‘Le braci’, il senso della vita secondo Sándor Márai

Le braci, romanzo dell’ungherese Sándor Márai edito per la prima volta nel 1942, racconta la storia dell’amicizia tra due uomini, Henrik detto “il Generale” e Konrad, e di come essa abbia avuto fine in seguito al tradimento del secondo. Il punto di partenza è l’incontro tra i due, che, a distanza di quarantun anni, ha lo scopo di far finalmente luce sugli avvenimenti che li hanno separati.

La prima parte, che coincide con l’attesa di Konrad da parte di Henrik, è occupata dal racconto degli anni della loro amicizia; la seconda, invece, quella dell’incontro, da un lungo dialogo (a dire il vero, più un monologo del Generale) sulle circostanze in cui si è interrotta.

Le braci è uno dei cinque testi Adelphi più venduti di sempre. Un romanzo che è teatro, un dialogo lungo per i canoni del realismo, un alternarsi di due voci tese mentre i sigari dei colonnelli ungheresi scorrono davanti alle immagini di tradimenti impossibili, di tradimenti scampati.

Prosa delicata, linguaggio ricco ed elegante senza mai sembrare nel ridondante. Un lungo monologo del generale Henrik che rivanga le sue memorie e torna indietro di quarant’anni per avere una risposta definitiva a quello che lo tormenta da allora. In mezzo sono infilate lì tante perle sul significato di amicizia, amore, passione, destino che rendono questo libro di sole 180 pagine ricco di riflessioni profonde:

“Non credi anche tu che il significato della vita sia semplicemente la passione che ogni giorno invade il nostro cuore, la nostra anima e il nostro corpo e che, qualunque cosa accada, continua a bruciare in eterno, e non credi che non saremo vissuti invano, poiché abbiamo provato questa passione?”

Marai fa rivivere in ogni attimo gli eventi descritti, creando atmosfere e descrivendo perfettamente i sentimenti di ognuno dei tre protagonisti (Henrik, Konrad e La moglie di Henrik). Ognuno ama e continuerà ad amare gli altri fino al giorno della sua morte, con sfumature e trasporto differenti.

L’autore nomina ripetutamente tutti i personaggi presenti in “Le braci”: Konrad, Kristina, Nini; tutti, a parte il suo protagonista Henrik, che nomina giusto un paio di volte, ma chiamandolo “generale” in tutte le altre occasioni.

Come se Marài volesse mettere in risalto la differenza tra quest’ultimo e gli altri: uomo a cui è stata affibbiata un’etichetta, una posizione sociale fin dalla nascita; status che pare anche gratificarlo abbastanza. Tuttavia, pare che questo lo ponga a un livello inferiore rispetto agli altri, indegno anche di essere chiamato per nome; incarnazione di una figura incolore che quasi non possa essere considerato un essere umano, in cui non arde il fuoco dell’anima come arde nella figura dell’artista, di quel suo amico che, tuttavia, coi suoi modi di fare mostra alcuni dei lati peggiori dell’essere umano.

Chi è più umano, dunque?

A questa e ad altre domande attende la risposta il lettore, così come i protagonisti  attendono la risposta a quella che reputano la domanda essenziale della propria esistenza. Ma una volta che arriva il momento decisivo, nessuna di queste pare essere esaustiva; perché l’esistenza appare davvero come un caso irrisolto.

“Il senso dell’amore e dell’amicizia è tutto qui. La loro amicizia era seria e silenziosa come tutti i sentimenti destinati a durare una vita intera. E come tutti i grandi sentimenti anche questo conteneva una certa dose di pudore e di senso di colpa. Non ci si può appropriare impunemente di una persona, sottraendola a tutti gli altri.”

Le braci si configura come un thriller filosofico che però ad un certo punto vira in un’altra direzione: dopo che al termine di una lunghissima requisitoria, disincantata e priva di animosità ma ugualmente implacabile, in cui, rievocando i fatti principali, Heinrich si accinge finalmente, a formulare la domanda decisiva che – a detta sua – è stata l’unica ragione che gli ha permesso di sopravvivere, e dopo che ha perfino deciso di distruggere le testimonianze esistenti (il diario di Krisztina gettato nel fuoco del camino) per affidarsi esclusivamente alla confessione di Konrad, questi sceglie di non rispondere e, alle prime luci dell’alba, si congeda dall’amico, presumibilmente per l’ultima volta, senza svelare il segreto.

Il lettore ne resta sconcertato: alle soglie di una verità a lungo fatta intravedere dall’autore, quasi afferrata con l’apparizione di un diario in cui la moglie defunta aveva affidato ogni pensiero più intimo, quando infine si tratta di ascoltare la voce stessa di chi ha vissuto gli eventi narrati in prima persona, di chi ha visto un’Europa sconvolta dalla seconda guerra mondiale, tutto  svanisce, lasciando un comprensibile senso di amaro in bocca.

L’enigmatico finale de “Le braci” è di natura scettica e pessimistica. Se una possibilità esiste che l’uomo riesca ad afferrare la verità nel corso della sua vita, essa si situa proprio nel suo momento estremo e conclusivo, vale a dire la morte (“L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore”). La morte è la sola risposta definitiva che l’uomo può dare di fronte al tribunale del mondo.

L’autore

Sándor Károly Henrik Grosschmid, questo è il vero nome di Sàndor Màrai. Nato nell’Aprile del 1900 nella città di Kassa (odierna Kosiche) nell’Ungheria settentrionale, il suo è un tipico caso di scrittore del post decadentismo che vive l’afflizione del distacco dalla sua terra unitamente alla delusione politica dei  totalitarismi del XX secolo.

A soli vent’anni, in piena rivoluzione (erano gli anni delle rivolte organizzate da Béla Kun e della fondazione della Repubblica Sovietica Ungherese), Màrai collaborava come giornalista ed opinionista per una  rivista studentesca ma già qualche anno prima, 1917, aveva dato prova di talento con la raccolta di poesie “Il libro dei ricordi”. Su decisione dei genitori fu mandato ad approfondire i suoi studi di giornalismo in Germania spostandosi tra Lipsia, Monaco e Berlino e diventando una delle firme delle pagine culturali del Frankfurter Zeitung su cui pubblicò tra una recensione teatrale o un articolo di cronaca, approfondimenti critici di opere di Kafka.

 

Le braci – Sandor Marai – Recensioni di QLibri

‘Il mondo di ieri’ di Stephen Zweig, un memorabile affresco dell’Impero austro-ungarico

“Il mondo di ieri” di Stephen Zweig, scrittore austriaco ebreo di successo negli anni ’20 del Novecento, è una autobiografia illuminante, che fa piena luce sia sulla sua vita che sulla sua epoca.

Il mondo di ieri è caratterizzato da riflessioni e ricordi, intesi in senso guicciardiano.  Scritto tra il 1939 ed il 1941 in Brasile, dove l’autore si era rifugiato, Il mondo di ieri, annovera aforismi, massime, avvertimenti, però a differenza del segretario fiorentino Zweig non si impegna nella scrittura breve, non è discontinuo né frammentario, anzi è un accumulatore seriale di aneddoti e ricordi, pur tuttavia sempre racchiusi in una forma organica, lineare e razionale.

Il mondo di ieri: un affresco dell’Impero austro-ungarico

L’opera si legge tutta di un fiato. Lo scrittore riesce sempre a ravvivare e ridestare l’interesse nel lettore, non perdendosi mai in intellettualismi e senza scadere mai in digressioni prolisse.

Zweig fa un affresco memorabile dell’Impero austro-ungarico e della sua caduta; lo fa a pieno diritto, visto e considerato che è stato un rappresentante di alta levatura della cultura mitteleuropea. In Europa infatti fu un autore molto letto.

Il mondo di ieri comincia con la descrizione dell’infanzia dell’autore a Vienna. Egli definisce la scuola una galera, a causa della disciplina ferrea vittoriana che determinava molti “complessi di inferiorità”. In quella Vienna la massima aspirazione delle famiglie borghesi non era che i loro figli si arricchissero ulteriormente ma che diventassero dottori.

Molti bambini ed adolescenti volevano diventare artisti. Allo stesso modo l’educazione era molto rigida ed impostata. I doveri avevano la priorità assoluta sui diritti. I ragazzi avevano come modelli dei maestri di pensiero, prima di tutto rispettabili. La sessualità era un tabù. Era una attività da non mettere in mostra ed un argomento di cui non parlare.

Tematiche

L’erotismo in quella società sessuofobica era tutto nascosto e adulterato o almeno mistificato. Ma allo stesso tempo per un meccanismo di compensazione quella era in Austria anche l’epoca della sicurezza. Era la Felix Austria. Era la Belle Époque.

Era la società del liberalismo e del progresso, delle “magnifiche sorti e progressive”. Zweig proveniva da famiglia agiata ed ebbe la fortuna sia di poter andare all’università che di scegliere la facoltà, cose non affatto scontate a quei tempi. Scelse filosofia, ebbe modo anche di pubblicare le prime poesie e di conoscere Herzl, fondatore del sionismo.

Poi il 28 giugno 1914 Princip, uno studente serbo, assassinò l’erede al trono asburgico. Come scrive Zweig erano stati 40 anni di pace e poi era sopraggiunta all’improvviso la guerra. Molto fuoco covava sotto la cenere. L’equilibrio in Europa era precario. C’erano molte tensioni di varia natura (economica, politica, sociale, ideologica). Iniziarono gli sconvolgimenti, gli eccidi, gli orrori.

La seconda guerra mondiale

Come ancora ci narra Zweig i soldati al fronte morivano, mentre gli altoborghesi imboscati se la spassavano in patria. I superpatrioti ce l’avevano con lui che era pacifista.

Ma lo scrittore era impegnato lo stesso perché aveva la coscienza e l’esatta percezione di quanto fosse importante il parere e la presa di posizione di un letterato o di un artista a quei tempi, mentre come sottolinea molto lucidamente nella seconda guerra mondiale gli intellettuali erano ormai fuorigioco e ininfluenti.

Finita l’università si trasferisce a Parigi. Zweig descrive con nostalgia la capitale francese, una città cosmopolita per eccellenza, e scrive che sulla Senna ognuno si sentiva a casa propria. Racconta anche i suoi viaggi, che lui definisce “pellegrinaggi”.

I grandi intellettuali dell’epoca

Un artista per essere tale deve avere frequentazioni con giganti intellettuali e lui ebbe molti incontri con geni come Rilke, Harden, Richard Strauss, Herzl, Romain Rolland, Pirandello, Freud, Dalì. Riconobbe nella Svizzera un modello per tutti per la civiltà e l’accoglienza, dato che in terra elvetica trovavano rifugio tutti i perseguitati.

Allo stesso modo l’autore ne Il mondo di ieri ci descrive gli Stati Uniti come il paese in cui ci sono più libertà ma anche più opportunità, visto che in pochi giorni gli offrono ben cinque impieghi. Inoltre descrive il periodo londinese, che va dal 1934 al 1940. Zweig dagli anni ’20 era uno scrittore noto al grande pubblico. I suoi libri vendevano molto.

Zweig aveva ottime entrature nell’alta società, anche se tutto ciò non lo interessava granché. Conosceva tutti gli scrittori, gli editori, i direttori di riviste che contavano in Europa.

L’ascesa al potere di Hitler e il suicidio dello scrittore

Eppure fece naufragio perché si suicidò in Brasile insieme alla moglie. Nonostante il suo successo personale aveva vissuto anche troppo orrore per la guerra, la crisi dell’Austria, che non aveva più fabbriche, era povera e la cui banca nazionale era senza più oro, tutti segni di una miseria inenarrabile e della fine di una epoca felice.

Ma non c’è solo questo: Zweig aveva assistito anche all’ascesa di Hitler. Gliene avevano parlato già all’epoca in cui istigava all’odio i bavaresi nelle birrerie.

Aveva avuto modo di constatare la follia di Hitler, che aveva saputo approfittarsi della difficile situazione in cui versava la Germania in quegli anni, obbligata a pagare una indennità di guerra incredibile. Hitler si approfittò di una Germania umiliata e colse la palla al balzo, coniugando necrofilia, imitazione del fascismo, antisemitismo, anticomunismo, sadismo e crudeltà infinita.

Zweig è stato un intellettuale così lucido da accorgersi del pericolo. Cosí come probabilmente forse si era accorto della “banalità del male” del popolo tedesco.

Probabilmente  il gesto estremo di Zweig e di sua moglie, proprio in quanto ebreo ed austriaco, ha delle profonde giustificazioni, senza fare una sterile retorica del suicidio come è d’uso presso alcuni intellettuali.

 

Do Davide Morelli

‘L’uomo senza qualità’: il capolavoro incompiuto di Musil

L’uomo senza qualità è il capolavoro incompiuto del 1930 del cantore della stupidità umana, lo scrittore austriaco Robert Musil, manifesto del Decadentismo. Apparentemente il romanzo di Musil non parla di nulla, di riflessioni sulla riflessione, dell’idea più che della vita stessa; ma offre al lettore una gamma di personaggi, con le loro manie e i loro pensieri.

Musil ritrae magistralmente l’essenza dell’uomo moderno, lasciando aperta al lettore ogni possibile conclusione sul senso della vita. Ci mette tutta la sua anima, evitando di darci delle risposte in questo cervellotico e filosofeggiante romanzo-saggio di inizio Novecento che è speculare alla Recherche di Proust e all’Ulisse di Joyce, che imbastisce un’amalgama di concetti che vanno dall'”uomo delle possibilità”  di Nietzsche al finis Austriae, passando per le teorie epistemologiche dell’empiriocriticismo di Mach. L’uomo senza qualità è una sorta di manuale sul nischilismo e sulla decostruzione letteraria: Musil infatti non descrive solo il vuoto della società tedesca ma la struttura narrativa stessa, costituita da pesanti digressioni che diventano parodie di sè stesse. Dalla presentazione del protagonista Ulrich si sgancia una catena di assiomi che rende la struttura del romanzo aperta.

L’uomo senza qualità si muove su un sottile filo luminoso regalandoci anche dei momenti scanzonati e dei sorrisi, un’opera sperimentale e ludica che colpisce sia la mente (nella prima parte dell’opera) che il cuore (seconda parte) del lettore e costituisce senza dubbio uno dei pilastri della letteratura mondiale di tutti i tempi. Nell’opera vengono descritte occasioni di vita quotidiana durante la prima guerra mondiale che segna il crollo dell’Impero asburgico, chiamato ironicamente Cacania, allargando il discorso per rappresentare l’intera esistenza umana, dei sentimenti, delle inettitudini, delle domande dell’uomo contemporaneo.

L’uomo senza qualità: trama, contenuti e stile del romanzo

Protagonista del romanzo di Musil è Ulrich, l’uomo senza qualità appunto, ex ufficiale, intellettuale raffinato con propensioni per la matematica, incaricato di organizzare le celebrazioni per il giubileo di Francesco Giuseppe, nel 1013. Tuttavia la sua incapacità di credere e di impegnarsi in qualcosa, di dare una direzione al vivere e al fare, gli impedisce di portare a buon fine l’iniziativa, che naufragherà nel nulla. La narrazione intreccia anche altre storie: da quella della crisi familiare di due altri personaggi (Walter e Clarissa) a quella di un condannato a morte. Dunque Musil, con questo romanzo, dopo I turbamenti del giovane Torless (1906) rappresenta al meglio la crisi dei valori che ha contrassegnato la società tedesca, testimoniando la crisi complessiva della civiltà, trattata anche da altri grandi autori mitteleuropei come Kafka, Proust, Mann, Joyce, Joseph Roth, Broch, i quali hanno sviluppato una vena letteraria che approfondisce l’analisi dell’esistenza umana già introdotta nella narrativa in lingua tedesca tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.

Ulrich è il rappresentante di una concenzione umanistica e individualistica della vita, che rifiuta la società tecnologica e massificata in cui si trova a vivere. Se nella prima parte de L’uomo senza qualità, l’attenzione si concentra soprattutto sulla storia della crisi coniugale tra Walter e Clarissa che termina con la pazzia di quest’ultima, nella seconda parte hanno grande peso le vicende del condannato a morte, Moosbrugger e la descrizione della decadenza dell’Impero austro-ungarico, mentre nella terza si approfondisce il rapporto tra Ulrich e Agathe.

Risulta difficile rendere un’idea plausibile della complessità e della varietà dei toni e di stili de L’uomo senza qualità estrapolando dei brani da questo capolavoro; tuttavia già solo il brano dove Musil presenta la Cacania è utile a farci conoscere la prima caratteristica dello stile dello scrittore austriaco: l’ironia. Essa emerge prima di tutto nella scelta di ribattezzare L’Austria Cacania, ma anche un esempio dove lui parla delle “torri che contengono moglie, famiglia, grammofono e anima”, come se le persone e la dimensione spirituale dell’esistenza fossero ormai assimilate a oggetti. L’ironia emerge con maggiore evidenza quando Musil parla dell’Austria pre-bellica, nel passo in cui afferma che la sua burocrazia era la migliore d’Europa e aveva un solo difetto: per essa genio e spirito di iniziativa nelle persone non autorizzate a ciò da alti natali o da incarico governativo erano impetinenza e presunzione.

Il tono ironico spesso si unisce ad un elemento grottesco e inquietante che Musil fa derivare dalle esperienze degli espressionisti come dimostra ad esempio la descrizione della vita nella città tecnologica del futuro dove gli individui sono ridotti a molecole:

La zoologia insegna che ds una somma di individui limitati può benissimo risultare un insieme geniale.

La critica della società tecnologica è condotta in base a una serie di valori che soo quelli dell’individualismo borghese ottocentesco, ma più in generale dell’Umanesimo classico: in base a questi valori l’autore riconosce nell’Austria pre-bellica un esempio di società più civile di quella moderna:

In Cacania un genio era sempre scambiato per un babbeo, mai però, come succedeva altrove, un babbeo per un genio.

Le contraddizioni che caratterizzano la vita in Cacania erano per Musil una garanzia di libertà individuale, le tradizioni per quanto assurde, consentivano all’individuo di riconoscersi in una collettività e di vincere il senso di solitudine e di disgregazione interiore che invece caratterizzano l’uomo moderno. Ironia e rimpianto si fondono inevitabilmente. La tematica esistenziale, strettamente connessa a quella ideologica, emerge con chiarezza nell’ultima parte della presentazione della Cacania. dove Musil elenca i nove caratteri che ciascun individuo possiede, facendo riferimento ai risultati della psicologia e della scienza moderna che hanno dissolto il concetto di unità dell’io:

[…] Perché l’abitante di un paese ha almeno nove caratteri: carattere professionale, carattere nazionale, carattere statale, carattere di classe, carattere geografico, carattere sessuale, carattere conscio, carattere inconscio e forse anche carattere privato; li riunisce tutti in se, ma essi scompongono lui ed egli non è in fondo che una piccola conca dilavata da tutti quei rivoli, che v’entran dentro e poi tornano a sgorgarne fuori per riempire assieme ad altri ruscelletti una conca nuova.

L’infinito viaggiare: la parabola esistenziale di Magris

Claudio Magris è uno degli autori più insigni del panorama letterario italiano ed estero e viene riconosciuto dalla critica nazionale e internazionale come uno dei più interessanti intellettuali contemporanei, oltre che ritenuto uno dei maggiori conoscitori della letteratura mitteleuropea.

Lo scrittore nasce a Trieste nel 1939. Nel corso del suo percorso accademico diviene un profondo conoscitore della letteratura europea, specie quella centrale e ottiene una cattedra prima a Torino, poi a Trieste, in letteratura tedesca, inoltre nel corso della sua vita ottiene vari riconoscimenti letterari, come la consecuzione di prestigiosi premi letterari come il premio Bagutta (con l’opera Danubio nel 1986), il premio Strega (con Microcosmi nel 1997), e anche il premio Principe delle Asturie nel 2004, nella sezione letteratura. La sua carriera letteraria è costellata di successi, ma anche nel settore civile Magris non manca di alti riconoscimenti e onorificenze, diventa infatti senatore del parlamento italiano (1994-1996) e ottiene anche il titolo di Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana (2001). Dal 2006 entra a far parte dell’Accademia dei Lincei.

Il pensiero magrisiano, accompagnato da uno stile raffinato, elegante ed asciutto è un elemento che il lettore odierno può certo apprezzare e sentire proprio, non certo senza una buona dose di curiosità e di conoscenza pregressa. Una delle caratteristiche degli scritti di Magris è infatti un enciclopedismo, quasi borgesiano alle volte, ricco di riferimenti dotti e sofisticati. Uno stile medio-alto che risulta funzionale agli obiettivi prefissi dalle opere stesse dello scrittore. La saggistica di Magris contiene acuti spunti di riflessione, ed offre al lettore l’opportunità di soffermarsi e confrontarsi con il punto di vista lucido e riflessivo dello scrittore sul mondo. Uno dei temi tra i più trattati nel mondo magrisiano è sicuramente quello del viaggio, un esperienza che per lo scrittore triestino assume un particolare ruolo e una particolare importanza nella vita esistenziale di ogni uomo.

Il tema del viaggio viene trattato, antecedentemente al saggio L’infinito viaggiare (2005), anche nei romanzi Danubio (1986) e Microcosmi (1997), ma tale tematica ne L’infinito viaggiare viene probabilmente affrontato più autenticamente, in quanto i fatti, a differenza di Danubio e Microcosmi, sono puntellati come se fossero nuovi, vissuti al momento, raccogliendo articoli di giornali, impressioni, appunti, invece che divenire materiale da racconto. L’opera si presenta inizialmente come un diario di viaggio, quello che a tutti gli effetti è, ma a uno sguardo più approfondito, si rivela la componente più interessante dell’opera, la sua nascosta e interessante filosofia. Infatti sin da subito si può notare come il viaggio non diventi una novella, bensì un mondo attorno cui la vita di tutti i giorni gravita.

Da questa caratteristica metafisica del viaggio, Magris prende spunto per tracciare sin da subito, nella prefazione, le caratteristiche tipiche del “viaggio”. Lo scrittore dapprima ne confronta e sviscera vari filoni di pensiero, da quello antico e circolare odisseico, mettendo in risalto la caratteristica evoluzione del viaggio che muta il mondo rendendolo precario e rendendo precario il senso della comune esistenza stessa, a quello nietzschiano, ovvero quello che prosegue come una linea retta dispersa nell’oblio e nel vuoto esistenziale.

Il viaggio, ci dice Magris, non mostra solo la precarietà del mondo, bensì anche quella del viaggiatore, ma sopratutto il viaggio non è un “andar via”, ma è un “essere”, come una tartaruga che con la propria casa viaggia per il mondo. Quando si è in viaggio non si è in nessun luogo qualcuno direbbe, ed invece Magris si oppone nettamente a questa presa di posizione e anzi ci dice che il viaggio stesso è il luogo in cui siamo, nel pensiero magrisiano il viaggio diventa dunque esistenza viva e lecita, dinamica e accesa, forte e piena. Diventa il vero contenitore della vita totalizzante. Alla domanda “Viaggiare verso dove?” quindi la risposta suggerita sembra essere non un luogo, ma una qualità dell’ essere, viaggiare verso il viaggiare, con un gioco di parole si potrebbe dire.

Ma se viaggiare diventa il luogo dell’essere, primordiale e infinito come il viaggio stesso, un’altra domanda arriva alle orecchie del viaggiatore: “Perché viaggiare?”. A questa domanda Magris risponde con l’esempio di don Chisciotte, la cui sortita “vorrebbe essere la scoperta, la verifica e la riconferma di ciò che si sa, della verità letta nei libri di cavalleria”, ovvero viaggio inteso come conferma, come riconquista della vita e del suo mistero.

L’autore delinea così un viaggio utopico, infinito ed esistenziale, che porta con sé la scoperta e la riscoperta, l’incontro e lo scontro col mondo, un viaggio che egli assimila allo scrivere, che diviene analogia necessaria di questo viaggio come del vivere stesso. Attraverso la scrittura si parte per strade sempre nuove e sempre vecchie, le parole che, già mille volte usate, prendono nuova forma e si intrecciano per formare una nuova strada, un nuovo viaggio. Il viaggio viene presentato come esistenza, come crogiolo della storia e dell’umanità e assume tutte quelle caratteristiche che lo rendono la più alta forma di espressione dell’esistenzialismo magrisiano, in cui si parla di un viaggio che può iniziare da un rigo, da un oggi o da un dove e che conduce per molteplici strade, per snodati percorsi all’interno di una vita già labirintica e tortuosa, un viaggio che cambia nei luoghi (si passa da Berlino, da Londra, alla Spagna) o nel tempo, un viaggio continuo che non si spezza, (anche se i documenti non sono ordinati cronologicamente), un viaggio che parte e riparte periodicamente e che  potenzialmente non finirà mai. Magris ha dunque raccolto questo suo saggio una brillante osservazione, che viene già espressa nel titolo: Viaggiare non ha fine, ne un inizio, viaggiare è indefinito perché è misto ed intriso della stessa materia di cui è composta l’eternità, viaggiare è ora, oggi, domani e ieri, non ha tempo, né direzione, perché è ogni tempo e ogni luogo, viaggiare è la metaforica visione dell’ Universo.

Viaggiare è infinito.

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