“Mi sono un monumento eretto non di mano umana…” Il salotto letterario dedicato a Puškin

Giovedì 20 giugno alle ore 18:30 presso la Casa Russa a Roma si terrà il terzo salotto letterario-musicale. Questa volta l’incontro sarà dedicato al 225º anniversario della nascita del grande poeta russo Aleksandr Puškin, fondatore della lingua letteraria russa moderna.

Il significato del lavoro del poeta russo per la letteratura mondiale racconterà Vadim Polonskij, esperto dell’Accademia Russa delle Scienze, direttore dell’Istituto di Letteratura Mondiale A.M. Gor’kij. Da parte italiana, al salotto letterario-musicale parteciperà Giuseppe Ghini, professore universitario, slavista e scrittore, curatore e traduttore dell’edizione italiana recente del poema di Puškin “Evgenij Onegin” (2021). Le romanze e le poesie del poeta su musiche di Michail Glinka, Pëtr Čajkovskij, Aleksandr Dargomyžskij, Sergej Rachmaninov, Anton Rubinštejn, Aleksandr Vlasov saranno eseguite dalle vincitrici dei concorsi internazionali le soprano Elizaveta Smirnova, Maria Smirnova e Natalia Pavlova, discendente di Aleksandr Puškin. Al pianoforte Sebastiano Brusco.

Come ha affermato Giuseppe Ghini,

Puškin ha disegnato personaggi che sono divenuti modelli con cui un russo colto non può non confrontarsi. Questo è vero soprattutto per tutto il periodo – fino al 1905 – in cui in Russia praticamente non esiste altro che la letteratura: impedita ogni altra forma di riflessione pubblica – filosofica, sociologica, politica – la letteratura e la critica letteraria diventano tutto, e gli scrittori sono “pensatori” nel senso più ampio. Per esempio, Onegin incarna, con i suoi pro e i suoi contro, la figura dell’“uomo superfluo” nella particolare realizzazione che assume al tempo della servitù della gleba: però il tema della distanza tra potere e cultura, la responsabilità dell’intellettuale engagé o dedito all’otium, sono questioni non aggirabili. Molto concretamente, leggendo la letteratura russa ti accorgi che spesso risuonano parole dell’Onegin, che alcuni personaggi disputano con gli eroi del romanzo di Puškin.

Le opere di Pushkin sono incredibilmente varie: odi classiche, poesie romantiche, lirica d’amore e civile, romanzi in versi, drammi storici, narrativa realistica, favole, racconti, fiabe e appunti di viaggio.

In programma anche le famose Lettere di Tat’jana e Onegin dall’omonimo poema, opere di Wolfgang Amadeus Mozart, Francesco Paolo Tosti, Franz Schubert, Fryderyk Chopin, un brano musicale della contessa Zinaida Volkonskaja, che fu all’origine della tradizione dei Salotti Letterari. Il pubblico avrà la possibilità di recitare le poesie del grande poeta russo.

L’ingresso è libero, la prenotazione tramite il link  https://forms.gle/S3j6ngU3n4iEPhhG7  o al numero 06 888 16 333 è obbligatoria.

 

Piazza Benedetto Cairoli, 6 – 00186 Roma

Si prega di esibire un documento di identità all’entrata.

Conferenza “L’insostenibilità di Dostoevskij” il 19 luglio organizzata dall’Istituto Tasso di Sorrento. Parla la dott.ssa Annalina Grasso

Si terrà il giorno 19 luglio 2021 alle ore 18.00 presso il Museo Civico San Francesco di Sorrento la conferenza dal titolo “L’insostenibilità di Dostoevskij” tenuta dalla dott.ssa sannita Annalina Grasso, laureata in lettere, filologia moderna e giornalismo ed editoria è giornalista, blogger, social media manager, redattrice di testi critici per artisti, direttrice del magazine online ‘900letterario, e collaboratrice di riviste prestigiose quali Juliet Art e la tedesca Zeitblatt Magazin e moderata da Luciano Russo.

Annalina Grasso ama la letteratura soprattutto quella italiana, francese e russa, il cinema, l’arte, la musica e per questo incontro, organizzato dall’Istituto di Cultura Torquato Tasso di Sorrento, fondato nel 1923, ed ente morale dal 1929. La conferenza sarà trasmessa da Positano News.

Obiettivo della conferenza è mostrare l’insostenibilità di Dostoevskij, sia per quanto riguarda la scrittura diretta, sia per il contenuto e le tematiche delle sue opere, i personaggi, senza trascurare la questione inerente alla fede, la critica e la straordinaria attualità di questo grande scrittore, o meglio drammaturgo metafisico che ha affrontato la questione del Male senza girarci troppo intorno.

Sarà approfondito in modo particolare il capolavoro I Demòni, titolo si riferisce appunto agli maligni’ rappresentati da alcuni dei personaggi principali in una San Pietroburgo nichilista.

Come sosteneva Bachtin, sebbene i romanzi di Dostoevskij siano polifonici, in essi tuttavia persiste uno sostrato monologico dato dalla prospettiva dell’autore, procedimento tipico del romanzo europeo.

Nei romanzi dello scrittore russo la coscienza ed il punto di vista dell’autore non puntellano il mondo rappresentato, ma questo invece è creato da diverse coscienze e punti di vista che coesistono.

La narrazione di Dostoevskij inoltre si dipana nello spazio più che nel tempo e i personaggi si evolvono sul piano orizzontale piuttosto che verticale, all’interno del quale i dialoghi sono fondamentali.

“Invece di impadronirti della libertà degli uomini, Tu l’hai accresciuta ancora più! O forse avevi dimenticato che la tranquillità e perfino la morte è più cara all’uomo della libera scelta nella conoscenza del bene e del male? Non c’è nulla di più allettante per l’uomo della libertà della sua coscienza, ma non c’è nulla di più tormentoso”. (Dai Fratelli Karamazov)

‘Anja, la segretaria di Dostoevskij’, il romanzo pluripremiato di Giuseppe Manfridi in corsa per il Premio Strega

“Anja, la segretaria di Dostoevskij” è la straordinaria opera dello scrittore e autore teatrale Giuseppe Manfridi, vincitrice nella sezione Narrativa Edita della VII Edizione del Premio Letterario Città di Como e della I Edizione del Premio Dostoevskij.

Il romanzo è stato inoltre selezionato per il Premio Strega 2020, presentato dallo storico dell’arte Claudio Strinati, che l’ha così descritto:

«Mai banale, mai retorico, mai ostentato ma profondamente serio e convincente, un inno alla letteratura e all’amore, all’intelligenza e alla volontà».

La genesi del romanzo Il giocatore di Dostoevskij

Nell’opera si racconta la turbolenta nascita del romanzo “Il giocatore” (in russo “Igrok”) di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, e allo stesso tempo l’origine di una storia d’amore scandalosa e sofferta, che cambierà l’esistenza del grande scrittore russo.

Anna Grigor’evna Snitkina (chiamata affettuosamente Anja) e Fëdor Dostoevskij amano la letteratura più di qualunque altra cosa al mondo, e in essa trovano il compimento del loro destino; quando egli decide di avvalersi di una stenografa per accelerare il processo di composizione del suo nuovo romanzo, non intuisce ancora che quella ragazza appena diciottenne diventerà fondamentale per la sua scrittura, e presto anche per la sua anima.

I due protagonisti sono finemente caratterizzati, così come i numerosi personaggi secondari, donando loro una tale complessità emotiva da coinvolgere profondamente il lettore nelle loro vicende, e da emanciparli dal loro ruolo di finzione per renderli umani, vivi.

Stile e contenuti

Giuseppe Manfridi ci permette di osservare da vicino l’atto creativo di uno scrittore geniale in perenne lotta con i suoi demoni, provato da una vita di dolore, malattia e indigenza e che «porta la propria storia incisa ovunque nelle carni»; nel racconto della gestazione de “Il giocatore” l’autore esprime il tumulto e l’urgenza della scrittura dostoevskiana che, se da una parte erano insiti nella sua natura, dall’altra erano dettati dall’ingannevole contratto stipulato con il suo editore, il viscido F. T. Stellovskij, che aveva anticipato a Dostoevskij la somma di tremila rubli in cambio dell’accordo che se non avesse consegnato la sua nuova opera in ventisei giorni, avrebbe perso i diritti dei suoi romanzi passati e futuri.

Sullo sfondo di una Pietroburgo magnificente e al contempo decadente e oscura, abitata da fantasmi che scorrazzano insieme ai vivi, e che accompagnano lo scrittore in ogni suo passo – «Sono i suoi morti e i suoi vivi, questi. I morti e i vivi di Fëdor Michajlovič. Nemmeno il diavolo glieli potrà sottrarre» – si mette in scena una raffinata biografia romanzata, caratterizzata da una scrittura visionaria che evoca magistralmente lo spirito di quei tempi; una storia intima e poetica che entra nelle vene e si mischia con il sangue, arriva al cuore e lì permane, testardamente attaccata alle sue pareti.

Sinossi del romanzo

Pietroburgo 1866. Lo scrittore, quasi cinquantenne, Fëdor Michajlovich Dostoevskij è afflitto dall’epilessia e reduce dall’aver firmato un contratto capestro col suo mefistofelico editore: si è impegnato a consegnare un nuovo romanzo nell’arco di un mese.

In caso contrario perderà i diritti su tutte le sue opere passate e future. Consigliato dagli amici, si rivolge a una scuola di stenografia che gli mette a disposizione la migliore delle sue allieve: Anja Grigor’evna, una graziosa adolescente curiosa del mondo, che ha ereditato dal padre la passione per la letteratura. Fra i due, in ventisei giorni, nascerà un amore estremo a dispetto dello scandaloso divario di età.

Anja rimarrà la fedele custode dell’opera di Dostoevskij fino alla propria morte, avvenuta trentasette anni dopo quella del marito.

Vera Macchina del Tempo, questo romanzo sonda il mistero del legame profondo che si stabilì tra Dostoevskij e Anja nel breve tempo della stesura del “Il giocatore”, restituendoci, con una scrittura straordinariamente evocativa, atmosfere, clima, e persino odori e rumori della Pietroburgo del XIX secolo.

Biografia dell’autore

Giuseppe Manfridi è uno scrittore e autore teatrale rappresentato in Italia e all’estero.

Tra le sue commedie di maggior successo si ricordano: “Giacomo il prepotente” (1989), “Ti amo Maria!” (1990), “Zozòs” (1994), “La cena” (in scena dal 1990).

Per il cinema ha firmato la sceneggiatura di “Ultrà” che, con la regia di Ricky Tognazzi, vince l’Orso d’argento al Festival di Berlino nel 1991.

Debutta nella narrativa con “Cronache dal paesaggio” (Gremese, 2006), tra i dodici finalisti al Premio Strega nel 2006, come avverrà di nuovo nel 2008 con “La cuspide di ghiaccio” (Gremese, 2008).

Di recente ha pubblicato “Filastrocche della nera luce. Cronache dalla Shoah” (La Mongolfiera, 2018). Ha pubblicato per La Lepre Edizioni nel 2016 “Anatomia della gaffe”, nel 2017 “Anatomia del colpo di scena” e nel 2019 “Anja, la segretaria di Dostoevskij”.

‘Arcipelgo Gulag’, il saggio di inchiesta narrativa capolavoro di Solzenicyn. Cos’è oggi il Gulag?

Arcipelago Gulag scritto dallo scrittore russo Aleksandr Solzenicyn sotto forma di saggio di inchiesta narrativa, tra il 1958 e il 1968, rappresenta spaccato di storia dolorosamente vissuta sulla Russia stalinista. Dal Circolo polare artico alle steppe del Caspio, dalla Moldavia alle miniere d’oro della Kolyma in Siberia, le “isole” del Gulag – l’organismo che gestiva i campi d’internamento nell’Unione Sovietica – formavano un invisibile arcipelago, popolato da milioni di cittadini sovietici. Nei Gulag è vissuta o ha trovato fine o si è formata un'”altra” Russia, quella di cui non parlavano le versioni ufficiali, e di cui Solzenicyn, per primo, ha cominciato a scrivere la storia. In un fitto intreccio di esperienze dirette, di apporti memorialistici, di minuziose ricostruzioni dove non un solo nome o luogo o episodio è fittizio, Arcipelago Gulag racchiude una tragica cronaca di quella che è stata la vita del popolo sovietico “del sottosuolo” dal 1918 al 1956. Un’opera corale che ha visto la luce per la prima volta a Parigi nel 1973. Solzenicyn è più che un scrittore, in Russia è un mito, un filosofo, rispettato tantissimo per le sue idee, per la sua inflessibilità e per il suo coraggio di scrivere sempre e comunque la verità.

Arcipelago Gulag è un’opera corale la cui versione francese recepisce sia le aggiunte e integrazioni apportate al testo dallo stesso Solženicyn nel 1980 sia i successivi interventi volti a esplicitare nomi e luoghi effettuati nell’edizione curata da sua moglie nel 2006.

L’opera è lunga (poco più di 1300 pagine), a tratti difficile per un europeo in quanto si rimanda a fatti o avvenimenti della storia russa (ci sono ovviamente note a fine libro) ma questo non rappresenta un ostacolo per la resa dell0opera che risulta avvincente e coinvolgente.

L’autore russo è coscienza della Russia, implacabile accusatore del regime comunista e di quello degli oligarchi e di Boris Eltsin, che lui definiva pseudo-democratico. E adesso sostenitore convinto della «democrazia guidata» appena trasmessa da Vladimir Putin a Dmitrij Medvedev.

Il grande scrittore premio Nobel per la letteratura, compiuti i novant’ anni molti anni fa, ha visto pubblicare la prima monumentale biografia (quasi mille pagine) letta e approvata dallo stesso ex recluso nei campi di lavoro e dall’ inseparabile seconda moglie Natalia. Lui è malato, quasi non può camminare e da cinque anni non esce di casa. Ma scrive tutti i giorni, cura la pubblicazione della sua Opera omnia e, soprattutto, continua a sparare bordate contro l’ Occidente, l’America di George W. Bush e coloro che criticano la politica del governo russo.

Così Solzenicyn descrive l’ossessione della scrittura, una ossessione che perde e che salva. Raccontando la storia, Solzenicyn vive “come in sogno”. Ogni gesto di scrittura, se grande, accade dal carcere, scavando il tempo dalle pareti, come i carcerati, gratificando le unghie.

Da dissidente a supporter del «suo» presidente e del «suo» primo ministro. Tanto da arrivare a difendere persino il passato nel Kgb di Vladimir Putin e a sostenere, lui che per anni è stato vittima dei servizi segreti, che «servire nello spionaggio estero non è una cosa che viene vista negativamente in molti Paesi».

La biografia scritta da Lyudmila Saraskina – per le edizioni Molodaya Gvardiya – è stata pubblicata a Mosca. Novant’ anni che coprono quasi per intero il «secolo breve», dalla nascita in una famiglia di ex proprietari terrieri subito dopo la rivoluzione (e in casa non si doveva mai parlare del nonno ufficiale zarista), alla partecipazione alla guerra come comandante di una compagnia di artiglieria. Il giovane Aleksandr era un comunista convinto, ma in una lettera privata criticò Stalin e finì nelle grinfie dell’ Nkvd, predecessore del Kgb. Otto anni di campo di lavoro e poi il confino.

Dalla sua esperienza in Kazakistan e in altri luoghi di «espiazione» nacquero i grandi capolavori. Una giornata di Ivan Denisovich, che raccontava la quotidianità dei lager, venne pubblicato durante il breve disgelo kruscioviano nel 1962 e fece un immenso scalpore. Giubilato Kruscev, il nuovo potere sovietico impedì allo scrittore di pubblicare alcunché e alla fine lo cacciò dall’ Unione Sovietica. Dopo che uscì all’ estero Arcipelago Gulag, la dettagliata analisi del mondo della repressione nata con Lenin e proseguita con Stalin, i tentativi di persecuzione continuarono. «Contromisure attive», come le chiamavano i ragazzi degli «Organi» repressivi.

La sua biografa ci racconta che Jurij Andropov, allora direttore del Kgb, era ossessionato dallo scrittore. Fece pubblicare in Italia e in Giappone un libro denigratorio scritto della ex moglie di Solzenicyn. Poi fece uscire sull’ Unità, l’ 11 luglio del 1975, una lettera della figlia del direttore di Novy Mir, la rivista che aveva pubblicato Una giornata di Ivan Denisovich. Dopo lo scioglimento dell’ Urss, il Vate riebbe la cittadinanza russa e poté tornare a casa dal Vermont, dove si era stabilito. Giunse in Estremo Oriente nel 1994 e attraversò tutto il Paese in treno, con migliaia di persone alle stazioni.

Ma ben presto il feeling con il Paese venne meno, anche a causa delle sue opinioni assai particolari. Profondamente antidemocratiche, le hanno definite i suoi critici. Anatolij Chubais, uno dei più brillanti tra i giovani riformisti degli anni Novanta (e tra i più criticati) ha detto: «Un odio simile verso la Russia moderna non l’ho visto nemmeno nei comunisti di Ziuganov».

Per un po’ l’ideale di Solzenicyn è stato il ritorno a una Russia agraria e religiosa. Poi, più recentemente, ha sposato la «democrazia guidata» di Vladimir Putin. Ha appoggiato le sue campagne contro l’ ingresso nel Paese della Chiesa cattolica e delle sette protestanti; se l’ è presa con l’Ucraina che ha accettato «l’abbraccio mortale dell’ Occidente e della Nato», che vogliono solo «accerchiare totalmente la Russia e farle perdere la sua sovranità».

Solzenicyn è morto 13 anni fa ed è diventato un’icona buona per le conferenze e i servizi in tv: d’altronde, chi ha oggi il coraggio di dire che il Gulag sono stati una azienda sovietica efficiente e che la sopraffazione è un atto buono e giusto? Così, leggiamo Arcipelago Gulag come la testimonianza di un tempo che fu. Ma non è oggi il Gulag, in un’altra forma, magari più sofisticata e sagace questo sistema di di frustrazione, smarrimento patente che viviamo? Cosa dire poi della Russia di Putin, del suo microcosmo oligarchico.

Già. Chissà cosa penserebbe oggi Solzenicyn di quello che sta accadendo in Russia, di Putin, di Navalny, degli scontri nelle piazze, dell’attenzione dell’Europa.

 

Fonte: Q-Libri

Veronica Tomassini, autrice di ‘Vodka Siberiana’: un osceno viaggio metafisico ai confini dell’amore

Amare ci rende divini, sembra essere questo uno degli adagio che attraversano le pagine del mordente e schiettissimo romanzo epistolare Vodka siberiana, autopubblicato dalla scrittrice stessa, Veronica Tomassini, collaboratrice presso il Fatto Quotidiano, e autrice di opere pregevoli come Sangue di cane, Laurana 2010; Il polacco Maciej, Feltrinelli 2012; L’altro addio, Marsilio 2017; Mazzarrona, Miraggi 2019, candidato al Premio Strega), perché le case editrici nostrane sono troppo impegnate a pubblicare autori scialbi, standardizzati, politicamente corretti, e banali.

Vodka Siberiana è un viaggio metafisico nel male da cui scaturiscono l’amore e la compassione; un libro quasi insaziabile che abbraccia il trascendente, lo interroga, dove i personaggi naufragano per poi cogliere brandelli di infinito, alla maniera di Dostoevskij, non a caso tra gli scrittori che hanno maggiormente influenzato Veronica Tomassini. I personaggi di Vodka siberiana, sono attratti e al contempo respingono qualcosa che li chiama, incarnando ossessioni, vizi, debolezze, mostruosità che travolgono il lettore più esigente e sensibile, meno gli editori markettari.

Le lettere raccolte dalla Tomassini diventano un romanzo e raccontano la solitudine storica di un tempo, metà anni ’90, dopo la caduta del muro, il tempo finito nella Storia dei paesi dell’ex cortina. Dal disordine – ovvero l’avventata democrazia che piomba simile a un vento disturbante sopra l’elegia comunista oramai esangue, inchiodata finalmente al vero crimine – a quel caos la cui tragicità ha i contorni di una profezia biblica, nutrono generazioni di spostati, la cosiddetta torma di uomini ics. Vagabondi, travasati nel pingue e distratto Occidente, bevitori, portatori di lutti perenni. Oscenità da estinguere in un parco di una metropoli o di una modesta città di provincia, europea, italiana. Nello specifico, ovvero, nel mio romanzo, una città di provincia siciliana. Questa l’originale sinossi del romanzo della scrittrice siracusana.

Veronica Tomassini ci parla di amore, vero, ma di un amore che morte, tradisce, fa male. Di un amore immortale, che è divino, che ama l’altro prima ancora di conoscerlo e che deve passare prima tra i meandri dell’animo tenebroso per poi giungere alla constatazione che ciò che è davvero reale è l’invisibile e l’inverosimile. Bisogna vivere come se si abitasse un altro mondo, sembra suggerirci Veronica Tomassini, abbandonandosi al mistero, compreso quello dell’amore. Amare dunque è normale oppure no? Tutti parlano d’amore, confondendolo con la passione, con un sentimento che gratifica, smuove, fa sentire vivo. Ma l’amore, come dice l’autrice non è nemmeno un sentimento. Mentre si attende l’amore o lo si vive con fatica, bisogna accettare quello che ci sottrae la vita, incastonare la propria solitudine tra le gocce della pioggia che ci bagnano, traendo bagliori di luce e di speranza dal buio, come le grande mistiche.

In tal senso Veronica Tomassini è una mistica della scrittura, una testimone di fatti unici, oltre ad essere una scrittrice che ha un approccio cristiano alla vita e alla Storia: la sua penna è una spada con la quale affonda nella sofferenza umana per tentare di afferrare il mistero della vita che non sembra essere nefasto, nemmeno per i bevitori dei suoi romanzi immersi in un intreccio rovesciato, e in uno stile minimale, annebbiato, ma fulminante e lucido; si tratta di un realismo accompagnato da un piglio volutamente traballante e da atmosfere ed echi sacri quello della Tomassini, atto a raccontare gli emarginati dell’est che vagano verso il nulla. Figure di spicco sono un professore schizofrenico e una donna, voce narrante e alter ego della scrittrice, che narra dei miserabili slavi in un degrado senza tempo, perché sono le passioni e i desideri umani che hanno animato e animano la Storia non tanto la ragione che pure genera mostri e miseria prima di tutto ideologica ed intellettuale.

Tuttavia l’autrice conferisce dignità ai suoi slavi ubriachi, depositari del male che si riscattano infilzando metaforicamente la borghesia occidentale, le sue regole, la sua ipocrisia, i suoi interessi, il suo “buon” pensiero, le sue narrazioni epiche.

Risulta utile e calzante fare un riferimento alle parole di Dostoevskij nella lettera alla Fonvizina: «la verità si rende chiara nella disgrazia», la verità cioè si chiarisce nelle prove della vita. Veronica Tomassini sembra suggerire anche questo: scegliere Cristo e non una verità dimostrata, significa scegliere un incontro personale su questa via e non una dimostrazione logica, per quanto convincente. La verità non viene negata, ma ricollocata in modo diverso. È la persona che ci attira, non un argomento. D’altronde il Venerdì Santo, Gesù non saliva al cielo, ma scendeva agli inferi…

Non è un caso che, non considerata come giustamente dovrebbe, il romanzo d’esordio della Tomassini, Sangue di cane, è stato oggetto di studio, di un saggio (Righteous Anger in Contemporary Italian Literary and Cinematic, edito dalla Press University di Toronto, a cura di Stefania Lucamante), di corsi  e convegni, in diverse università americane.

 

La perfezione del dolore si sarebbe manifestata alla fine del tempo fissato per te e gli abitanti della casa costruita sulle maree. Una ciurma di sbandati con una sola aspirazione: disaffezionarsi alla vita. La vita, qualsiasi cosa volesse significare. Allora ti sembrava che fosse soltanto una questione di sottrazione, che la vita avanzava, togliendo. Nella forma più nobile, la vita sottrae. Il gesto divelto della prova. Riconsegna talvolta, anzi lo fa senz’altro, non quel che credevi, forse, o speravi. Ma è meglio, è peggio?

Veronica Tomasini

1 Quando ha capito che avrebbe voluto scrivere nella vita?

Non ricordo, a essere sincera. O meglio ricordo un tema in quinta elementare, sul tempo che passa, non che fossi una cima. Riuscì bene. Non so, tirai fuori frasi strane per una bambina, un colpo di fortuna. Poi penso ai diari che mi regalavano ai compleanni, diari inutili e con il lucchetto. Regali deludenti, pensavo con stizza. Cominciai a scrivere così, roba infantile, niente di che. Però quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande – ecco questo lo ricordo, ma non so spiegare la ragione – rispondevo: la giornalista o la scrittrice. Non la ballerina, chessò, la cantante. La congiunzione mi fa specie oggi, cioè è quel che ho fatto veramente nella vita. Ma lo dicevo senza convinzione. E la congiunzione era una disgiuntiva, bizzarro. Comunque leggevo molto, mi raccontavano molte storie, il nonno e lo zio umbri. Quanto mi piaceva. A cinque anni sapevo leggere, anche se non avevo ancora iniziato la scuola, conoscevo l’inglese, le canzoni di Franco Califano e di Fabrizio De André. A otto anni ho letto il diario di Christiane Felscherinow, “Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”. Lì è stata la deflagrazione, qualcosa di irreversibile. Oggi quel libro non supererebbe la decima pagina, un libro in qualche modo maledetto. Lo prestai a una compagna di liceo, non tornò più indietro. Scoprii il viso di Christiane molti anni dopo. A Christiane ho scritto una lettera. Da adulta. Mi ha letta. La compagna di liceo è morta in un incidente stradale. Mi sembrò un presagio. E pensai a quel libro.

2 Chi sono gli scrittori che hanno influenzato la sua scrittura e il suo pensiero?

I russi. Dostoevskij su tutti; Tolstoj, Gorki, Gogol, Cechov, ma anche Isaak Babel, Saul Bellow. Ai russi dobbiamo tutto, il pensiero russo. La grande letteratura è russa. Sì certo poi ho amato i naturalisti francesi, il neorealismo. Ho amato Pavese, Levi, Buzzati, Bonura, Pratolini. La letteratura americana del primo Novecento.

3 Cosa pensi dell’editoria italiana, come è stata la tua esperienza sotto questo punto di vista?

Difficile rispondere. Ho esordito ufficialmente nel 2010 con “Sangue di cane”, Laurana editore. Avevo però già pubblicato le cosiddette opere minori. L’esordio con “Sangue di cane” fu un caso letterario. Non so dire molto, sono povera in canna, malgrado l’exploit. Non so cosa dire dell’editoria italiana. Non è il mercato francese, ecco, se vogliamo buttarla lì. Il mercato francese che ancora tiene a distinguere l’aristocraticità della parola dal resto.

4 Cosa manca agli scrittori nostrani che però sembrano avere molto successo in termini di vendita? Come spiega certi fenomeni editoriali?

Non li spiego. L’imbonimento massificato, una specie di massive attack alla specificità elettiva di ognuno; il disorientamento indotto sottilmente, in gironi di fallibilità paurosi e che noi non vediamo, un’orchestra monotono che vuole confondere gli specchi, il bello con il brutto, la democratizzazione che diventa mediocrità, ma sempre dentro un’azione consapevole e utile a qualcos’altro, a un imbonimento appunto in pendant con buonismi vari. Siamo dentro la grande bruttezza. Siamo dentro un rincoglionimento collettivo utile ad atro, si forgiano non pensatori. Una “mariadefilippizzazione” estesa come unico manifesto su cui conformarsi. Questo è il meglio che abbiamo stasera? (cit.).

5 Veniamo al suo ultimo libro, Vodka Siberiana, come nasce questo titolo?

È un omaggio al bevitore, alla solitudine del bevitore. Il tributo all’empietà che diventa il fiore della compassione altrui e contiene salvezze recondite. Diceva Marek Hlasko che esiste una felicità grande e dolorosa; credo che si riferisse alla felicità del bevitore, nell’istante prima di crollare sotto lo sguardo sdegnato degli astanti, di solito di gran lunga migliori. “Vodka Siberiana” è la storia di una solitudine antica, ci riguarda tutti; ma io racconto i bevitori dell’est; vagabondi; malati di nostalgia.

6 Quali ritiene essere gli aspetti più attuali e quali invece quelli più classici del suo romanzo?

La solitudine dell’uomo. Il cardine attorno cui uno scrittore lavora, io penso.

7 Come si fa, quando si tocca il fondo, a risalire, a trovare parole adatte per chiamare le cose?

Si è sopravvissuti. Esserlo basta a tutto. Il dolore si trasforma, trasforma anche quel che guardi. Il dolore contiene la spiegazione segreta; piccoli brani da fissare; tenerli stretti al petto. La lucidità del dolore spalanca universi inauditi, apre gli oceani come il costato di una fiera.

8 È più abissale il dolore o la solitudine?

La solitudine. La solitudine senza Dio. La solitudine e basta. Ma senza Dio come si fa?

9 Nel suo libro racconta di un’umanità derelitta e disperata dove c’è spazio anche per la pietà. Bisogna vivere nonostante tutto, andare avanti come diceva Camus?

Andare avanti. Nonostante tutto. Nonostante tutto potrebbe diventare l’esortazione evangelica e cristica del non temere. Allora acquista un senso, il dolore lo è, alla fine e all’origine. Tutto inizia e finisce con il dolore se vogliamo: la nostra nascita, la nostra morte. E invece è solo un preludio: al risveglio, la Resurrezione. Malgrado ciò, non so davvero come “l’umanità derelitta e disperata” trovi umane forze per arrivare anche solo alla fine del giorno. Non so davvero. Tuttavia soltanto nei giorni in cui ho incontrato quel meraviglioso cesto di fiori che erano loro – i poveri, gli abietti, i disperati – ho imparato la felicità. Non ho mai vissuto di più. E non saprò mai tradurre quei giorni, solo il pensiero mi commuove. Ancora adesso mi chiedo: ma è esistito sul serio, tutto quel che hai visto, loro, quei giorni, quegli anni?

10 La razionalità può andare d’accordo con la poesia o quest’ultima reputa che sia troppo anarchica?

No, la razionalità è un deterrente.

11 Che visione ha della Storia?

La Storia è il segno di Dio sul destino di ognuno. Altrimenti è il caos di eventi che soffiano ferocemente sull’uomo senza annunciare. In definitiva si annuncia la stessa bella notizia, Il Figlio dell’Uomo. Anche alla fine di terrori, lustri di dittature e abomini.

12 Lei sonda il sottosuolo, ritiene come dice Rousseau nelle sue Confessioni che la malattia è inscritta fin dall’origine, ma che tale ferita, come sostiene Starobinski nel Rimedio nel male, mobiliti tutte le forze riparatrici? In questo processo secondo Lei conta di più la coscienza o il nostro livelli di civilizzazione?

Domanda complicata. Non so perché il mio sguardo finisca dove gli altri lo tolgono; dove per gli altri comincia il buio, per me inizia la luce. Non so spiegare la curiosità, la contingenza, il fatto che ci sia finita dentro. Sono solo una testimone.

13 Prossimi progetti?

Scrivere.

‘Resurrezione’ di Tolstoj, una lectio magistralis per Pasqua attraverso una storia d’Amore

È di un anno che precede il Novecento, l’ultimo romanzo dal titolo Resurrezione, del grande scrittore russo Lev Tolstoj, secondo alcuni persino superiore a Guerra e pace e ad Anna Karenina e basato su un episodio realmente accaduto al procuratore Koni, amico di Tolstoj.

L’incipit di Resurrezione tra i più esplosivi e seducenti della storia della letteratura –, travolgente, intimo, e denota un’inversione di tendenza, un cambio di passo rispetto a Guerra e pace, poema della Russia e dei suoi salotti, e ad Anna Karenina, tragedia della ricca donna vittima di quella smania di dolore e struggimento che spesso investe gli individui che hanno tutto dalla vita:

«Per quanto gli uomini, riuniti a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, cercassero di deturpare la terra su cui si accalcavano, per quanto la soffocassero di pietre, perché nulla vi crescesse, per quanto esalassero fumi di carbon fossile e petrolio, per quanto abbattessero gli alberi e scacciassero tutti gli animali e gli uccelli, – la primavera era primavera anche in città. Il sole scaldava, l’erba, riprendendo vita, cresceva e rinverdiva ovunque non fosse strappata, non solo nelle aiuole dei viali, ma anche fra le lastre di pietra, e betulle, pioppi, ciliegi selvatici schiudevano le loro foglie vischiose e profumate, i tigli gonfiavano i germogli fino a farli scoppiare; le cornacchie, i passeri e i colombi con la festosità della primavera già preparavano i nidi, e le mosche ronzavano vicino ai muri, scaldate dal sole. Allegre erano le piante, e gli uccelli, e gli insetti, e i bambini. Ma gli uomini – i grandi, gli adulti – non smettevano di ingannare e tormentare se stessi e gli altri. Gli uomini ritenevano che sacro e importante non fosse quel mattino di primavera, non quella bellezza del mondo di Dio, data per il bene di tutte le creature, la bellezza che dispone alla pace, alla concordia e all’amore, ma sacro e importante fosse quello che loro stessi avevano inventato per dominarsi l’un l’altro».

Il principe Nechljudov, protagonista maschile di Resurrezione, chiamato a decidere come membro di una giuria popolare della condanna di una prostituta, riconosce in lei la ragazza che aveva sedotto molti anni prima e, dopo aver assistito alla sua ingiusta condanna, matura la volontà di salvarla e di sposarla. Katjuša pare però rifiutare la proposta e le attenzioni del principe, il quale, divorato dal rimorso, decide di seguirla comunque ai lavori forzati in Siberia con l’immutato proposito di redimerla. Egli assisterà infine al riscatto della ragazza e troverà lui stesso, attraverso la lettura del Discorso della montagna di Gesù, la via per riscattare la propria anima.

Fu lo stesso Nechljudov causa della rovina esistenziale e morale della protagonista, sedotta, ingravidata ed abbandonata quand’era ancora una giovanissima e rispettabile fanciulla. La Maslova, divenuta ora una volgare prostituta alcolizzata, viene ingiustamente condannata ai lavori forzati per omicidio, e nel principe, che ha fatto parte della giuria popolare impegnata nella causa della donna, scatta qualcosa, una scintilla che presto assume le dimensioni di un incendio inestinguibile. Nechljudov vuole riscattare la propria colpa e redimere Katiuša, anche sposandola se necessario. Decide di prendersi cura di lei, di seguirla ovunque, anche in Siberia. Un mutamento incredibile, repentino e drastico, che lo porta a recidere con decisione i rapporti con l’alta e vuota società alla quale appartiene, avviene nell’animo del principe. Una resurrezione per entrambi i protagonisti del romanzo.

Resurrezione è un documento molto importante sull’evoluzione del pensiero dello scrittore russo. Anche lo stile è molto originale. Nonostante sia particolarmente intriso di ideologia, molti punti sono romanzeschi a livello magistrale, come le descrizioni dell’amore tra i due protagonisti quando erano giovani, le quali ricordano a tratti il Tolstoj di Guerra e pace e dei paesaggi, dei luoghi, della società russa dell’epoca.

Dopo essere giunto alla conclusione che non con la filosofia o le scienze, ma solo con la fede l’uomo può sperare di comprendere il senso ultimo dell’esistenza, Tolstoj si applica a trovare un modo per conciliare fede e ragione. Egli vuole una fede che risulti chiara per la ragione umana, anzi, che in un qualche modo dipenda dalla ragione: «Io voglio comprendere – scrive Tolstoj, – in modo tale che ogni proposizione inspiegabile mi si presenti come una necessità della ragione». E ancora:

La rivelazione non può essere fondata sulla fede come la concepisce la Chiesa: credere in anticipo a quanto mi verrà detto. La fede è una conseguenza, pienamente soddisfacente per la ragione, dell’inevitabilità, della verità della rivelazione. La fede, nella concezione della Chiesa, è un obbligo, riposto nell’anima umana a forza di minacce e di ammonizioni. Nella mia concezione la fede è tale perché è vero il fondamento su cui si fonda ogni attività razionale.

Benché Tolstoj, accanto alla volontà di carpire con la ragione la fede, affermi anche la necessità di sottomettersi alla volontà divina, ci troviamo davanti ad una contraddizione solo apparente: anche questa necessità infatti può essere compresa dalla ragione.

Lo sforzo del principe, il quale, dopo aver letto il Vangelo, non chiude occhio per tutta la notte, è direzionato alla ricerca di Dio, della vera fede e del giusto modo di vivere. Anche quando non è possibile individuare un tale percorso, il motivo centrale di questo, come di altri romanzi di Tolstoj è strettamente legato a problemi religiosi e morali.

Come narra lo stesso Tolstoj, al principe è successo quello che spesso succede a chi vive di solo intelletto, ovvero che un pensiero che inizialmente ci appare come un paradosso, finisce poi per diventare una verità semplicissima ed evidente: <<No, non è possibile che la cosa sia così semplice>>, dice ad un certo punto tra se Nechljudov e conviene che se esistono una società ed un ordine relativo è perché ci sono ancora uomini che hanno compassione e amore per i loro simili, non perché ci sono giudici e legislatori che condannano.

 

 

Fonte: Academia.edu

‘Anja, la segretaria di Dostojevskij’ di Giuseppe Manfridi sarà presentato a Roma il 17 novembre prossimo

Il 17 novembre prossimo, nella sede della Casa Editrice La Lepre, in via delle Fornaci 425 a Roma sarà presentato il romanzo Anja, la segretaria di Dostoevskij dello scrittore Giuseppe Manfridi (Edizioni La Lepre, Collana Visioni).

Giuseppe Manfridi, già co-sceneggiatore del film Ultrà (Orso d’Argento nel 1991, con la regia di Ricky Tognazzi, al Festival di Berlino), e già selezionato due volte per il Premio Strega, è scrittore e autore teatrale rappresentato in Italia e all’estero. Tra le sue commedie di maggior successo ricordiamo: Giacomo il prepotente (1989), Ti amo Maria! (1990), Zozòs (1994), La cena (in scena dal 1990). Il debutto nella narrativa lo vede subito nella dodicina dello Strega 2006 con Cronache dal paesaggio (Gremese 2006), evento che verrà replicato nel 2008 con La cuspide di ghiaccio (Gremese).

Di recente ha pubblicato Filastrocche della nera luce. Cronache dalla Shoah (La Mongolfiera 2018). Nel 2016 ha pubblicato nelle nostre edizioni Anatomia della gaffe e, nel 2017, Anatomia del colpo di scena.

Alcune pagine del libro verranno interpretate dall’autore insieme a Ivana Lotito, volto noto al grande pubblico soprattutto per il ruolo di Azzurra della serie televisiva Gomorra, nonché protagonista principale, con la regia di Claudio Boccaccini, di Anja, nella commedia a firma dello stesso Manfridi.

Bastano ventisei giorni a trasformare una adolescente in una moglie?
Questa la domanda della Lepre che immediatamente inquadra uno dei temi cardine di questo libro. Anja. La segretaria di Dostoevskij racconta, infatti, l’incontro tra Dostoevskij e la giovane stenografa che sposerà. Siamo a San Pietroburgo anno 1866. Lo scrittore quasi cinquantenne Fëdor Michajlovič Dostoevskij è afflitto dall’epilessia e reduce dall’aver firmato un contratto-capestro col suo mefistofelico editore: si è impegnato a consegnare un nuovo romanzo nell’arco di un mese.

In caso contrario perderà i diritti su tutte le sue opere passate e future. Consigliato dagli amici, si rivolge a una scuola di stenografia che gli mette a disposizione la migliore delle sue allieve: Anja Grigor’evna, una graziosa adolescente curiosa del mondo, che ha ereditato dal padre la passione per la letteratura. Fra i due, in ventisei giorni, nascerà un amore estremo a dispetto dello scandaloso divario di età. Anja rimarrà la fedele custode dell’opera di Dostoevskij fino alla propria morte, avvenuta trentasette anni dopo quella del marito.

Vera Macchina del Tempo, il romanzo di Manfridi sonda il legame profondo che si stabilì tra Dostoevskij e Anja nel breve tempo della stesura del Giocatore, restituendoci, con una scrittura straordinariamente evocativa, atmosfere, clima e persino odori e rumori della Pietroburgo del XIX secolo.

‘Parla, ricordo’, l’autobiografia (rivisitata) di Vladimir Nabokov: la felice fanciulezza in un mondo scomparso

Lo splendido stato di conservazione di questo Quaderno della Medusa è solo apparente: lo si deve al fatto che è stato conservato, chissà perché, con una sopracopertina di carta da imballaggio, come si faceva un tempo con i libri di scuola e, come quelli, si è conservata come nuova la sola copertina, mentre le pagine interne sono macchiate, così come il taglio ingiallito rivela la sua vera età: 56 anni. Davvero sorprendente questa collana, Quaderni della Medusa, nata nel lontano 1934, come la sua verde sorella, più grande di un paio di anni, deve la moderna eleganza grafica alla genialità dell’illustratore Bruno Angoletta (1889-1954); la nuova collana raccoglieva saggi, biografie, epistolari, diari di viaggio di scrittori e pensatori illustri oggi dimenticati: Huxley, Zweig, Maurois, Mauriac, ma anche Kafka (Confessioni e Immagini n. 47), questa di Nabokov è la n. 55. La collana concluse il suo ciclo nel 1967 con il volume n.75 Susan Sontang Contro l’interpretazione, purtroppo oggi introvabile.

Vladimir Vladimirovič Nabokov (1899-1977), in questa sorprendente autobiografia, che è per struttura e linguaggio un vero romanzo, dove il tempo – a cui l’autore dichiara di non credere – è il vero protagonista, si trasforma nello sconcertante reporter della propria vita, che seguiamo con autentica emozione. Il futuro autore di Lolita era nato in una nobile famiglia di San Pietroburgo, la cui casa natale è oggi sede di un Museo Letterario, a lui dedicato; figlio di un politico liberale deputato alla Duma, Vladim Dimitrievič, che fu ucciso nel 1922 a Berlino, quando protesse col proprio corpo l’amico Pavel Miljukov, obiettivo dell’attentato.

Con la «singolare nitidezza» di qualcosa che si vede dall’altro capo di un telescopio, minuscolo ma provvisto dello smalto allucinatorio di una decalcomania, Nabokov ha lasciato affiorare dalle pagine di questo libro la sua fanciullezza nella «Russia leggendaria» precedente alla rivoluzione, troppo perfetta e troppo felice per non essere condannata a un dileguamento istantaneo e totale, sospingendo poi il ricordo fino all’apparizione dello «splendido fumaiolo» della nave che lo avrebbe condotto in America nel 1940. «Il dettaglio è sempre benvenuto»: questa regola aurea dell’arte di Nabokov forse mai fu applicata da lui stesso con altrettanta determinazione come in Parla, ricordo. Qui l’ebbrezza dei dettagli che scintillano in una prosa furiosamente cesellata diventa il mezzo più sicuro, se non l’unico, per salvare una moltitudine di istanti e di profili altrimenti destinati a essere inghiottiti nel silenzio, fissandoli in parole che si offrono come «miniature traslucide, tascabili paesi delle meraviglie, piccoli mondi perfetti di smorzate sfumature luminescenti». Compiuta l’operazione da stagionato prestigiatore itinerante, Nabokov riarrotola il suo «tappeto magico, così da sovrapporre l’una all’altra parti diverse del disegno». E aggiunge: «E che i visitatori inciampino pure». Cosa che ogni lettore farà, con «un fremito di gratitudine rivolto a chi di dovere – al genio contrappuntistico del destino umano o ai teneri spettri che assecondano un fortunato mortale».

L’infanzia che Vladimir Nabokov ci racconta è incantevole, fiabesca: si svolge tra il sontuoso palazzo di famiglia in via Morskaj, attualmente Museo Letterario, e la residenza estiva nella grande tenuta nel distretto di Carskoe Selo, dov’era anche la residenza estiva degli zar, ma lo si incontra anche all’estero dove l’Europa aristocratica, biancovestita ama trascorrere le vacanze nei luoghi più esclusivi, tra Antibes e Baden-Baden, fruitori di villeggiature eleganti e serene. E’ ad Antibes che, a dieci anni, Nabokov incontra una bambina e se ne innamora, si chiama Colette. Che si tratti della famosa Colette, la futura autrice di Chéri, della indimenticabile serie di Claudine e di Le blé ed herbe? Ma Colette è nata 16 anni prima di Nabokov.

Stupisce la ricchezza del linguaggio di Lolita; considerato che l’autore non era di lingua madre. L’autobiografia ci svela che il giovane Vladimir apprese a leggere e scrivere in inglese prima che in russo, dai numerosi istitutori e istitutrici avuti nell’infanzia. E veniamo dell’antisovietismo di Nabokov. Sei nato da una antica famiglia nobile, vivi negli agi più esclusivi in un momento storico in cui la maggioranza dei tuoi concittadini soffre la miseria più nera, fai parte di un ristretto gruppo di intellettuali in contatto con l’Europa, tuo padre è un politico liberale, deputato alla Duma che appoggia il governo Kerensky, è normale che quando trionfa la Rivoluzione d’Ottobre, ti toglie tutti i privilegi e ti costringe alla fuga, non è che puoi amarlo il regime comunista! Ma Nabokov lo chiarisce: non è questione di rubli:

Il brano che segue non è destinato al comune lettore, ma a quel singolo idiota che, per aver perduto un patrimonio in un crac finanziario, crede di potermi capire.
La mia antica ostilità (risale al 1917) contro la dittatura sovietica, è del tutto indipendente da ogni questione di proprietà. Il disprezzo che io nutro per l’èmigré de Kichovski, il quale “odia i comunisti” perché gli “rubarono” il denaro e le terre, è assoluto. La nostalgia che ho provato e avuta cara in tutti questi anni è una sensazione ipertrofizzata della fanciullezza perduta, e non dolore per la perdita delle banconote. E ancora:

Datemi qualsiasi luogo, su un qualsiasi continente, che assomigli alla campagna pietroburghese, e il mio cuore si scioglie all’istante.

Notevole per l’inquietudine che genera, l’incipit del libro:

La culla dondola su un abisso, il buonsenso ci dice che la nostra esistenza è soltanto un fuggevole spiraglio di luce tra due eternità di tenebre. Benché le due eternità siano gemelle identiche, l’uomo, di norma, contempla l’abisso prenatale con più serenità di quanto non contempli quello verso il quale è diretto (a circa quattrocentocinquanta battiti cardiaci orari).

http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/

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