire di tutto questo, il vittimismo di Gordon la fa da padrone ingurgitandolo e risucchiandolo in un vortice di negatività dal quale proverà ad uscire solamente nelle ultime pagine del romanzo.

In Fiorirà l’aspidistra, George Orwell ha messo a punto una precisa scelta ideologica. Un protagonista che diventa un borghese modello, con tanto di cravatta ed aspidistra, non significa altro che la vittoria del profitto, del denaro sull’idealismo, dell’apparenza sociale sull’essere. L’individuo è così soddisfatto, socialmente contento, ma sconfitto, a vantaggio di una visione utilitaristica e conformista dell’uomo.

Ed è proprio questa scelta politica che rende il romanzo realistico e visionario allo stesso tempo, nonché sempre attuale:

“Si chiese chi fosse la gente che abitava in quelle case. Dovevano essere, per esempio, piccoli impiegati, commessi di negozio, viaggiatori di commercio, galoppini di assicuratori, tranvieri. Sapevano di essere soltanto marionette che ballavano solo quando il denaro tirava i fili? C’era da scommettere la testa che non lo sapevano. E quand’anche lo avessero saputo, non gliene sarebbe importato nulla. Erano troppo occupati a nascere, a sposarsi, far figli, lavorare, morire”.

Fiorirà l’aspidistra è un pamphlet antiborghese con diversi riferimenti autobiografici, una sorta di resa dei conti tra l’autore, le proprie aspirazioni e passioni, i compromessi rifiutati e quelli accettati durante la sua carriera, portato avanti con una scrittura mirabile e con una dettagliata definizione dei personaggi che dicono molto sul nostro modo di agire in qualsiasi luogo e tempo, di come un nobile sogno possa trasformarsi una pericolosa ossessione.

Ma è il capitalismo a renderci davvero più egoisti e ambiziosi o il desiderio insito nell’essere umano a migliorarsi continuamente per sfuggire alla mortifera noia e all’immobilismo? Manca forse in Fiorirà l”aspidistra l’attenzione per la dimensione psicologica, o meglio esistenziale della natura umana, concentrandosi su quella politica e sociale.

 

‘Il signore delle mosche’ il capolavoro realista-modernista di Golding

Il signore delle mosche è un capolavoro della letteratura inglese di William Golding, pubblicato nel 1954, grazie all’interessamento di T. S. Eliot. Il successo editoriale fu gigantesco: 14 milioni di copie vendute in Inghilterra. Quest’opera ha avuto diverse trasposizioni cinematografiche. Il primo film sul “Signore delle mosche” è del 1963 ad opera del regista Peter Brook.

Il libro non è altro che una favola moderna. Un gruppo di ragazzi sopravvive ad un incidente aereo e finisce su un’isola disabitata. Il cuore dell’isola è costituito da una macchia fitta, ricca di frutti e maiali. C’è anche una montagna da cui possono scrutare l’orizzonte e guardare se passano le navi. I ragazzi hanno solo un barlume di speranza che possano portarli in salvo gli adulti perché durante il conflitto mondiale è esplosa la bomba atomica. Gli adolescenti devono adattarsi alla vita dell’isola: devono costruire rifugi, andare a caccia, fare delle leggi, eleggere un capo, tenere vivo il fuoco.

Naturalmente dovranno fare tutto da soli perché non c’è la supervisione di nessun adulto. inizialmente viene eletto capo Ralph, il cui tipo di organizzazione simboleggia un’ideale di società democratica, in cui ognuno lavora per il benessere collettivo. Il capo ed i consiglieri possiedono la conchiglia, che rappresenta la conoscenza e la saggezza. Successivamente però si impone la società di Jack, basata sull’obbedienza e la subordinazione: una vera e propria dittatura. I due gruppi si scontrano e nella lotta muoiono due bambini: Simone e Piggy. Il microcosmo isolato dal mondo reale ed occasione per una rinascita dell’umanità diviene quindi un’ulteriore conferma della malvagità del genere umano: i bambini sono regrediti dalla civiltà alla barbarie.

A questo romanzo naturalmente sono state date le più svariate interpretazioni. C’è chi ha ritenuto che fosse un’allegoria religiosa, a causa del titolo. Infatti “Signore delle mosche” è uno dei tanti appellativi del diavolo. C’è chi invece ha posto l’accento sulla lotta tra il bene ed il male, cioè tra Ralph e Jack. Altri hanno visto nel romanzo il simbolo di quel che era accaduto nella seconda guerra mondiale ed hanno intuito in Jack il carisma e la forza di persuasione di Hitler.

Certamente da questo libro si possono comprendere tre concetti basilari su cui si fondano tutte le opere di Golding: 1) l’autore scrisse in un periodo della letteratura inglese, chiamato epoca tra il realismo ed il modernismo. E lo scrittore riuscì ad essere sia realista (perché anche se questa storia è completamente inventata potrebbe sempre accadere) che modernista (in quanto fece largo uso di metafore, simboli ed allegorie) 2) il suo pessimismo riguardo la natura umana, dovuto al fatto che vide direttamente gli orrori della seconda guerra mondiale, perché fu ufficiale della marina britannica 3) la sua totale sfiducia nel sistema scolastico inglese.

Il signore delle mosche infatti può essere anche inteso come una critica distruttiva nei confronti degli agenti di socializzazione dell’Inghilterra di quel tempo. I ragazzi del “Signore delle mosche” sono già andati a scuola, sono già stati deformati dalla scuola britannica. Sono già stati temprati dalla severa disciplina e dalle norme ottuse di quel periodo. Golding non a caso fu maestro e subì l’influsso della pedagogia steineriana.

Steiner è stato il fondatore dell’antroposofia, che potremmo definire una scienza dello spirito. Come educatore il filosofo Steiner fu straordinario. La sua pedagogia non si basa su nessuna imposizione e su nessuna ricetta. Lascia spazio alla creatività dell’insegnante, che a seconda delle sue esigenze e delle esigenze degli allievi può stabilire quali sono i modi più idonei di apprendimento.

La pedagogia steineriana sostituì la disciplina ferrea con il calore umano tra allievo ed insegnante, dato che secondo il filosofo non bisognava educare solo la testa del bambino, ma anche l’intero corpo. Chiaramente Golding avendo in mente Steiner non poteva che essere contrarissimo al modo di insegnare della maggior parte degli insegnanti inglesi, così freddi ed impostati.

“La prima cosa a cui si abituarono fu il ritmo del lento passaggio dall’alba al rapido crepuscolo. Accettavano i piaceri del mattino, il bel sole, il palpito del mare, l’aria dolce, come il tempo adatto per giocare, un tempo in cui la vita era così piena che si poteva fare a meno della speranza”.

 

Di Davide Morelli

‘L’Abisso di Maracot’ di Conan Doyle: un nuovo genere fantascientifico

Sir Arthur Conan Doyle è sicuramente tra gli scrittori più apprezzati del novecento inglese, considerato capostipite del giallo deduttivo, nonché del romanzo fantastico e di avventura moderno.

Il medico scozzese iniziò a scrivere quasi per caso, quando, nel sobborgo di Portsmouth, lo studio che aveva appena avviato, fallì.
Risalgono a questo periodo le prime uscite delle avventure del famigerato Sharlock Holmes. Famoso per questo in tutto il mondo, Doyle avrà un rapporto di amore ed odio con il celebre personaggio. Egli infatti, predilesse altri generi e si specializzò nel romanzo storico, fantascientifico e di avventura, abbandonando il giallo.

Collezionò più di un centinaio di opere tra cui The Maracot Deep (L’Abisso di Maracot). Tra i suoi ultimi lavori, il breve romanzo è l’esempio di come l’autore ha più volte fuso insieme i suoi tre generi preferiti. Apparve in serie già nel 1927 sul The Strad Magazine, ma, solo nel 1929, fu pubblicato in versione integrale dall’editore John Murray a Londra e dalla Doubledau Books negli Stati Uniti.

Nel libro, la leggendaria isola di Atlantide descritta da Platone, fa da sfondo all’avventura di tre personaggi: il Professor Maracot, lo zoologo Cyrus Headly e dal meccanico Bill Scanlan. I tre, discesi nell’abisso per delle ricerche, si ritroveranno per caso ad affrontare strabilianti avventure in fondo al mare.

Precipiteranno fuori le mura dell’antica città creduta perduta. Qui entrano in contatto con una realtà straordinaria ,prendendo coscienza della veridicità del famoso mito greco. La civiltà sorprendentemente all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, risulta non distanziarsi da quelle lasciate sulla terra ferma. Come le grandi metropoli nascenti del novecento, anch’essa è proiettata verso un futuro curioso di innovazioni e di saperi restando tuttavia ancorata alle credenze e tradizioni del passato. La mitologica popolazione ricca d’ingegno ha reso possibile la vita sottomarina.

Il progresso acquisito ha eliminato quelle barriere fisiche e culturali che il mondo in superficie non era stato in grado di superare. Nella nuova tipologia di avventura, l’amore per il conoscere spinge l’uomo ad oltrepassare i limiti naturali affidandosi ed alimentando, dunque, l’ingegno.
Elementi come oggetti tecnologici, le scoperte e imprese scientifiche, menzionati nella narrazione, sono i nuovi strumenti mistici: contribuiscono in maniera vitale a rendere tutto l’accaduto, un’ impresa epica. Il connubio di fantascienza e scienza è efficace al fine di non distaccare l’irrealtà dalla realtà. Si passa dunque al mondo del probabile, dove tutto può accadere.

La scienza e la tecnologia sono anche lo strumento di unione di due popoli mai venuti a contatto. I tre uomini avviano un processo di corrispondenza del sapere: durante la permanenza conoscono e utilizzano le invenzioni fatte dagli Atlantidei. Allo stesso modo , dopo il naufragio della nave Stratford, nave che aveva accompagnato i protagonisti per la ricerca, al popolo inabissato vengono mostrati gli strumenti adoperati dalle popolazioni in superficie. La nuova idea novecentesca che guarda al progresso con ammirazione e curiosità, impregna il romanzo.

Un agglomerato di diversi documenti compone la struttura del romanzo di Doyle. Sono principalmente lettere scritte da Headly alla quale seguono, altre testimonianze come diari di bordo o comunicati marittimi di varia provenienza. L’autore, infatti, premette di essere stato incaricato di riassemblare gli scritti al solo fine di far conoscere l’incredibile vicenda. Risalto va dato alla disposizione delle tre lettere che riportano i fatti rispettivamente in un tempo antecedente, contemporaneo e posteriore all’incredibile scoperta. A queste segue un commento dell’autore che riporta l’attenzione del lettore alla sua intenzione principale, ovvero divulgare la storia in suo possesso.

La divisione non interrompe il filo narrativo, ma anzi, spinge ad appassionarsi e attendere l’epilogo. Le tre lettere sono però differenti tra loro: la prima scritta per Talbot (amico e collega di Headly) ha una forma lessicale formale e il tono risulta leggero e rilassato. In questa occasione, l’emittente tende a soffermarsi poco sulla parte descrittiva,prediligendo i fatti, incuriosito dagli avvenimenti che si susseguono e dalla figura di Maracot.

La seconda ,invece, essendo indirizzata all’umanità, ha un lessico meno formale ed è più ricca di particolari illustrativi del mondo Atlantideo.  È evidente il contrasto di emozioni vissute dallo zoologo: la rassegnazione al pensiero di non ritornare mai a casa si alterna al senso di serenità e gioia trovato nella sua nuova condizione.

L’ultima lettera è scritta da Headly ,dopo esser stato salvato ed essersi reintegrato tra i suoi pari in patria. Questa, molto più simile ad una pagina di diario, si concentra sul risaltare l’aspetto favolistico e leggendario della vicenda , consacrando gli stessi protagonisti a personaggi fantastici. Traspare entusiasmo dalle parole dell’autore che si concentra sull’esaltare la sua figura e quella dei suoi compagni, paragonandosi a personaggi celesti, enfatizzando le avventure più salienti.

Attribuendo le fonti direttamente ad uno dei protagonisti, Doyle auspica alla verosimiglianza dei fatti narrati, assottiglia così la linea immaginaria tra finzione e realtà. Il trucchetto risulta molto efficace soprattutto se si considera la scelta tra i tre avventurieri: Headly non solo è riemerso come i suoi compagni, ma è colui che ha portato con se un abitante di quel posto. La sua compagna è una prova inequivocabile che avvalora maggiormente il suo racconto.

Pensando a questo espediente non si può far altro che sottolineare la genialità di Doyle nell’attrarre l’attenzione del lettore. Sarà preso a modello dai posteri e, per il suo nuovo modo di raccontare, gli sarà riconosciuta dunque la fama di precursori del genere fantascientifico moderno.

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