Corrado Govoni, l’eterno fanciullo amante della natura

Nato il 29 ottobre 1884 in provincia di Ferrara, Corrado Govoni è stato un autore dallo stile eclettico e sperimentale che dopo una prima esperienza poetica crepuscolare, decide di aderire al futurismo per poi staccarsene e ritornare alle origini del suo stile letterario. Lavora nell’azienda di famiglia quando, fin da ragazzo, si accorge di avere una propensione pulsante verso la poesia; Govoni, infatti, esordisce giovanissimo nel mondo della letteratura.

E’ il 1903 quando pubblica presso la Casa Editrice Lumachi di Firenze, a sue spese, due raccolte di poesie in cui prevale la tipica malinconia crepuscolare: Le Fiale e Armonie in grigio e in silenzio. In seguito, collabora con diverse riviste letterarie per poi, nel 1905, sperimentare la visione poetica futurista. La svolta di adesione al futurismo si concretizza attraverso due sillogi poetiche: Fuochi d’artifizio (1905) e Gli aborti ( 1907). Proprio in questo periodo, fra le altre cose, stringe un profondo legame con Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del Movimento Futurista.

Tuttavia, l’adesione al futurismo come concezione ideologica e poetica è per Govoni una brevissima parentesi, o come lui stesso in seguito avrebbe definito ‘’un gioco’’. La sua resterà per sempre una poesia  di appartenenza alla natura e al sensibile, nonostante l’avvicinamento alle avanguardie letterarie del tempo. Nel 1916 collabora con la rivista napoletana Diana, in cui appaiono alcune sue liriche che anticiperanno la visione ermetica della poesia. Nel 1919 si trasferisce a Roma dove diventa  vicedirettore della sezione del libro alla Siae,  poi segretario del Sindacato Nazionale Scrittori e Autori dal 1928 al 1943.  Nonostante il figlio Aladino Govoni fosse un partigiano, successivamente vittima dell’eccidio delle Fosse Ardeatine nel 1944, Corrado Govoni resta grato al fascismo; probabilmente per le opportunità che il Movimento Fascista gli concesse. Il poeta, infatti, scrisse anche due poemetti di lode dedicati a Benito Mussolini.

La poetica di Corrado Govoni; un viaggio nel parnassianesimo e nel crepuscolarismo

In una lettera all’amico Gian Pietro Lucini, datata 1904, il poeta scrive:

‘’Ho sempre amato le cose tristi, la musica girovaga, i canti d’amore cantati dai vecchi nelle osterie, le preghiere delle suore, i mendichi pittorescamente stracciati e malati, i convalescenti, gli autunni melanconici pieni di addii, le primavere nei collegi quasi timorose, le campane magnetiche, le chiese dove piangono indifferentemente i ceri, le rose che si sfogliano sugli altarini nei canti delle vie deserte in cui cresce l’erba; tutte le cose tristi della religione, le cose tristi dell’amore, le cose tristi del lavoro, le cose tristi delle miserie’’.

Dal passo tratto da questa lettera è facilmente riscontrabile la propensione del Govoni al crepuscolarismo e alla sua delicata malinconia, così come al parnassianesimo; movimento poetico francese che aveva come sua caratteristica centrale l’elemento romantico rigettando, in ogni sfumatura, l’impegno politico o sociale. Per i parnassiani l’arte non ha fini, non deve esser né utile né virtuosa: l’unico scopo è la bellezza.

Rientra in questo schema l’estetismo di Gabriele D’Annunzio,  a cui pure Govoni si ispira in questa sua fase poetica. La preziosità delle immagini e del discorso lirico lasciano il posto, però,  alla visione malinconica oltre che alla propensione alla campagna come locus amoenus, e al paesaggio agreste,  tipico topos di ispirazione Pascoliana. Gabriele D’Annunzio, Giovanni Pascoli e i simbolisti francesi influenzeranno, quindi, il Govoni delle prime fasi; il contributo del poeta al crepuscolarismo sarà, tuttavia, differente da quello dato da altri autori come Sergio Corazzini o Marino Moretti. Un’evidenza che già si coglie nel componimento ‘’Paesaggio’’, inserito in ‘Reliquie’: prima sezione della raccolta Le Fiale (1903).

 

La casina si specchia in un laghetto,
pieno d’iris, da l’onde di crespone,
tutta chiusa nel serico castone
d’un giardino fragrante di mughetto.

Il cielo dentro l’acque un aspetto
assume di maiolica lampone;
e l’alba esprime un’incoronazione
di rose mattinali dal suo letto.

Sul limitare siede una musmè
trapuntando d’insetti un paravento
e d’una qualche rara calcedonia:

vicino, tra le lacche ed i netzkè,
rosseggia sul polito pavimento,
in un vaso giallastro una peonia.

‘’Paesaggio’’, Le Fiale (1903)

 

Al grigiore della provincia, alle strade ammantante di ricordi nostalgici e memorie dolciastre dal retrogusto amaro, Corrado Govoni contrappone il colore. La sua è una poetica dove i colori del mondo, le visioni variopinte della natura, sono al centro del verso; i componimenti hanno un ritmo che riprende una vivida gioia fanciullesca, sia nelle strofe che nel ritmo.  La differenza del Govoni con gli altri crepuscolari risiede nel tradurre i fenomeni in realtà utilizzando una variopinta e cangiante tavolozza di sfumature, segno inequivocabile che anticipa la sua adesione al movimento futurista.

La poesia visiva e immaginifica dell’esperienza futurista

Corrado Govoni è considerato il poeta eclettico e sperimentatore della poesia italiana in quanto, come autore,  ha fluttuato attraverso vari stili in tutta la sua esperienza letteraria. La parentesi futurista  non marginalizza l’estro impressionistico del poeta ma, anzi, lo vivifica esaltando e acuendo maggiormente il legame parola-immagine. Se in Fuochi di artifizio (1905) persistono ancora dei tratti crepuscolari, nella raccolta Gli aborti, del 1907,  si assiste alla svolta espressionistica di Govoni che in alcune tematiche si avvicina anche al vocianesimo. La bellezza e il colore, adesso, lasciano il posto a un paesaggio in cui trionfa la stravaganza, la fatiscenza, l’aurea baudelairiana.

Dei pazzi che non sembran tali, in abiti d’alga
innaffiano nell’ora del meriggio con del vino
i puri gigli del giardino del manicomio.

Un pappagallo sulla sua gruccia in cima a una scalea
d’un castello di principi schiamazza
contro una vecchia mendicante tutta lacera
che chiede invano l’elemosina,
che chiede sempre e non si stanca mai
.

‘’Ronda delle tristezze’’, Gli aborti (1907)

Sono le sillogi Poesie elettriche (1911), Rarefazioni e parole in libertà (1915) e  Inaugurazione della primavera (1915)  a contrassegnare il periodo futurista di Corrado Govoni. Il poeta ferrarese, dall’accentuato eclettismo letterario, non rinnegherà mai le sue esperienze precedenti e, anzi, sarà proprio questa contaminazione poetica e il confluire di stili differenti a rendere il Futurismo di Govoni originale. La fase futurista di Govoni conserva elementi crepuscolari e liberty come, per esempio, nell’affrontare il tema della città moderna; il poeta di Ferrara non si distaccherà mai, neanche in questo caso, dal legame bucolico con la natura.

La campagna, intesa come natura georgica di virgiliana memoria, sarà per Govoni un topos ripetuto, come un flebile filo che unisce ogni silloge, in tutta la sua carriera letteraria.  Come lo stesso autore conferma, il  14 marzo 1937 sul “Meridiano di Roma”, l’adesione al Movimento di Marinetti rappresenta una giocosa irresponsabilità e sperimentazione; pur celebrando la celerità moderna e la dinamicità su cui si poggiava la nuova avanguardia, la sua resterà sempre una sensibilità agreste, legata alla terra e alla campagna. Il manifesto per eccellenza del periodo Futurista di Govoni resta Il Palombaro, poesia visiva appartenente alla raccolta Rarefazioni e parole in libertà (1915).

Dal tratto quasi infantile, il fulcro del componimento è il verso libero tipico della poetica futurista; l’autore gioca con i segni di interpunzione, elimina verbi e accosta immagini al testo quasi come un ‘’quadro linguistico’’. L’utilizzo di analogie e metafore, caro alla poetica futurista, è qui abbondantemente utilizzato. Nonostante possa sembrare un testo adatto ai bambini, questo componimento cela un significato profondamente enigmatico che invita il lettore a porsi delle riflessioni. La tavola parolibera, in questo caso,  rimane oscura; la discesa negli abissi, da parte del palombaro, potrebbe rimandare alla ricerca interiore a discapito della superficialità,  andando contro le apparenze.

Oltre il Futurismo: la ricerca dell’essenzialità nella poetica e i versi dedicati al figlio Aladino

Nella poetica post futurista, Corrado Govoni  si dedica al verso essenziale intriso dall’immagine fresca della campagna, atmosfera amata dal poeta, e ai colori vivaci della sua prima fase crepuscolare. Le raccolte che segnano questa fase sono  Aladino (1946), Preghiera al trifoglio (1953), Stradario della primavera (1958) e la raccolta postuma La ronda di notte (1966).

 

Camminarono lungo la scarpata

con la guida dei lucidi binari

saettanti nel sole

verso i lontani neri boschi

sopra la riva del perlaceo lago,

tenendosi alla vita:

lui, una giacca color celeste,

lei un corpetto rosso.

Sparirono alla vista in un baleno.

Lei un puntino rosso, lui celeste,

entrarono nel fresco regno agreste.

 ’Camminare lungo la scarpata’’ da Stradario della primavera (1958)

Nel 1946  pubblica Aladino  da Arnoldo Mondadori, una raccolta di 104 poesie che approfondiscono il tema del dolore;  una dolore che, nei primi momenti, è intimo e pulsante per la perdita del figlio ma che nei versi successivi diventa storico: chiaro rimando alle condizione tribolante post bellica in cui verteva il Paese:

 Quanto poté durare il tuo martirio
nelle sinistre Fosse Ardeatine
per mano del carnefice tedesco
ubbriaco di ferocia e di viltà?
Come il lungo calvario di Gesù
seviziato, deriso e sputacchiato
nel suo ansante sudor di sangue e d’anima
fosse durato, o un’ora o un sol minuto;
fu un tale peso pel tuo cuore umano,
che avrai sofferto, o figlio, e conosciuto
tutto il dolor del mondo in quel minuto.

 

Il poeta passa dalla descrizione del dolore di un padre, straziato per la perdita del figlio, al dolore universale che si riflette nella figura di Gesù Cristo commemorando la perdita di tutti i figli innocenti morti e che hanno sofferto torture fisiche, consci della loro vita ormai appesa a un filo. La perdita di Aladino segnerà per sempre Corrado Govoni, anche nella sua poetica che diventerà più violenta, dura,  tormentata.

Corrado Govoni  è stato un giocoliere, un acrobata e un artista della parola;  uno dei poeti più creativi del Novecento e, purtroppo,  un grande dimenticato della letteratura italiana.  Basti pensare a una della sue opere più importanti, L’inaugurazione della primavera , che dopo il 1920 non è mai stata più pubblicata. Solo molti anni dopo la morte del poeta, sarà Edoardo Sanguineti a ridare a Govoni la dignità letteraria che meritava con l’antologia Poesia italiana del Novecento (1969).

Proprio per questa sua propensione alla libertà e alla scrittura che non si piega alle regole né alle mode, Govoni verrà visto sempre con sospetto.

Eugenio Montale nell’articolo “È morto Corrado Govoni poeta fanciullo della natura”, (Corriere della Sera, 21/10/1965) descrisse Govoni come un ‘’poeta fanciullo inebriato di luci e di colori immerso nelle meraviglia della natura’’. Una personalità letteraria pura, dalla potente attività creatrice e dal culto armonioso della parola come mezzo per trasmettere emozioni ma, anche, immagini salvifiche di purezza; in un’esistenza troppo spesso affrancata da brutture e  turpitudine, il messaggio poetico di Govoni è dispiegare l’esistere nella meraviglia e nel senso dell’immaginario; ‘acciuffare’ ogni fenomeno che la natura dona agli uomini gratuitamente rendendolo soggettivo attraverso i colori della propria anima.

 

 

La sofferenza secondo Giuseppe Berto e Guido Morselli: un confronto stilistico

Leggendo Il male oscuro di Giuseppe Berto ci si accorge di come, nei suoi tratti essenziali, l’approccio alla sofferenza psichica sia rimasto sostanzialmente invariato dal tempo in cui l’opera fu scritta. Bisogna che l’autore passi per trecento pagine di romanzo circa – attraversando svariate peripezie, quali farsi aprire la pancia da medici dalle competenze piuttosto discutibili –, prima che si decida ad intraprendere un percorso psicoterapico. Un retaggio, più folcloristico che religioso, spingeva Berto a considerare l’ulcera da cui era affetto come castigo divino.

Lo scrittore fugge dall’ospedale dove è ricoverato il padre poco prima che un cancro all’intestino lo uccida. Narra di quanto fosse infastidito dall’odore sgradevole emanato da quel corpo, ma ancor più dalle recriminazioni che le sorelle e la madre elargivano generosamente, sebbene in una situazione tanto delicata. Da qui il senso di colpa; lo spirito autoritario del padre che migra in un Super-Io severo e schiacciante; il malessere inteso come un’espiazione dovuta. L’ombra nera del genitore si spiega sull’esistenza di Berto, che procede a tentoni incapace di identificare il mostro che lo tiene prigioniero.

Comprendiamo il male del corpo, ma non quello della psiche; e solo chi non ha conosciuto l’intensità di tali crisi si avventerebbe a difendere le ragioni dell’uno sull’altro. Ancora: è assurdo il pensiero stesso che si considerino scisse le due parti. Il disturbo d’ansia generalizzato è paura che impedisce un normale svolgimento della vita, impedisce a chi ne è affetto di uscire a fare la spesa, di incontrare persone. La sensazione di pericolo costante porta a una produzione di adrenalina in eccesso, in modo tale che a metà giornata si è esausti pur non avendo fatto nulla. Concentrarsi su di un’azione semplice risulta impossibile, figuriamoci se si pretende, ad esempio, di studiare. Interviene quindi la paura della paura (ovvero lo stato ansioso indotto dal timore di rivivere una crisi), che rende sgradevoli anche i rari momenti in cui ci si sente più sereni.

Una maggiore possibilità di accesso al sentimento della noia, scardinare il privilegio del negozio sull’ozio, potrebbe forse renderci meno ciechi a noi stessi. È una spiacevole circostanza che fagocita la stessa comunità intellettuale-artistica, che, più di altre, dell’ozio e della noia dovrebbe essere attenta conoscitrice. Ma la chiamata alla produzione rimane pervasiva.

Nello stile di Berto deflagra la sintassi, potremmo dire che egli cerchi una forma che sia la trasposizione letteraria del rimuginìo nevrotico. Eliminando la punteggiatura è il ritmo stesso ad essere abolito. Il testo è un monolitico agglomerato della psiche, inestricabile matassa di pensieri che non dà tregua all’intreccio, che più si affanna nella narrazione e più si aggroviglia. Sul telaio dell’anima i fili dell’infanzia – con gli anni del collegio e del luna park, dei veneziani bene in visita alla provincia, della bicicletta da femmina che deve servire anche alle sorelle – infittiscono con quelli dei tempi più recenti, della guerra e delle avventure erotiche del Berto ormai adulto.

Altro filo è quello che annoda l’opera di Berto a Dissipatio H.G. di Morselli. Si tratta di un atto di opposizione intransigente, che entrambi i testi presuppongono. In Berto – si è visto – il conflitto è con la figura paterna, maresciallo dei carabinieri all’Arma Nei Secoli Fedele, simbolo della Patria, dell’Onore, e di tutte le maiuscole necessarie ad accreditare un portato di valori fascisti che si decompongono nel secondo dopoguerra, e della cui dissoluzione Berto è diretto testimone. Morselli, dal canto suo, si schiera contro un nemico se possibile ancora più temibile: il mondo delle banche; dei cartelloni pubblicitari che ripropongono sotto mentite spoglie – le Bahamas- l’archetipo dell’Isola dei Beati; della spietata, e inarrestabile, corsa del tempo sui quadranti degli orologi della sua Zurigo. Il nemico è qui una società meccanicistica, crudelmente funzionale, fatta di narrazioni sempre più stringenti e pervasive, che relega ai margini ogni realtà incapace a rispondere debitamente al paradigma imposto.

Morselli eredita da Zurigo una passione per il calcolo, segnalata dallo stesso Manganelli in quarta di copertina, che così definisce la scrittura dell’autore: “un gelo mentale matematico”. È in questo snodo della sua fatale lotta che Morselli si allontana drasticamente da Berto: nello stile. Dissipatio H.G. è un costrutto logico di capovolgimenti, paradossi, tautologie severamente irregimentate dalla punteggiatura, che frena e rilancia il lettore secondo la sua volontà. Nella prosa morselliana scopriamo il ticchettio, l’ingegneria orologistica dell’amata e odiata Svizzera, il rintocco delle campane che, più ancora del tempo, segnano la funebre uscita dalla grotta del Sifone, come fosse una nascita alla morte. La struttura della pagina di Morselli suscita il macabro ricordo del rito edificatorio dei babilonesi. La pratica prevedeva che il primo palo spinto nella terra si configgesse nella testa del serpente originario, che si credeva ivi sepolto; in tal modo veniva replicata l’uccisione mitologica di Tiamat per mano di Marduk. Il rito era necessario affinché venisse assicurata la stabilità della costruzione. Morselli morì suicida dopo aver ultimato la stesura di Dissipatio H.G.,; quasi a dire che la salma su cui doveva erigersi l’axis mundi della sua opera non poteva essere che quella dello stesso autore.

 

Lorenzo Orazi

‘Come d’aria’ della defunta scrittrice Ada D’Adamo vince il Premio Strega 2023

Ada D’Adamo vince il Premio Strega 2023 con il romanzo Come d’aria. La scrittrice deceduta il primo aprile del 2023 batte Rosella Postorino che con Mi limitavo a amare te (Feltrinelli) era la favorita alla vigilia. Un trionfo a sorpresa, e che vede affermarsi una vera e propria piccola casa editrice, Elliot, e per la dodicesima volta nella storia dello Strega una scrittrice (l’ultima era stata Helena Janeczek nel 2018 con  La ragazza con la Leica – Guanda).

“Come d’aria” è un memoir che non indulge molto in pietismo o vittimismo come tanti altri romanzi di questo genere, scritto in prima persona dalla D’Adamo rivolgendosi alla propria figlia affetta da una patologia totalmente invalidante, e parlando del proprio cancro terminale. Daria è la figlia, il cui destino è segnato sin dalla nascita da una mancata diagnosi. Ada è la madre, che sulla soglia dei cinquant’anni scopre di essersi ammalata. Questa scoperta diventa occasione per lei di rivolgersi direttamente alla figlia e raccontare la loro storia.

Tutto passa attraverso i corpi di Ada e Daria: fatiche quotidiane, rabbia, segreti, ma anche gioie inaspettate e momenti di infinita tenerezza.
Le parole attraversano il tempo, in un costante intreccio tra passato e presente.

Il dramma di Daria si intreccia con quello di Ada, che si ammala di tumore al seno, diffuso poi in tutto il corpo nonostante le terapie, e la sofferenza è tanto più intensa per la consapevolezza che <quando hai un figlio disabile cammini al posto suo, vedi al posto suo, prendi l’ascensore perché lui non può fare le scale, guidi la macchina perché lui non può salire sull’autobus. Diventi le sue mani e i suoi occhi, le sue gambe e la sua bocca. Ti sostituisci al suo cervello>.

E’ il racconto di una vita, fatta non solo di dolore , ma anche di interessi profondi, di rapporti familiari e amicali intensi. Un romanzo luminoso che non disturba il lettore, pieno di buoni sentimenti.

Sto guardando fuori dalla finestra. Giù in cortile, nel buio, un gatto cerca riparo dalla pioggia; è bagnato, infreddolito, spaventato. Una bestia sola nella tempesta…Quel gatto sono io.

Oscillando continuamente tra passato e presente, Ada racconta di una vita trascorsa tra ospedali, visite mediche, fisioterapia, battaglie quotidiane contro la cultura dello scarto. Tuttavia una domanda resta: può essere definito questo romanzo, “letteratura”? ll Premio Strega sta alzando l’asticella della qualità o continua sulla strada del calcolo (in riferimento alle premiazioni delle piccole case editrici), dei buoni sentimenti, del già letto?

Arte, cinema letteratura: storia e identità nazionale in Pier Paolo Pasolini. Giovedì 20 Ottobre alla Suor Orsola Benincasa

“Nella travolgente parabola intellettuale, artistica e umana di Pier Paolo Pasolini l’amore appassionato per l’Italia, la sua storia, la sua unicità rappresenta una stella polare costante”. Così lo storico Eugenio Capozzi, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa, presenta la giornata di studi che l’Ateneo napoletano ha scelto di dedicare giovedì 20 Ottobre a partire dalle 10 a Pier Paolo Pasolini (1922-1975) nell’anno del centenario della sua nascita.

Per celebrare lo straordinario eclettismo culturale di uno dei più apprezzati intellettuali del Novecento l’Università Suor Orsola Benincasa, con il patrocino del Comitato Nazionale per il Centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, ha pensato ad una giornata di studi multidisciplinare che proverà a ricostruire il sentimento identitario nazionale di Pasolini dalle diverse angolazioni in cui si è dispiegata la sua enorme produzione artistica e culturale.

In ogni aspetto naturale, sociale, artistico, letterario dell’Italia – evidenzia Capozzi – Pasolini ha cercato avidamente l’eredità di quella cultura contadina e popolare che voleva salvare dalla distruzione ad opera della società di massa e ritrovava nei borghi diroccati così come nelle borgate e periferie delle metropoli. Ecco che allora la giornata di studi organizzata dall’Università Suor Orsola in occasione del centenario della sua nascita, riprendendo la storica citazione (“questa è l’Italia e non è questa l’Italia”) della sua poesia “L’umile Italia”, punta ad evidenziare alcuni nuclei fondamentali in cui quella passione prende forma nell’opera pasoliniana, tra poesia, narrativa, cinema, teatro, scritti critici e politici”.

Giovedì 20 ottobre alle ore 10 nella Biblioteca Pagliara dell’Università Suor Orsola Benincasa (ed in diretta streaming su www.facebook.com/unisob) per discutere di “Storia e identità nazionale in Pier Paolo Pasolini” si confronteranno, quindi, studiosi di varie discipline con relazioni che spazieranno dalla storia (L’abisso tra corpo e storia. Croce, Gramsci e i conti con l’ideologia) alla letteratura (L’anti-grand tour pasoliniano), dalla storia dell’arte (Roberto Longhi e Pasolini: Masaccio, i manieristi, Caravaggio e un’idea dell’Italia) al cinema (L’Italia ‘profonda’ al cinema: da Accattone a La ricotta).

Al tavolo dei relatori, coordinato da Alfonso Amendola, docente di Sociologia dei processi culturali all’Università di Salerno, dopo l’introduzione del Rettore del Suor Orsola, Lucio d’Alessandro, si alterneranno dalle 10 alle 17 lo storico dell’arte Stefano Causa, lo storico del cinema Augusto Sainati, gli italianisti Guido Cappelli, Nunzio Ruggiero, Carlo Vecce e Paola Villani e i giornalisti Alessandro Gnocchi ed Antonio Tricomi. Programma completo degli interventi (www.unisob.na.it/eventi).

Alle 17.30 la giornata dedicata a Pasolini dall’Università Suor Orsola Benincasa proseguirà con la proiezione di uno dei suoi film più noti, Il Decameron, nel Salotto culturale “Le Zifere”, fondato dallo storico dell’arte, Roberto Nicolucci, all’interno di uno dei palazzo storici più prestigiosi della città di Napoli: il Palazzo De Sangro di Vietri in piazzetta Nilo.

‘Viaggiatore solitario’: il beat, sentimentalismo e il mito hollywoodiano secondo Tondelli

Viaggiatore solitario. Interviste e conversazioni 1980-1991 di Pier Vittorio Tondelli, pubblicato postumo nel 2021 dalla Bompiani, si apre con il “giovane scrittore” Tondelli. con la sua altezza di 1,93, timido, dinoccolato e miope, che si destreggia nelle interviste con la sua aria comica e dalla parlata ricercata, usando anche delle citazioni di Rilke e Botho Strauss, senza però, definirsi “intellettuale”.

Non è un intellettuale questo viaggiatore emiliano, semmai è “uno scrittore. punto e basta”. Il suo è un lavoro che lo porta a incubarsi nella sua solitudine, a stare con i suoi personaggi e la sua musica, non ci lavora tutti i giorni però, come Moravia. Conoscere Tondelli significa entrare nella sua sfera privata con la sua scrittura, del suo rapporto intimo con essa, l’unico oggetto che fa da scenografia durante la sua composizione, è la musica di Lou Reed, Leonard Cohen e gli Smiths.

Tondelli e l’omaggio a Kerouac

Il titolo del romanzo un caro omaggio all’On the road di Kerouac: il scrittore emiliano, autore di racconti e di romanzi, scabrosi e turbolenti, come Altri libertini, che gli è costato un sequestro per turpiloquio e poi assolto, un libro rivolto ai giovani degli anni sessanta, gli anni del sesso, rock and n’roll e dell’ omosessualità. Parla ai giovani, il neolaureato al DAMS di Bologna, entra nelle loro vite e li fa protagonisti di una vita spericolata con un linguaggio hard.

Il beat e il sound

Il linguaggio hard lo ritroviamo anche nel suo secondo romanzo, Pao Pao, incentrata sui giovani e il loro modo di adattarsi per 12 lunghi mesi alla vita militare: male o bene? Tondelli in questo romanzo sostiene che poteva andare peggio, ma anche bene, a seconda di come si prendeva la vita e in quel posto niente mutava, era sempre la tua vita precedente, con la differenza che non stavi fuori, ma all’interno di un cameratismo maschile, dove mancano le donne. L’evoluzione della sintassi e dello stile tondelliano, avviene pari passi con la sua crescita anagrafica e intellettuale, rispetto ai suoi primi due romanzi: Altri libertini (1980) e Pao Pao (1982), Rimini e Camere Separate, presentano un linguaggio più maturo e tematiche quali la solitudine e il lutto che fanno pensare ai romanzi polifonici alla Bachtin.

La scrittura di Tondelli è frenetica, movimentata, ma anche ritmata: il senso del ritmo, causato dalle parole rimate e il suo repertorio musicale, è onnipresente insieme ai suoi personaggi.

La Realtà e Finzione del ribelle emiliano sono concetti “antropologici”, lo scrittore indaga sui giovani, parla di loro, priva di quella spia dei genitori, che entrano senza bussare alla porta, (i genitori non sono mai presenti nei suoi libri) nell’epoca degli anni ’60, per poi stoppare, darci un taglio, agli albori degli anni ’80, per rivolgersi a un pubblico adulto, ai trentenni, sempre, trattando però, dell’amore, del sentimentalismo, vidimato in Rimini (1985) e Camere Separate (1989). La sua vita potrebbe sembrare cinematografica come i romanzi che ha scritto, ma non lo è. Tondelli infatti si trattiene dal farsi scoprire, ma allo stesso tempo esce fuori, si fa portatore delle sue generazioni, ci parla, rende possibile che nei suoi romanzi, i giovani, trovino sé stessi.

Questo è il viaggio secondo Tondelli: la ricerca sull’interiorità, trovare un proprio posto, che sia Rimini con le sue luci al neon alla Fitzgerald con il suo “The Great Gatsby”, dove si cerca con ossessione, il successo, il mito italiano, di quegli anni, la Rimini Hollywoodiana; o Camere separate, viaggiando per l’Europa, evitando però, di spostarsi più in là, a seguito di un lutto, simile al “ A Single Man” di Christopher Isherwood, la solitudine che prende sopravvento, che culmina con la morte.

Secondo Tondelli, bisogna trasferire il parlato nella scrittura, nella macchina da scrivere. L’estraniamento in Tondelli è possibile? È possibile vederlo attuato in Altri libertini, in una scena che lo trascinò al Tribunale, non solo per l’uso del turpiloquio, ma anche per quella scena, che poteva portare il lettore a masturbarsi o a distaccarsene, creando uno shock, proprio come nel film surrealista Chien Andalou (1929) di Luis Buñuel.

“Alla fine, uno dei due fa la dose sul pene dell’altro, perché non trova delle vene intatte. È molto violento, molto emozionale. Queste pagine hanno fatto sequestrare il libro ma ho vinto il processo e ne ho vendute ventimila copie”.

 

Fonti

Silenzio, si scrive, Marisa Rusconi

Tanto Rock’ n’Roll, Natalia Aspesi

I ragazzi di Tondelli, Olivier Mauraisin

‘L’edera’. La Sardegna di Grazia Deledda nell’immaginario europeo

L’edera, romanzo del 1908 di Grazia Deledda, è il racconto di un solo personaggio, Annesa, la “figlia d’anima”, la giovane serva che si innamora del proprio padroncino. La sua maturazione avviene significativamente sulla “via di Damasco”, dalla cecità del male alla luce del bene, implicata nella pragmatica di esistenti immodificabili nei loro ruoli e dietro le loro tragiche maschere. La coscienza del peccato che si accompagna al tormento della colpa e alla necessità dell’espiazione e del castigo, la pulsione primordiale delle passioni e l’imponderabile portata dei suoi effetti, l’ineluttabilità dell’ingiustizia e la fatalità del suo contrario, segnano l’esperienza del vivere di una umanità primitiva, malfatata e dolente, “gettata” in un mondo unico, incontaminato, di ancestrale e paradisiaca bellezza, spazio del mistero e dell’esistenza assoluta.

“Ella aveva partecipato a tutte le vicende della famiglia, in quella casa dove il destino l’aveva gettata come il vento di marzo getta il seme sulla roccia accanto all’albero cadente. Ed era cresciuta così, come l’edera, allacciandosi al vecchio tronco, lasciandosi travolgere dalla rovina che lo schiantava.”

La letteratura secondo Raffaele La Capria

In tempi recenti, Raffaele La Capria, invitato dal suo intervistatore ad esprimere un giudizio di gusto soprattutto di valore sulla attuale produzione letteraria, ha parlato con compiacimento di opere scritte bene, ben congegnate e ben strutturate, con il periodo ordinato e gli
«aggettivi al loro posto». Tuttavia molte di quelle stesse narrazioni, sebbene di ottima fattura, sarebbero, a suo dire, «disanimate», prive di soffio vitale, caratterizzate dal puro artificio, con storie senz’anima, senza sangue e senza vita, sorrette da situazioni improbabili e da personaggi falsi e inautentici.

Le «portaerei della letteratura», i bestseller alla Stephen King, sarebbero stati scritti, dunque, da autori certamente formidabili nel creare intrecci (a volte addirittura dosati meglio di quelli di un Dostoevskij) però, pur costruiti con le migliori tecniche del romanzo, sarebbero del tutto privi dell’«irresistibile vocazione a raccontare le peripezie di un personaggio rappresentativo di un’epoca».

Dove si trova oggi quel personaggio che un tempo popolava e connotava gli universi narrativi e in cui tutti potevano riconoscersi? Dove sarebbero oggi – si chiede La Capria – Julien Sorel, Emma Bovary, i fratelli Karamazov, Pinocchio? Dove più Amleto o Werther? Dove, aggiungiamo noi, Eix, Annesa o Marianna Sirca? La vera letteratura non è «un girare la chiavetta del robot per farlo muovere, ma è la vita, con le sue emozioni ed i suoi imprevisti». Con questo non si vuol dire che l’artiicio non sia arte, «può essere arte purché sia animato da un qualcosa di vitale».

Grazia Deledda, Nobel per la letteratura

Ogni qualvolta si legge un romanzo della Deledda ritornano alla mente le parole dello scrittore napoletano e, nel contempo, quelle, più lontane nel tempo, pronunciate dall’arcivescovo Nathan Söderblom, membro dell’Accademia Svedese, nell’indirizzo di saluto rivolto il dieci dicembre del 1927, in occasione del banchetto serale alla cerimonia dell’assegnazione del Nobel:

In your literary work, all roads lead to the human heart. You never tire of listening afectionately to its legends,
its mysteries, conlicts, anxieties, and eternal longings. Customs as well as civil and social institutions vary according to the times, the national character and history, faith and tradition, and should be respected religiously.

To do other wise and reduce everything to a uniformity would be a crime against art and truth. But the human heart and its problems are everywhere the same. he author who knows how to describe human nature and its vicissitudes in the most vivid colours and, more important, who knows how to investigate and unveil the world of the heart-such an author is universal, even in his local coninement.

Più volte e in separate pagine chi scrive ha creduto di scorgere, concordemente e sulla scorta di buona parte della vulgata critica, l’originalità e la forza della narrativa deleddiana proprio nella appassionata e magistrale rappresentazione dell’auto-modello sardo e, soprattutto, nella
proiezione simbolica del suo universale concreto. Sullo sfondo di paesaggi edenici, carichi di emozioni e di suggestioni incantatorie, l’isola è restituita e intesa, nelle pagine della scrittrice, come luogo mitico e come archetipo di tutti i luoghi, terra senza tempo e sentimento di un tempo irrimediabilmente perduto, spazio ontologico e universo antropologico entro cui si consuma l’eterno dramma del vivere.

L’edera: genesi dell’opera

Tali istanze si trovano conforto proprio nella rilettura di un’opera paradigmatica qual è L’edera, fatta attraverso lo studio della genetica del testo e compresa, tramite i suoi processi stratigrafici ed evolutivi, dentro una intertestualità ampia. In questo romanzo uscito in Italia nel 1908 – dopo che già nel 1907 i tedeschi e i francesi lo avevano accolto nelle loro riviste – giungono a convegno temi e motivi novecenteschi.

Certamente la narrativa deleddiana ha guardato, soprattutto agli esordi, ad una letteratura in de siècle che si esplicava secondo architetture d’intreccio, configurazioni di trame, ritmi, escamotage e artifici narrativi derivanti dal feuilleton e dal repertorio del romanzo popolare a puntate.

Le trame di molte opere, infatti, rispondevano alle esigenze del racconto d’appendice che doveva colpire l’immaginazione dei lettori con intrighi, amori, fughe, agguati, travestimenti e con l’agnizione, il riconoscimento finale che scioglie tutti i nodi dell’intreccio. Si trattava di una narrativa di largo consumo, la cui destinazione a un pubblico ampio non poteva non avere implicazioni sulle stesse tecniche narrative pensate per catturare e mantenere viva l’attenzione del destinatario con scene di intensa pateticità e di forte impatto emotivo.

Tuttavia, questo spiega poco del portato della sua poetica e della profondità etica ed ontologica della sua narrativa. L’uso più o meno sapiente di tecniche e topoi nell’Edera, esemplati dal vasto repertorio della tradizione e riadattati in un mutato contesto linguistico e culturale, non si risolve mai in un artigianato compositivo ine a se stesso.

Se fosse solamente questo, oltre il piacere tutto cerebrale della fruizione del testo, nulla accadrebbe. Non si accenderebbero passioni, non si formerebbero coscienze, e, soprattutto, non si comprenderebbe l’enorme successo di pubblico ottenuto dalle sue storie in Europa e nel mondo.

La letteratura come formatrice della vita intellettuale e morale dell’uomo

Nella sua ars dictandi non c’è compiacimento retorico, non c’è maniera. La Deledda utilizza l’artificio per parlare d’altro, lo piega ad un ine più alto. Questo è ciò che la rende una grande scrittrice, figlia ed erede, a suo modo, della grande tradizione umanistica, che aveva teorizzato il miscēre utile dulci e il docēre delectando, e costituito il fondamento di un’idea della letteratura come «formatrice della vita intellettuale e morale dell’uomo, come moderatrice della sua natura»; un’arte educatrice con finalità essenzialmente etiche, che nei secoli aveva mirato ad insegnare e a dilettare, a consolare e a far riflettere.

Una delle questioni principali che la Deledda più avvertita e consapevole deve affrontare da un punto di vista narrativo è, infatti, come tenere insieme cultura osservata (il mondo nuorese e barbaricino) e cultura osservante (sardo-italica); come costruire un narratore capace di raccogliere lo straordinario bagaglio conoscitivo di un autore implicito figlio di quel mondo e profondo conoscitore dei suoi codici. Un narratore che, ponendosi a una distanza minima dall’universo rappresentato, sapesse nel contempo raccontare l’anima e il vissuto della sua gente a un pubblico d’oltremare.

La Sardegna come metafora di una condizione esistenziale

L’opera della Deledda si colloca – a partire dall’universo antropologico sardo, veicolato da un sistema linguistico peculiare e complesso (nuorese, logudorese, italiano) – in quella più generale temperie culturale che tenta, tra Ottocento e Novecento, per reazione
alla dilagante soluzione fiorentina dei manzoniani e alla «declamata super-prosa» di matrice dannunziana, di recuperare – assecondando un rinascente orientamento centrifugo e riattivando circuiti alternativi della comunicazione letteraria – il significato e la funzione di un policentrismo che, nella storia culturale e linguistica degli italiani, si era connotata nei secoli di valenze molteplici.

Con la Deledda, e tramite la sua operazione artistica, la Sardegna entra a far parte dell’immaginario europeo.
Una realtà geografica e antropologica si trasforma, come ha efficacemente rilevato Nicola Tanda, nella «terra del mito», metafora di una condizione esistenziale, quella del primitivo, che proprio la cultura del Novecento aveva recuperato come unica risposta possibile al disagio esistenziale creato dalla società industriale e luogo per eccellenza dove rappresentare le angosce dell’uomo contemporaneo di fronte al progresso scientifico.

 

Fonte: introduzione all’Edera di Dino Manca

Silenzio, dettaglio e utopia nell’opera di Paolo Volponi, tra Adriano Olivetti e Pasolini

Nonostante intorno all’opera di Volponi si registri ormai un notevole risveglio di interesse, confermato dalla pubblicazione di due raccolte di letture critiche e di alcuni scritti inediti, permangono delle zone d’ombra su questioni teorico-letterarie di indubbia importanza, nonché su alcuni aspetti, e non quelli meno significativi, inerenti alla precisazione della sua poetica, soprattutto correlati all’apporto degli intellettuali con i quali lo scrittore urbinate intratteneva costanti scambi culturali; il riferimento è a Leonetti, Roversi, ma anche a Fortini, Pampaloni e Giudici che lavoravano con lui alla Olivetti di Ivrea e, in particolare, a Pasolini che Volponi ha sempre considerato uno dei suoi maestri: «dico sempre – dichiarava in un’intervista rilasciata nel 1988 e pubblicata dopo la sua morte – che ho avuto due maestri nella vita, uno è Pier Paolo Pasolini, l’altro è Adriano Olivetti».

L’umanesimo industriale di Olivetti nell’Italia del dopoguerra

Breve parentesi storica: nel 1950 Adriano Olivetti lanciò sul mercato la moderna e innovativa macchina da scrivere Lettera 22. Il progetto dell’imprenditore era quello di rendere una simile invenzione alla portata di tutti. Questo traguardo fu ben presto raggiunto e la Lettera 22 entrò nelle case e negli uffici di milioni di italiani, fra cui scrittori e giornalisti come Enzo Biagi, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia e Oriana Fallaci, diventando – al pari della Vespa Piaggio e della Fiat 600 – simbolo dell’Italia della ripresa economica del dopoguerra e della modernizzazione. Un successo del genere fu reso possibile anche grazie a una comunicazione vincente e innovativa, fondata sul rapporto pubblicità-poesia, curata dal poeta Franco Fortini.

Adriano Olivetti era convinto, infatti, che umanisti e intellettuali potessero non solo innovare forme e linguaggi stantii, ma anche offrire risposte concrete a quella domanda (retorica) pronunciata davanti agli operai di Pozzuoli in occasione dell’apertura della nuova fabbrica: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti?”. Attraverso l’integrazione e la cooperazione fra formazione tecnico-scientifica e umanistica, Olivetti dimostrò come fosse possibile un tipo diverso di fabbrica, attenta oltre che al profitto ai diritti, al benessere e alle emozioni del lavoratore, capace di alimentare la “sua fiamma divina” e di essere uno strumento di “elevazione e riscatto”.

A dimostrazione che l’acuto ingegnere credeva fortemente nella formazione letteraria e nell’importanza dello studio delle materie umanistiche, tanto bistrattate oggi, fu quindi istituita una politica di selezione del personale che, ai livelli più alti, si basava sul “principio delle terne”: per ogni nuovo lavoratore tecnico che entrava a far parte dell’azienda ne veniva assunto uno di formazione economico-legale e uno di formazione umanistica. Inoltre, nacquero una biblioteca aziendale, aperta nella pausa pranzo, e un centro culturale dove venivano organizzate mostre d’arte e conferenze con poeti, storici, registi, psicologi.

La letteratura secondo Paolo Volponi

Fin dalle prime considerazioni di Volponi sulla letteratura si desume che il ruolo di chi scrive non è mai separato da quello complementare del lettore, la cui funzione di ‘accompagnamento’ rimane imprescindibile ancora negli ultimi scritti degli anni Novanta. Il rapporto tra le due entità pragmatiche della comunicazione (testo/lettore) si gioca costantemente sull’asse dinamico azione/reazione senza, però, che i termini dell’endiadi definitoria intrattengano fra di loro una relazione strettamente meccanicistica.

Volponi precisa che il trasferimento di informazioni presuppone una partecipazione attiva e competente da parte di chi deve interpretare il testo che non deve esaurirsi di fronte alle prime difficoltà di comprensione: queste, secondo Volponi, sarebbero riconducibili esclusivamente alla cattiva disposizione del fruitore e sarebbero frutto di un certo tipo di scrittura troppo indulgente nei confronti di un gusto ben diffuso per una letteratura leggera, facile, che immediatamente faccia capire tutto a tutti, negazione in termini del concetto stesso di letteratura.

La poesia come integrazione dei processi logici e creativi

Il romanzo secondo Volponi, dunque, non si deve limitare a registrare gli eventi attraverso modalità di narrazione convenzionali, dolci dice Volponi; deve, al contrario, impegnarsi a rompere gli schemi del reale, andando ansiosamente al di là delle accomodanti regole imposte dalla sfera sociale tradizionale: dalle crepe del conflitto tra realtà e società nascono i romanzi migliori, quelli che si sottraggono a codici rigidi e univoci: l’opera narrativa non può rifarsi a una ricostruzione del reale di stampo positivistico, né ricercare ostinatamente un’esibita e inerte (che etimologicamente equivale a ‘senza arte’) rappresentazione della deviazione da una norma, sia essa formale o no.

Volponi prende così le distanze da una certa avanguardia, quella dei «Novissimi», con Sanguineti in testa, troppo legata a suo avviso ai concetti di crisi e di letteratura come esercizio laboratoriale fine a se stesso e incapace, così condotta, di proporre valori nuovi e diversi. A essa Volponi preferirebbe, allo stesso modo di Pasolini, una forma di sperimentalismo che miri maggiormente al conflitto e alla ricerca.

La poesia di Volponi opera un’integrazione viscerale e biologico-umorale dei normali processi logici e creativi, ferma restando una periodicità
tematica e immaginativa che, in ogni caso, la discosta dalla ‘rivolta assoluta’ propria dei canoni surrealisti. Nel ripetersi delle unità metriche potrebbe scorgersi una qualche coerenza in grado di controllare la descrizione dell’evento insensato. Di fatto, Volponi propone una sorta di frottage del reale con vocazione visionaria. L’iterazione di occorrimenti sia tematici che sintattici, anche attraverso la figura retorica dell’enumeratio, appoggia una ridondanza dell’immagine che ne disturba la percezione e sanziona la vacuità dello sforzo interpretativo.

Il realismo esistenziale di Volponi

Con Le porte dell’Appennino Volponi racconta, dunque, il reale mediante lo stesso realismo esistenziale delle prime raccolte, ma senza i toni ermetici, raffermi di quelle: adesso sviluppa un tema iniziale, primordiale, secondo un passo pienamente diegetico. All’interno della raccolta del Sessanta, valuterò il modo in cui l’inciso che Volponi ha riservato alle cause prime del suo destino d’amore (sostanzialmente la sezione intitolata Le belle Cecilie) è supportato da un lessico e da alcuni concetti di chiara impronta astrologica che si stagliano su uno sfondo verbale medio e su spunti di psicologia elementare.

Una psicologia dotata, però, di una prospettiva ontologica allargata che non è mai – come aveva già notato Pasolini a proposito delle prime
prove del poeta urbinate – «adamantina e frigida»; si riscalda adesso ancor più nella fusione finalmente sensuale, perché ora voracemente rivolta all’oggetto, di Io ed Es. Sempre Pasolini aveva efficacemente sintetizzato la tensione del verso volponiano mediante la duplice endiadi «sesso-campagna»e «eros-stagione» di nuovo efficace per restituire il vigore (quell’accento virile scorto da Fortini) dei versi pubblicati nel Sessanta.

Il pensiero di Volponi è, dunque, sempre segnato dalla sistematicità di una tensione utopica verso la ricostruzione: l’uomo alla fine dell’uomo (o comunque chi vive in un universo senza tempo, ma già sedimentato in esperienza culturale umana) non è più un crocevia di grovigli; è piuttosto uno spazio vuoto senza autocoscienza. Tale soggetto dovrebbe, invece, intrecciarsi con l’oggetto, vi si dovrebbe sovrapporre e insieme resistergli, ponendosi come entità dinamica e incoerente.

La scissione diventerebbe così tanto componente interna del conoscere, forma della conoscenza continuamente superata, quanto condizione strutturale esteriore, ma mai fissa. Nel precisare ciò, Volponi sposta continuamente il discorso dal conflitto reale a quello di un soggetto collettivo disgregato e inconsapevole.

 

Fonte Alessandro Gaudio

Antonio Sorella, prof. di italianistica: ‘Sapere usare l’italiano ad alti livelli significa ragionare ad alti livelli’

Antonio Sorella è professore ordinario di Linguistica italiana dal 2002, e dal 2016 di Lingua e letteratura italiana attualmente in
servizio presso il Dipartimento Dilass dell’Università “G. d’Annunzio” di Chieti e Pescara.

Si è laureato in Lettere antiche presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Chieti, con una tesi in Storia della lingua italiana. Nella stessa disciplina ha conseguito il Diploma di Perfezionamento presso l’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi su I tempi storici nella prosa italiana moderna il 12/7/1983 (tutor Aurelio Roncaglia, relatore Luca Serianni, correlatore Alberto Asor Rosa).

È stato “cultore della materia” di Storia della lingua italiana presso la facoltà di Lettere e filosofia a Chieti e poi, fin dall’a.a. 1983/84, di Lingua e letteratura italiana presso la facoltà di Lingue e letterature straniere di Pescara; è autore di libri quali Dante e Bembo: storia di un disamore. L’invenzione dell’italico, un manoscritto petrarchesco perduto, controversie filologiche, cosmologiche e religiose, intrighi sentimentali e politici, saggio che indaga nel processo di formazione di Pietro Bembo come filologo volgare, nella preparazione delle aldine di Dante e Petrarca, nella stesura del suo libretto e poi delle Prose, Il personaggio nella letteratura italiana. Per il centocinquantenario pirandelliano, sui personaggi che segnano la storia letteraria, Boccaccio, Dante e Verdone, e soprattutto Dalla Russia con speranza. Racconti russi contemporanei, scritto in tempi non sospetti per contribuire a consolidare il ponte culturale tra Italia e Russia.

È ideatore e coordinatore del Master di Italianistica per l’insegnamento dell’italiano come lingua straniera dell’Università “G. d’Annunzio; ha fondato ed è direttore del CISDID, Centro Internazionale per lo Studio e la Didattica dell’Italiano e dei Dialetti (di cui fanno parte, oltre alle più prestigiose università italiane, anche molte università straniere, come Cambridge, CUNY, Heidelberg ecc.).

Ha fondato e dirige la rivista internazionale di filologia dei testi a stampa Tipofilologia (Roma-Pisa, IEPI Editore): la rivista è classificata come di classe A dall’ANVUR. Fa parte del consiglio direttivo della Casa di Dante in Abruzzo, che ha sede nel Castello Gizzi di Torre de’ Passeri; di questa Fondazione è anche Vice-Presidente. È Direttore Scientifico del Premio letterario “Città di Penne” ed ha avuto l’incarico di
Coordinatore scientifico dei Convegni internazionali organizzati in concomitanza del Premio, su Umberto Eco nel 2001, su Vincenzo Consolo nel 2005, su David Grossman nel 2008, su Carlo Verdone nel 2016.

Nel 2020 Sorella ha ottenuto dal Ministero per i Beni Culturali un finanziamento per l’organizzazione di un Convegno Internazionale su “Dante e il cinema” nel 2021 presso l’Università di Chieti, in collaborazione con la Società Dantesca Italiana di Firenze, per i Settecento
anni dalla morte di Dante.

Il Prof. Sorella terrà il convegno organizzato dall’Istituto Culturale Torqauto Tasso di Sorrento dal titolo “Il teatro del Tasso”, il prossimo 11 marzo presso il Comune della cittadina campana, concentrandosi sulle origini napoletane della drammaturgia tassiana.

 

 

 

1 Qual è secondo lei l’aspetto più rivoluzionario del teatro di Torquato Tasso?

Tasso si pone il problema del pubblico: fino ad allora, a parte qualche ammirevole eccezione (Ariosto, Bibbiena, Machiavelli) si era pensato principalmente a creare commedie o tragedie che rispondessero alle “regole” classicistiche, derivate dai modelli del teatro greco-latino o dalla trattatistica e dai commentarii antichi o umanistici. Tasso, invece, pensa a coinvolgere il pubblico con argomenti “moderni”, appassionanti e avvincenti.

2  Che tipo di rapporto intercorre tra Tasso e il magismo? In quali opere si esplica maggiormente il suo humor nero?

L’interesse per la magia e la negromanzia era già diffuso nel primo Cinquecento e Giovanni Pico della Mirandola (seguito in questo da Savonarola) aveva tuonato contro l’astrologia, ma è dopo la Controriforma che le condanne e le proibizioni scatenano un gusto morboso da parte di intellettuali e gente comune. Tasso si rifugia nel magismo anche per la sua esasperata sensibilità. Si possono trovare spunti di questo genere in quasi tutta la sua produzione.

3 Se Tasso fosse uno scrittore dei nostri giorni, come verrebe considerato dall’opinione pubblica e dai media?

Il senso del pudore non è cambiato molto dalla Controriforma alla fine del secolo scorso, non solo in Italia, ma in tutto il mondo, per varie ragioni e diverse spinte ideologico-religiose. Oggi non ci scandalizza più sentir parlare di due giovani legati nudi a un palo, ma certi doppi sensi di famosi conduttori anche delle tv pubbliche suscitano ancora la morbosità del pubblico, perché evidentemente ancora non abbiamo superato la mentalità che invalse nell’età di Tasso.

4  Si stanno avanzando richieste e proposte per l’introduzione della schwa(ə). Non pensa si tratti, come hanno già affermato molti linguisti, si una patetica battaglia ideologica che cavalca lo spirito dei tempi al grido “inclusività”?

Sì, penso che sia una delle prove della decadenza del mondo occidentale, di cui si fanno beffe i potenti stati a Oriente dell’Europa che non hanno mai avuto simili preoccupazioni.

5 Piccola provocazione. A questo punto allora perché demonizzare i nostri giovani, che magari usano il “k” per scrivere “chi”?

Il problema non è l’uso del k: bisogna vedere il contesto in cui è usato. Avere un ampio registro espressivo è un pregio non un difetto. Sapere parlare in dialetto o scrivere senza punteggiatura o con abbreviazioni (e con il famigerato k, per l’appunto) sul telefonino per essere più rapidi è una virtù, a patto che però si sappia usare correttamente l’italiano o una lingua straniera in contesti più elevati. Si possono usare anche parolacce, quando occorre e in particolari contesti, come ci ha insegnato Dante, ma poi bisogna sapere elevare il linguaggio fino ai vertici parossistici del Paradiso.

6 È d’accordo con Leonardo Sciascia quando mette in bocca al professore di Una storia semplice la frase: “L’italiano non è l’italiano: l’italiano è il ragionare”?

No, perché sapere usare l’italiano ad alti livelli significa ragionare ad alti livelli. Senza una lingua complessa, come tutte le lingue di grande cultura, non si possono fare ragionamenti raffinati, elevati, culturalmente elevati.

7 Lei è autore del libro “Boccaccio, Dante e Verdone”, edito da Cesati.  Qual è il filo rosso che unsice queste tre personalità, di cui una del mondo del cinema?

Il titolo vuole richiamare, senza scimmiottarlo, il titolo di un noto film di Verdone. Nella convinzione che si possa accostare Dante o Boccaccio a un interprete del nostro tempo, quale è Verdone, considerato non solo come regista e attore, ma come intellettuale.

8 Ha anche curato insieme a Evgènij Sìdorov l’opera “Dalla Russia con speranza. Racconti russi contemporanei”, sempre per Cesati editore. In relazione al drammatico periodo storico che stiamo vivendo, cosa sfugge ancora agli occidentali della Russia? L’invasione russa ai danni dell’Ucraina è soprattutto da ricercare della misteriosa anima dei russi?

In quanto direttore scientifico del Premio Letterario Internazionale Città di Penne-Mosca, che è giunto alla 44ma edizione, cerco di portare avanti l’idea iniziale, avuta appunto dall’ex ministro della Cultura della Federazione Russa, di creare un ponte di cultura per stimolare soprattutto i giovani a una cultura di pace. Conosco tanti intellettuali russi, scrittori, professori universitari russi, che hanno una sincera anima pacifista. Come del resto dimostra il titolo della raccolta, scelto proprio da Sidorov qualche mese fa, in tempi ancora non sospetti.

9 Machiavelli, Dante, Boccaccio, Pirandello, Tasso. Quale tra queste grandi personalità è meno studiata secondo lei? E su quale ci sarebbe ancora da dire tanto o da chiarire alcuni punti?

Sono tutti autori molto studiati. Io mi preoccuperei piuttosto del fatto che siano sempre meno letti, soprattutto dalle giovani generazioni. Io ricordo che decisi di iscrivermi a Lettere, piuttosto che ad Astrofisica, che era la mia passione, perché mi innamorai del genio di Machiavelli, dopo averlo letto e riletto molte volte, ogni volta saltando sulla sedia per l’ammirazione, l’esaltazione, la passione per l’umana genialità, tutta concentrata in un uomo che in vita mangiò tanta polvere.

10 Prossimi impegni?

Vorrei terminare i miei lavori ancora aperti, anche se tutti quasi conclusi. Una nuova edizione critica della Mandragola, l’edizione critica delle Prose della volgar lingua di Bembo, l’edizione critica delle prime commedie in prosa di Ariosto, l’edizione critica delle opere burlesche di Annibal Caro: tutti lavori cui ho applicato il metodo tipo-filologico, con grandi novità ecdotiche.

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