Ricordando Thomas Mann, mediatore tra Vita e Spirito

Thomas Mann (6 giugno 1875 – 12 agosto 1955) ha inscritto la propria complessa letteratura nel territorio della vita, in cui tutti noi ci riconosciamo, perché è un territorio ermetico, tra non-essere-ancora e non-essere-più. Di questo regno intermedio, demonico, mutevole, l’arte si fa espressione, a volte anche contro le taglienti pretese dello spirito.

L’ermetismo di questo straordinario mediatore lunare tra vita e spirito, autore del romanzo-saggio, si rifrange nei molteplici volti dei protagonisti delle sue opere maggiori: da Thomas Buddenbrook a Tonio Kröger, da Giuseppe a Felix Krull, da Gustav von Aschenbach a Adrian Leverkühn, i quali rappresentano una fantasmagoria delle sue controfigure più o meno parziali, fantasiose o ideali.

Thomas Mann e la Germania

Andando oltre i dibattiti sul romanzo ‘ottocentesco’ di Mann, o sulla sua idea perenne di borghesia, oppure sui suoi rapporti con lo spirito tedesco, si potrebbe partire, in occasione dell’anniversario della sua nascita, da una constatazione riguardo lo scrittore tedesco e nello specifico la sua produzione letteraria da parte del filologo ungherese Kerényi nel carteggio con Thomas Mann: “una grande entelechia con inclinazione mitologica, anzi con indole mitologica, con i tratti maliziosi di un essere ermetico”

La cifra spirituale e letteraria più originale di Mann, che è il suo lascito, può essere colta nel suo carattere ermetico.

Ma come viene visto oggi Thomas Mann? Quale potrebbe essere la più giusta definizione?

L’ermetismo di Thomas Mann

Seguendo le considerazioni di Kerenyi, Thomas Mann è visto come colui che, «in questo settore del mondo umano, nel regno intermedio tra vita e morte, si muoveva come i Greci reputavano che si muovesse il loro dio Hermes. La realtà psichica del dio Hermes […] consisteva nella possibilità (che però corrisponde anche adun’altissima facoltà spirituale) di trovarsi a casa propria persino in quel regno».

Se esiste un testo letterario in cui è rappresentata la “superiore realtà” di Hermes, questo è senza dubbio La montagna incantata dove il ludus viene scoperto, e il mistero rivelato proprio dall’autore nell’ultima pagina del romanzo, quando afferma che la storia di Hans Castorp forse non fu esemplare, ma nemmeno inutile: fu “una storia ermetica”

La politica

Il primo Mann, quello che arriva fino alle geniali e deliranti Considerazioni di un impolitico dove si chiede: Cos’è lo spirito tedesco? Come può esprimersi sotto la forma del borghese? E che rapporti ha con l’umanesimo? è quello che ritorna nel Doktor Faustus nel quale emerge come lo spirito tedesco sia pessimista.

Il “pessimismo” ha un’origine e una valenza ben precisa, in quest’ambito culturale; ne sono figli Nietzsche, Wagner e lo stesso Thomas Mann.

Questa origine si trova in Schopenhauer. Mann, in quanto romanziere “ottocentesco”, delinea consapevolmente la sua discendenza: «per quanto è essenziale al mio spirito, io sono un vero figlio del secolo nel quale cadono i primi venticinque anni della mia vita, il diciannovesimo […]. Romanticismo, nazionalismo, borghesia, musica, pessimismo, umorismo, questi elementi che erano sospesi nell’atmosfera del secolo passato sono anche le componenti principali e impersonali della mia esistenza»

Il pessimismo borghese

Un altro aspetto importante della letteratura di Mann è il “fattore morale” borghese che riguarda non solo l’uomo d’affari, ma anche l’artista, lo scrittore, come Mann chiarisce a proposito di se stesso: «in contrasto con quello meramente estetico, con la contemplazione edonistica della bellezza, anche col nichilismo e col vagabondaggio all’insegna della morte, è propriamente un sentirsi borghesi, ossia cittadini della vita, è la sensibilità per determinati doveri vitali […], a recare un apporto produttivo alla vita e al suo sviluppo; è ciò che impone all’artista di non concepire l’arte come una dispensa assoluta dalle responsabilità umane, di fondare una casa, una famiglia, di dare una base solida, decorosa, non trovo altra parola, borghese, alla sua vita spirituale, per avventurosa che essa sia»

La ‘borghesia’ nasce dunque in reazione a questo presentimento pessimistico del vuoto e dell’infondatezza.

La teologia

E la teologia? Per disquisire di quest’altro importante aspetto nell’opera di Thomas Mann, bisogna fare riferimento al Doktor Faust, e allo studio di Maar il quale in un articolo del 1989, ha annesso alla “costellazione” del romanzo un altro nome significativo, quello di Gustav Mahler, di cui ha studiato la posizione in tutta l’opera di Thomas Mann.

Il fatto che la posizione di Mahler nel Doktor Faustus sia sfuggita a numerosi critici prima di Maar come Adorno, è dipeso in parte da due fattori: le modalità della sua “apparizione” e la falsa constatazione che ne ha impedito il riconoscimento. Maar ha dimostrato con prove incontestabili (una fotografia posseduta da Thomas Mann e la descrizione che il romanziere aveva dato di Gustav von Aschenbach in Morte a Venezia) che il diavolo con cui Leverkühn discute lungamente nel capitolo XXV del romanzo e che, dopo una prima trasformazione, assume certi pensieri adorniani sulla crisi della musica e sulla sua “impossibilità” nella situazione storico-sociale “moderna”, non assume affatto i tratti fisici di Adorno, come generazioni di critici avevano sostenuto, bensì quelli di Gustav Mahler.

L’attualità di Thomas Mann

Di cosa ci parla oggi Thomas Mann, l’uomo che era spaventato dal caos del mondo e che seguiva gli eventi del suo tempo con la stessa puntigliosità utilizzata per comporre i suoi romanzi, era un testimone sempre vicino agli eventi e sempre dentro i dibattiti culturali e politici che li accompagnavano?

Soprattutto che la sua Montagna non è incantata come molti pensano, ma magica, in quanto essa può suscitare incanto, “ma anche sortilegio e maleficio” e del resto “nel corso della narrazione si assiste ad una vera e propria iniziazione”, quella che Mann fa sperimentare a Hans Castorp e della sua progressiva “salita” agli inferi e la cui conclusione è segnata da quell’“orribile danza” e da quella “voluttà smaniosa e maligna” che è la prima guerra mondiale, sui cui campi intrisi di sangue si compirà il sacrificio del protagonista.

Ascendenze freudiane

Mann ci parla di tendenze civili e demoniache presenti nell’uomo: ascendenze freudiane dunque e della potere che ha un grande evento storico di scuoterci. Di teologia, di passione, do sagacia, di filosofia contemporanea, della necessità di dare credito al temo, alla sofferenza, alla gioia; nel caos della vita.

Nonché le seguenti parole contenute in Considerazioni di un impolitico, lui che era antinazista ma anche radicato nella contraddizione:

“Non solo non penso che il destino dell’uomo si esaurisca nell’attività pubblica e sociale, ma addirittura trovo quest’opinione disgustosa e inumana”; “Amore! Umanità! Li conosco, quel teorico amore e quella dottrina umanitaria, professati a denti stretti per provocare un senso di ribrezzo nel popolo…. Tremenda, certo, è la guerra. Se però nel vivo della guerra il letterato politico si mette in posa e proclama di sentire nel petto il respiro d’amore dell’universo, questo è il più spaventoso degli spaventi e insopportabile”.

La personalità dunque nasce da un conflitto e la si ha quando si è qualcuno, non quando si hanno opinioni. Pensiero tagliente ed estremo, inconcepibile per chi accoglie solo l’ovvio e per chi non è uno spirito libero; questo sembra essere uno dei lasciti più importanti e al contempo urticanti del mago Thomas Mann.

 

https://zeitblatt.com/remembering-thomas-mann-mediator-between-life-and-spirit/

 

“Doppio sogno” di Schnitzler, il romanzo breve che ha dato vita ad ‘Eyes wide shut’: una lettura psicologica

Doppio sogno è un romanzo breve del 1925 dello scrittore tedesco Arthur Schnitzler. Questo piccolo capolavoro narra del rapporto complesso tra un medico e sua moglie. Sono una coppia giovane e felice, però lui rimarrà turbato, dopo che si raccontano l’un l’altra fantasie e segreti, che prima di allora avevano tenuto per sé. All’inizio viene descritta una scena, simbolo di un atmosfera borghese e rassicurante: la loro figlia piccola, a cui viene letta una fiaba dai genitori, viene poi messa a letto dalla governante.

 

Doppio sogno: trama e contenuti

 

Ma il giovane medico Fridolin deve uscire quella sera per recarsi da un paziente, che versa in gravi condizioni. Una volta giunto a destinazione trova l’uomo già morto e viene sedotto dalla figlia del defunto davanti alla salma. Dovrebbe tornare a casa, ma finisce per vagare tutta la notte. Si fa sedurre da una passeggiatrice, che lo porta nella sua casa, ma con cui non conclude niente. Entra in un caffè notturno e qui incontra un suo vecchio compagno di università, che ora fa il pianista.

Quest’ultimo gli racconta che quella stessa notte dovrà suonare ad una festa da ballo con gli occhi bendati, anzi riesce a guardare “nello specchio attraverso il fazzoletto di seta nera che copre gli occhi”. Non conosce i partecipanti della festa mascherata, né il proprietario. Fridolin rimane affascinato dalla strana storia ed esprime il desiderio di voler entrare nella villa dei misteri. Il pianista gli risponde che deve procurarsi un saio scuro ed una mascherina nera. Il medico allora si reca dal mascheraio, dove ha modo di imbattersi nella piccola Pierette, forse una pazza, che viene sorpresa con due signori nel negozio.

Fridolin riesce ad entrare nella villa, ma viene smascherato. Sapeva la parola d’ingresso, ma non la parola d’ordine della casa. L’attende una punizione estremamente severa, forse dovrà pagare con la vita stessa, ma una donna lo riscatta e si dichiara di tutti. Successivamente scopre che la donna, che si è sacrificata per lui, ha pagato con la vita. Nonostante il medico viva queste esperienze al limite da solo, va detto che nelle donne, che incontra, ricerca sempre ossessivamente la moglie.

Una lettura psicologica

Doppio sogno è stato reso famoso dalla trasposizione cinematografica di Kubrick dal titolo Eyes wide shut”. Il film però non è totalmente fedele al libro. Kubrick infatti ambienta la vicenda nella New York dei nostri giorni, mentre invece nell’opera originale ci imbattiamo nella Vienna di fine secolo. L’alta società di Vienna in quel periodo si dedicava all’edonismo sfrenato con frequenti feste di ballo, perché non voleva affrontare direttamente i grandi cambiamenti culturali, sociali e politici di quell’epoca di transizione. Schnitzler prende spunto da questo atteggiamento mentale, assai diffuso al tempo, per indagare sulla natura umana e sui meandri della psiche, riuscendo ad esplorare zone d’ombra che nessun altro scrittore era mai riuscito a cogliere pienamente.

L’interrogativo di fondo di Doppio sogno è se sia opportuno dirsi tutto tra coniugi, rivelarsi anche le fantasie più inconfessabili o se sia meglio far prevalere il non detto. La scelta cruciale è tra l’incomunicabilità all’interno della coppia e quella che lo psicologo Bergler definiva “la delusione rispetto all’ideale dell’io”.

Quest’ultima espressione significa che una persona può subire una ferita nell’animo, constatando lo scarto significativo tra l’idealizzazione del partner e l’effettivo modo di essere della persona amata. Come se non bastasse la rivelazione di fantasie sessuali può far scaturire la gelosia da parte di entrambi.

Nell’opera di Schnitzler il protagonista Fridolin, dopo aver ascoltato le fantasie ed i sogni della compagna, subisce uno smacco notevole, sia perché capisce la complessità delle dinamiche del desiderio femminile, sia perché implicitamente ritiene scontato un monopolio sessuale nei confronti della moglie, ritiene di avere un diritto di proprietà su di essa. Lo stesso sentimento di gelosia che prova è difficile da decifrare: è un impasto, una commistione tra desiderio di possesso esclusivo e angoscia per una possibile separazione dal proprio oggetto di amore. Ma quando una coppia inizia un percorso di conoscenza e di autoanalisi così intimo il rischio è che uno dei due scambi le fantasie dell’altra metà per tradimenti effettivamente avvenuti e mascherati sotto forma di desideri mai messi in pratica. Schnitzler è geniale ad evidenziare le contraddizioni insanabili all’interno della coppia.

Tra Freud e Adler

Questa opera di Schnitzler potrebbe essere interpretata secondo certi criteri freudiani. Ma è altrettanto vero che Schnitzler non fu mai debitore di Freud. Entrambi giunsero alle solite conclusioni, però tramite mezzi diversi: Freud con l’analisi, l’artista con “l’autopercezione”.

Freud nei “Tre saggi sulla teoria sessuale” sostiene che “l’occhio è come il corrispondente di una zona erogena”. Il piacere di guardare non è altro che una pulsione parziale secondo Freud, che può avere come antagonista solo la vergogna ed il pudore. Il protagonista di “Doppio sogno” è preso dal piacere di guardare tutte le donne nude alla festa mascherata, però questo voyeurismo sconfina e si sublima nell’epistemofilia (nel desiderio di conoscere e di indagare la realtà). Il medico Fridolin infatti vuole conoscere i propri recessi psichici, le fantasie erotiche della moglie e vuole sapere chi sono le persone che hanno partecipato alla festa. Non a caso l’ultima parte del libro tratta proprio dell’investigazione privata del medico per smascherare i responsabili di quell’orgia.

Da notare inoltre il conflitto intrapsichico del protagonista maschile tra erotismo e pulsione di morte: da una parte questa forza primaria che dovrebbe unire e legare e dall’altra una tempesta che dissolve le relazioni e distrugge i legami.

Infine un’ultima considerazione: Schnitzler con questo libro sembra volerci dire che fare un’analisi dei desideri all’interno di una coppia non è detto che sia un requisito indispensabile per due sposi, anzi talvolta può rivelarsi controproducente ed inquietante.

Lo stesso Adler, fondatore della Società di psicologia individuale, riteneva che la cooperazione fosse un presupposto fondamentale per il benessere della coppia piuttosto che il soddisfacimento della pulsione sessuale o lo scandagliare i desideri repressi dell’altra metà. Ognuno dei due partner, secondo lo psicologo austriaco, deve sentirsi parte di un tutto, deve imparare a fare le cose in due, nonostante che la società educhi al lavoro individuale e raramente al lavoro di gruppo, ma mai al lavoro di coppia.

I matrimoni infelici nascono quando uno dei due vuole sempre ricevere qualcosa, senza dare niente in cambio. Per Adler quindi il matrimonio è un compito comune. Emblematica a questo riguardo la singolare tradizione in una regione della Germania, che ci narra Adler. Per testare se dei fidanzati possono realizzare un matrimonio felice devono segare insieme un tronco d’albero con una sega con due manici. Per realizzare efficacemente questo lavoro ci vogliono coesione ed affiatamento; infatti se i due non si agiscono in modo sincronico e complementare non concludono niente.

Per Adler quindi è fondamentale la cooperazione, piuttosto che il sesso ed i desideri sessuali. E non è assolutamente detto che ricercare la cooperazione sia più difficile che trovare la fiducia reciproca per svelare le proprie fantasie.

 

Di Davide Morelli

‘L’eletto’, un Thomas Mann inedito che si ispira alla letteratura medievale germanica

“Anche tu appartieni all’umanità, anche se tutto non è nell’ordine”.
Thomas Mann, L’Eletto.

Opera tarda (1951) del premio Nobel Thomas Mann, L’eletto affonda le sue radici nell’affascinante letteratura medievale di tradizione germanica e, in particolare, nel Gregorius di Hartmann Von Aue, poema venato di leggenda sulla vita di papa Gregorio Magno. Il taglio che l’autore de I Buddenbrook ha dato al suo Gregorio è però ben diverso rispetto a quello del suo antico connazionale.

Messo da parte il turgore dell’èpos religioso, il grande scrittore tedesco, gioca tanto con la lingua (che compone e ricompone in un caos ordinato di latino, francese e tedesco, rammentando i giochi dell’Eco più medievalista) quanto con le situazioni iperboliche e paradossali che popolano tutto il romanzo, strappando ai lettori più attenti perfino qualche sorriso, soprattutto nella critica al potere religioso e temporale.

La vicenda narrata è presto chiara: un Edipo papa (nella fattispecie Gregorio) al posto di un Edipo re. Gregorio è infatti incestuosamente e inconsapevolmente sposato con la propria madre ed è a sua volta prodotto di un incesto fra sua madre e il proprio fratello gemello. Di fronte a ciò perfino le relazioni pericolose di Beautiful sembrano essere roba per dilettanti. Gregorio trascorre l’intera vita a espiare le sue colpe e di riflesso quelle degli altri suoi familiari; è un peccatore che si abbandona interamente alla volontà di Dio fino alla mortificazione totale del suo corpo e della sua mente.

Infine sarà proprio Dio ad affidarsi a lui per illuminare la strada dei fedeli alle prese con papati litigiosi e licenziosi. La vena ironica che pervade il romanzo è brillante e quasi inesauribile, pur mantenendosi discreta e sapientemente adombrata dai topoi classici della narrativa medievale. Tra un pegno d’amore e una professione di fede, L’eletto ci mostra un Mann inedito, meno complesso ed elaborato rispetto alle sue opere principali, ma ugualmente ispirato e sostenuto da una verve beffarda che raramente appare nella sua pur vasta produzione.

L’Eletto, appena duecentocinquanta densissime pagine, sia per il messaggio profondo (si tratta dell’ultima opera di Thomas Mann, una sorta di testamento spirituale) sia per lo stile; relativamente poche pagine ma diversi piani di lettura e un mirabile intreccio dei Mythos che pervadono la coscienze e l’anima collettiva dell’uomo europeo ed occidentale: quello giudaico-cristiano, quello greco e quello norreno. Tutto incastonato in una novella ispirata al poema epico medioevale “Gregorius von Seine” di Hertmann von Aue. Il piano simbolico è semplicemente spettacolare.

Dunque si tratta di una rielaborazione dell’Edipo Re sofocleo in chiave cristiana che pone in relazione la colpa e l’espiazione, la speranza e la redenzione. Una redenzione che secondo Thomas Mann è figlia della misericordia divina che trasforma provvidenzialmente il male in bene. Un tema questo già affrontato da giganti della letteratura universale; basti pensare a “La leggenda di san Giuliano l’ospitaliere” di Gustave Flaubert oppure, per venire ai giorni nostri, a Le Benevole di Jonathan Littell, tutto giocato – attraverso mille indizi – come una risposta allo stesso Thomas Mann di questo romanzo per arrivare a conclusioni filosofiche opposte rispetto al grande scrittore di Lubecca.

Una novella o, se si preferisce, un romanzo breve di Thomas Mann che attraverso la narrazione e i suoi simboli ci porta ad affrontare temi spirituali di enorme spessore e che ci interroga sulla nostra natura profonda e sul fine ultimo della nostra esistenza.

Echi, miti classici e simbologia ne “La morte a Venezia”

La morte a Venezia (1912) è l’opera di Thomas Mann più ricca di echi classici in quanto la passione omoerotica del Professor Aschenbach affonda le sue radici in un substrato cosmico, anteriore al concetto cristiano di peccato, che Platone ha espresso nel Convivio e nel Fedro.

Nel capitolo III il protagonista non appena si accorge dell’assenza di Tadzio, lo paragona ad un piccolo Feace e recita tra sé un verso dell’Odissea: “Continuo cangiar d’ornamenti  e bagni tiepidi e sonno…” Il capitolo IV si apre con un esordio epico: “E si sentiva come trasportato nel suolo esilio, ai confini della terra”. Nel suo delirio Aschenbach, per scacciare l’immagine di un torbido e peccaminoso eros, identifica se stesso con Socrate e Tadzio con il giovane interlocutore del filosofo, Fedro, quando ormai Socrate è vicino alla morte e rivolge ad un Fedro immaginario un discorso dove il concetto platonico non riesce a giustificare il senso di colpa sofferto dalla coscienza lacerata da un desiderio proibito.

Mann, durante gli anni della genesi del romanzo, si era documentato scrupolosamente al punto che quando nel capitolo III, un ragazzo di nome Jascio bacia Tadzio, Aschenbach lo indica tra sé e sé con il nome di Critobulo, storico bizantino che si sottomise a Maometto II. Tale riferimento risulta incomprensibile se si ignora la fonte, i Memorabili di Senofonte dove si cita l’episodio di Critobulo che aveva baciato il figlio di Alcibiade. Dice Senofonte: “Ma ti do un consiglio Senofonte: quando vedi un bello fuggi a tutta corsa; e a te Critobulo, consiglio di star lontano per un anno: nel frattempo potreste forse guarire dalla ferita”. Ed ecco le parole di Mann: “Quanto a te, Critobulo”, pensò sorridendo, “ascolta il mio consiglio, va’ in viaggio per un anno. Ché meno di tanto non ti occorre per risanare”.

Tadzio, contemplato da Aschenbach ha “una testa da Eros, dalla lucentezza dorata del marmo pario” ma non resta statico nella fantasia dell’innamorato che lo tramuta in una creatura mitica che in un’età favolosa ha anticipato i suoi gesti. Ad un certo punto egli prende la figura del giovane e ne fa un modello di un’idea letteraria: quando Tadzio gioca con la palla, si immedesima in Giacinto colpito a morte dal lancio di un disco; quando Tadzio gli sorride, rivive in Narciso che si specchia nella fonte; e mentre Aschenbach di fronte al mare china il capo sul petto e muore, gli sembra che da lontano il ragazzo gli accenni di seguirlo tramutato in Ermes, il dio che conduceva le anime nel regno dei morti. Il racconto, dunque, si snoda solo dalla visuale di chi idealizza l’amato e insegue le inquietudini di un’anima sovraeccitata, tutta rinchiusa nel suo mondo interiore, incapace di uno sguardo disincantato sulla realtà circostante.

Per quanto riguarda il paesaggio, Venezia è percepita da Aschenbach nell’aspetto più cupo di città in decadimento, soffocata da un clima afoso e luogo dove imperversa il colera. I presagi di morte che segnano l’ultimo viaggio del protagonista, non si manifestano solo a Venezia. Lo sconosciuto che incontrato a Monaco davanti al cimitero, ha tratti comuni con il finto giovanotto del battello e con il gondoliere, tutti e tre sono messaggeri dell’ignoto e la loro funzione si preannuncia evidente dal loro fisico: i denti sporgenti fino alle gengive, il loro biancore, che alludono alla mandibola corrosa di un teschio; senza contare l’affinità della gondola nera con la bara sottolineata da Mann. Durante il tragitto sulla barca Aschenbach pensa che quell’uomo sospetto potrebbe anche spedirlo direttamente nell’Oltretomba; il gondoliere non aspetta il compenso perché esercita il suo mestiere abusivamente, in questo modo la figura di Caronte si sdoppia nella sua.

Elementi mitici e simbolici dunque si alternano nel contesto de La morte a Venezia, si richiamano l’uno all’altro e accompagnano la vittima fino all’epilogo; alla vicenda borghese la narrativa di Mann è sempre rimasta fedele sia nei romanzi di vasto respiro come I Buddenbrook, La montagna incantata, il Dottor Faust, che nei romanzi brevi, da La morte a Venezia che accoglie in sé i motivi più importanti della sua problematica giovanile, fino a L’inganno, ultima opera di Mann che, nonostante il parere contrario dell’autore, ha in comune con la vicenda di Aschenbach il tema della simbiosi tra amore e morte.

 

Bibliografia: T. Mann, La morte a Venezia, Prefazione a cura di R. Fertonani.

 

Lo specchio nello specchio, il labirinto di Michael Ende

Lo specchio nello specchio di Michael Ende esce nel 1983 seguendo il suo precedente capolavoro La storia infinita. Lo specchio nello specchio raccoglie diversi racconti scritti dall’autore nell’arco di un decennio. Questa raccolta di novelle è in parte ispirata all’opera del padre, Edgar Ende, pittore surrealista; il volume accoglie trenta racconti tutti ammantati da una violenta carica onirica, l’atmosfera però è raramente serena e quasi sempre è colma di un’angoscia prepotente e paradossale.

I racconti de Lo specchio nello specchio sono tutti mancanti di titolo (nell’indice infatti sono indicati con le parole iniziali) si presentano come il convergere e il ramificarsi confuso, potente e irrisolto di pulsioni e suggestioni, mescolati al sogno e all’indefinitezza. Tutte le tematiche affrontate non sembrano mai esplorate con lucidità e con rigore piuttosto sono fatte letteralmente esplodere nei loro tratti più bizzarri e infiniti: il passar del tempo, la ricerca dell’identità, il dolore e la nostalgia, le occasioni perdute, la morte e la vita. L’impalcatura dei racconti assume spesso una connotazione teatrale; i personaggi dai funamboli agli angeli, ai demoni, alle donne obese, ai dittatori si muovono come in un palcoscenico attraversando deserti, cattedrali o semplici stanze. Tutte le storie siano esse poetiche, assurde, stravaganti, surreali o spaventose chiamano il lettore ad un compito: fare da specchio, appunto, alle immagini proposte ed elaborarle attraverso i propri ricordi, i proprio sogni e le proprie esperienze.

Emblematica eppure ugualmente incomprensibile la presenza di una rete di rimandi tra un racconto e l’altro, costruita su allusioni e riprese, che anch’essa incoerente e caotica, confonde ancor più e più che chiarire un eventuale senso nascosto, conduce ad un naufragio sicuro.

Numerosi poi sono i riferimenti anche se poco determinati a tradizioni culturali eterogenee come Ebraismo, Cristianesimo, Taoismo e antichità classica. Questo libro è stato spesso giudicato di minor pregio rispetto ai romanzi Momo (1981) e La storia infinita (1986); certamente si tratta di uno scritto  difficile ma proprio per questo non lo si può giudicare inferiore. Sulla copertina del libro si legge: «Un labirinto. Soltanto chi lascia il labirinto è felice, ma soltanto chi è felice può uscirne». Una frase enigmatica ma che ci dona la chiave per entrare nella storia ed, eventualmente, per uscirne. Se ci si lascia sedurre dal labirinto non c’è modo di trovare il senso, per capire, bisogna uscire. Sembra il monito di una maestro zen o quello che qualche anno prima, nel 1962, ha indicato Italo Calvino in uno dei suoi saggi. La sfida al labirinto: «Resta fuori chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo alla loro difficoltà; ed è dunque una richiesta poco pertinente quella che si fa alla letteratura, dato un labirinto, di fornire essa stessa la chiave per uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita». Questo ci propone Michael Ende: una sfida al labirinto, qualcosa che salvi e non qualcosa che ci fa arrendere.

Addio a Gunter Grass, sguardo dolente sul mondo contemporaneo

Si è spento lunedi 13 aprile 2015, a 87 anni, a Lubecca, lo scrittore Premio Nobel Günter Grass, coscienza critica della democrazia tedesca dopo la tragedia del nazismo e voce della generazione che ha ereditato le atrocità del nazismo. Poeta, scrittore, saggista, drammaturgo e scultore, Grass era nato Danzica nel 1927, dove, tra 1946 e 1947, ha lavorato in una miniera e ha imparato a scolpire. Ha studiato scultura e grafica, prima a Düsseldorf, presso l’Accademia delle Belle arti, poi a Berlino. Dal 1983 al 1986 è stato presidente dell’Accademia delle arti di Berlino.

Per la sua opera letteraria ha ricevuto dozzine di premi internazionali, tra i quali il Premio Grinzane Cavour nel 1992 e il premio Nobel nel 1999 perché «era come se alla letteratura tedesca fosse stato concesso un nuovo inizio dopo decenni di distruzione di linguistica e morale».
L’indimenticabile Il tamburo di latta (che insieme a Anni di cane e a Gatto e topo costituisce la trilogia Danzica) è, come ha scritto Dario Fo“libro eccezionale in cui c’è disperazione, forza, ironia” e racconta la storia del bimbo-nano Oskar Matzerath, vero anticipatore del Sessantotto, che ci lascia percorrere, attraverso la sua dura vicenda familiare, la storia di Danzica, luogo multietnico in cui polacchi, tedeschi e kashubi convivono tra tensioni e fatiche. Da Diario di una Lumaca ad Anestesia locale, da Il rombo al Passo del gambero, Grass ha raccontato con tenacia e sincerità le ambiguità e le contraddizioni della Germania moderna, conferendo ai suoi personaggi una dimensione non solo politica ma anche filosofica-letteraria pessimistica, tutta tedesca.

Sguardo dolente sul mondo contemporaneo, intellettuale spesso criticato per le sue posizioni politiche, di tedesco di una certa sinistra occidentale (lo scrittore non ha mai visto di buon occhio l’unificazione della Germania), Gunter Grass è stato pienamente un figlio, infantilmente arrabbiato, del suo tempo, nato dalle colpe della Germania della quale non poteva non incarnare tutte quelle contraddizioni e quelle difficoltà che hanno costituito l’essenza del secondo dopoguerra. Nei suoi libri si fondono le lacerazioni dell’animo tedesco e la forza visionaria di radice polacca e slave, le note espressioniste fosche unite all’ironia, ci hanno regalato una scrittura magmatica e ricca, realistica ma anche deformata e ossessiva. Il narrare di Grass è metaforico di una realtà che non riesce a fare i conti col proprio tragico passato, che vuole dimenticare ma che rivive e che si scontra costantemente tra desideri e incertezze. C’è sempre tutto questo nei suoi libri, una lunga geniale e forse mai conclusa analisi di come la guerra ha cambiato la Germania e il mondo e una voglia di non arrendersi ad un mondo dominato dagli altri e da persone che non sanno vivere.

‘Tonio Kröger’, la ricerca di se stessi secondo Mann

L’estate è ormai finita, e si porta via la corsa ai romanzi rosa da leggere sotto all’ombrellone. L’autunno ormai si avvicina, portando con sé la voglia di qualcosa di più impegnativo da leggere davanti al fuoco.  Qualcosa di più impegnativo potrebbe essere un premio Nobel per la letteratura, come Thoman Mann.

Troppo impegnativo, forse? Prendiamo Die Buddenbrook. Non sono in molti quelli che se la sentono di affrontare tale capolavoro. Ma la letteratura non permette di scappare, ti viene a cercare e ti tira attraverso il cuore, sulla strada che devi percorrere. Se non si è ancora pronti per la sua opera maggiore, si potrebbe cominciare con un romanzo breve del 1903, Tonio Kröger, una storia fortemente legata al periodo in cui è stata scritta ed alla vita del suo autore, ma che, leggendola con attenzione, si lega fortemente ad ogni tempo ed alla storia di ogni aspirante scrittore, musicista, pittore; alla storia di ogni artista.

Tale romanzo ha come sfondo, anche se non viene mai citata, la città di Lubecca, la stessa de I Buddenbrook. Se nella cornice esterna del racconto Mann si è richiamato allo stesso luogo natale, nel definire il carattere del suo protagonista, ha accentuato rispetto a Hanno Buddenbrook, il processo di assimilazione autobiografica. Come Mann, Tonio ha una madre brasiliana dalla quale ha ereditato i capelli bruni e la passione per la musica.

La vita del giovane ipersensibile Tonio (figura nella quale si possono immedesimare molti adolescenti introversi ed inquieti) viene utilizzata da Mann per descrivere una scissione interiore comune a entrambi autore e personaggio, tema caldo a inizio Novecento a causa degli scritti del filosofo Nietzsche: la distanza tra l’arte e la borghesia. Tonio Kröger è figlio di padre console e di madre artista esotica. Egli descrive così la sua esistenza, dopo un lungo viaggio dentro e fuori i confini fisici e mentali del suo corpo: “Io sto tra due mondi, di cui nessuno è il mio, e per questo la mia vita è un po’ difficile”.

Il sentimento che prevale nelle parole di Tonio,  ricalcando il pensiero dell’autore, è un senso di lontananza e casta invidia, una spaccatura tra due modi di essere non conciliabili in un unico uomo. Oggi, il concetto di borghesia appare in qualche modo sbiadito e superato, lo si incontra solo sparso nei libri di storia, non nel vivere quotidiano; lo si potrebbe sotituire con quello di società di massa.

Tonio bambino si sentiva diverso e lontano dai biondi occhi azzurri suoi coetanei; oggi lo studente che sente bruciare in sé il fuoco dell’arte sarà probabilmente vittima di bullismo e si sentirà alienato dagli standard seguiti a testa bassa in periodo adolescenziale dai più.

Tonio Kröger è la storia dell’arte che nasce sia dall’inadeguatezza che dal senso di isolamento che prova chi esce dal sentiero tracciato dall’indifferenza quotidiana della nostra società. È un romanzo, o meglio una prosa lirica per chi ama l’arte, i Bildungsroman, le riflessioni. Ma soprattutto è una storia per chi cerca di non dar voce alle proprie inclinazioni; per chi lotta contro se stesso, nascosto e impaurito.

Tonio Kröger, che l’autore considerava una delle sue opere più riuscite, racchiude nella sua brevità quelli che sono i motivi chiave della narrativa del grande scrittore tedesco: il contrasto arte-vita e quello spirito-natura. Tonio, come abbiamo detto, è ostile alla natura della gente comune, sana ma ottusa davanti agli ideali più sublimi. Il primo capitolo infatti termina con queste parole, in riferimento al protagonista:

“Allora viveva il suo cuore: lo struggimento lo abitava e una malinconica invidia, un tantino di sprezzo e una grande casta felicità”.

 

E l’ultimo:

“Non vituperate questo amore Lisaveta: è buono e fecondo, nostalgia e malinconia vi si trovano, e un tantino di sprezzo e una grande casta felicità”.

 

La ripetizione quasi integrale significa che il Tonio Kröger è un’avventura dell’anima che non esce da se stessa: Mann indaga su se stesso per accettarsi, dispiegando il proprio fascino nella descrizione intimistica dei turbamenti delle speranze, delle illusioni e delusioni adolescenziali, quando Tonio crede di poter piegare Hans alla sua amicizia e Inge al suo amore attraverso la poesia.

Per la prima volta Mann, come ha affermato lui stesso, inserisce in un’opera la musica come elemento stilistico formale. Tuttavia anche in questo che doveva essere un romanzo confessione-autobiografica, Mann non identifica se stesso con il protagonista, evitando il questo modo di aver scritto un libro di ricordi, soprattutto grazie all’uso dell’autoironia, rivelatrice di qualcosa che va oltre ad un semplice bisogno tecnico del realista Mann che probabilmente vuole  nascondere della materia scottante che gli si è imposta con tanta urgenza, pensiamo anche al protagonista, il musicista Aschenbach di  Morte a Venezia che aveva il terrore dei contatti fisici e olfattivi.

 

 

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