‘Il silenzio’, l’ultimo capolavoro apocalittico pop di Don DeLillo ambientato durante la pandemia

La fine di un mondo passa sempre per i suoi contrari, perciò non bisogna meravigliarsi se per lo scrittore statunitense Don DeLillo a spegnere la civiltà umana così come la conosciamo sia il silenzio, che poi forse non sarebbe una cosa malvagia. Sembra essere proprio questa la chiave di lettura principale dell’ultimo romanzo di Don De Lillo, Il silenzio, 2020.

Manhattan, 2022. Una coppia è in volo verso New York, di ritorno dalla loro prima vacanza dopo la pandemia. In città, in un appartamento nell’East Side, li aspettano tre loro amici per guardare tutti insieme il Super Bowl: una professoressa di fisica in pensione, suo marito e un suo ex studente geniale e visionario. Una scena come tante, un quadro di ritrovata normalità. Poi, all’improvviso, non annunciato, misterioso: il silenzio.

Tutta la tecnologia digitale ammutolisce. Internet tace. I tweet, i post, i bot spariscono. Gli schermi, tutti gli schermi, che come fantasmi ci circondano ogni momento della nostra esistenza, diventano neri. Le luci si spengono, un black-out avvolge nelle tenebre la città (o il mondo intero? Del resto come fare a saperlo?) L’aereo è costretto a un atterraggio di fortuna. E addio Super Bowl. Cosa sta succedendo? È l’inizio di una guerra, o la prima ondata di un attacco terroristico? Un incidente? O è il collasso della tecnologia su se stessa, sotto il proprio tirannico peso? È l’apparizione di un buco nero, l’aprirsi di una piega dello spazio e del tempo in cui le nostre vite scivolano inesorabilmente? Di certo c’è questo: era dai tempi di Rumore bianco che Don DeLillo non ci ricordava con tanta accecante precisione che viviamo, disperati e felici, in un mondo delilliano.

Vera protagonista del romanzo è la teoria dell’apocalisse che De Lillo ha affidato al suo editore poco prima che la pandemia prendesse il largo: a marzo le ultime bozze, qualche giorno dopo i lockdown in tutto il mondo. In America Il silenzio è uscito a ottobre per Picador; resta inedito in Italia dove arriverà per Einaudi a febbraio 2021, un romanzo brevissimo in cui assistiamo al blackout della nostra tecnologia digitale in un ipotetico 2022, nel giorno del Super Bowl, giornata evento per gli americani. Ma non è un libro dagli intenti profetici come ha spiegato lo stesso autore al Guardian: “È solo una storia ambientata nel futuro”.

De Lillo si sforza poco di spiegare cosa sia veramente successo al mondo dei suoi personaggi. La catastrofe è al cuore della trama ma non lo sono le sue cause. Quel che DeLillo vuole mostrarci è la reazione umana allo spegnimento delle cose: quel rumore digitale che permea le nostre vite e a cui inconsapevolmente non solo siamo dipendenti, ma anche, in una certa misura, legati ormai culturalmente e persino a livello intellettivo.

Protagonisti del Silenzio sono alcuni intellettuali di classe medio alta che gradualmente si radunano a casa di due amici, dove avrebbero dovuto seguire la partita e dove invece lo schermo del televisore è morto dopo aver trasmesso un ultimo misterioso segnale. Una volta caduto il silenzio digitale (muta la radio, inerti gli smartphone) i presenti, sebbene in compagnia, si isolano in lunghi monologhi, solo in parte filosofici e più spesso sconnessi. Si parlano addosso ignorando gli altri nella stanza, come se d’improvviso non fossero più capaci di comunicare tra loro senza la mediazione di un dispositivo elettronico.

Il silenzio è un capolavoro della non scrittura, delle pause e delle cesure tra le parole, il subconscio implicito che, quando viene meno la base, il terreno comune che ci rende animali sociali che condividono le stesse passioni, non riesce ad innalzarsi come coscienza di massa, in quanto inadatto e superato per gestire i pezzi di un mosaico che compongono il vivere comune.

Quali sono i potere e allo stesso tempo i pericoli della modernità? Senza qualcosa da guardare, da ascoltare, se non digitiamo, chattiamo, creiamo una storia su Instagram, noi non siamo più niente. Sono solo parole nel vuoto, pensieri vagabondi. Silenzio, appunto.

Il nuovo romanzo minimale di DeLillo ha uno stile scarno, mostrando ancora una volta come la scrittura di dell’autore di Underworld sia cambiata, non servono più paragrafi, frasi elaborate e articolate. Solo delle parole, leggere che ci indicano la strada, la nostra strada.
Il modo di scrivere di DeLillo è diventato olografico, per consentirci di scandagliare le ombre della nostra coscienza e di vivere anche noi il vissuto dei suoi personaggi.

Come ha acutamente rilevato Paolo Latini  (tenutario del Blog Americanorum), qui ancora più che in altre sue opere abbiamo personaggi che parlano una lingua peculiare, il DeLilliano, e questo concorre a creare un insieme di dialogo e sequenze probabilmente inconfondibili, quasi al limite della auto-parodia: cultura pop, frasi spezzate, frasi fatte e riflessione sulle stesse, filosofeggiare, calchi e mixaggi di alto e basso.

Proprio in questa estremizzazione di un linguaggio volutamente artefatto, il libro clamorosamente funziona e funzionano spunto e ambientazioni, che impropriamente hanno fatto pensare a un romanzo sulla pandemia e sul lockdown. Più suggestivamente e apocalitticamente si immagina invece una New York dove tutta la tecnologia (tutta!) smette improvvisamente di funzionare, e un insieme di cinque personaggi principali intrappolati (o forse compiutamente liberi) in questo nuovo (provvisorio?) paradigma.

 

Fonte: L’apocalisse di Don DeLillo

‘Cronache quotidiane’ di Giuseppe di Matteo: un caleidoscopio dalle mille sfaccettature

Cronache quotidiane, edita da Les Flâneurs Edizioni, è l’ultima silloge poetica del giornalista barese Giuseppe di Matteo. A breve distanza da Frammenti di un precario, uscito nel 2019, di Matteo regala un nuovo scritto uscito il 18 maggio, quando ancora tutti erano rintanati a  casa a causa della pandemia.

 

Cronache quotidiane: Sinossi

Cronache quotidiane consta di 147 componimenti, in forma di frammenti.

L’emergenza Coronavirus ci ha costretti a restare a casa e a cambiare radicalmente le nostre abitudini. In tanti, com’era prevedibile, hanno cominciato a rimpiangere la loro vita (e il mondo) di prima. Ma si stava davvero meglio? E in che modo la quarantena forzata ci ha cambiati? Giuseppe Di Matteo prova a entrare nelle viscere del Belpaese e a raccontare ciò che vede lasciandosi guidare dalla scia dei suoi frammenti, strumento di cui da tempo non riesce più a fare a meno. E già prima della fine del viaggio si materializza un inquietante interrogativo: ne usciremo davvero migliori?

La pandemia, il dramma che ne è scaturito, l’isolamento, sono solo le premesse dalle quali il giornalista parte per costruire la sua antologia poetica. Il filo su cui viene intessuto l’intera raccolta è quello ermetico: frammenti brevi, a volte crudi e severi, ma intrisi di significati. “La sua poesia rappresenta un ermetismo 2.0 dallo stile elegante, garantendo la continuità con la tradizione degli Ungaretti e dei Quasimodo scrive Annibale Gagliani nella prefazione al libro.

 

Era l’Italiain cui non si usciva più.

Ogni tanto incontravo

un uomo in fuga

con la spesa della sua prigione.

 

Tutto andrà bene

come una preghiera

la mattina presto

e un bacio di caffè

sulla guancia del giornale.

alla poetessa autrice del primo post it “Tutto andrà bene”

 

Attaccata al tuo camice in trincea

è la vita di un pianto

e di un gioco da bambini

di tutti noi.

all’infermiera di Cremona, stremata dal sonno dei giusti, con riconoscenza

 

I versi sullo scrittore non sono circoscritti solo intorno a questo periodo storico. Leggendo la raccolta si ha l’impressione di guardare all’interno di un caleidoscopio. Come lo strumento ottico, anche Cronache quotidiane è un avvicendamento di luci, colori ed immagini diverse.

Tra le pagine ci si imbatte in riflessioni sul razzismo, morti sul lavoro, sfruttamento dei lavoratori, violenza, caporalato, migranti, ipocrisia di guarda ma non agisce e menefreghismo di chi governa. Virus altrettanto fatali per il nostro animo e nocivi per la nostra terra che ormai ospita creature inumane.

“Non cerca scorciatoie, Di Matteo: va dritto al centro del dolore, delle storie, dando voce agli invisibili, ai dimenticati, agli emarginati. La sua è una poesia civile. Dura, coraggiosa, necessaria. Giuseppe di Matteo non smette di essere cronista nelle sue vesti di poeta. Si immerge nell’attualità e ci offre il suo sguardo, attento, severo, dolce, spietato, sulle vicende di ogni giorno. Su questo tempo presente, in cui ci sentiamo tutti coinvolti e smarriti” scrive Darwin Pastorin nella postfazione

E quando si ha l’impressione di essere entrati in un vortice di pessimismo, degli spiragli di speranza si aprono al lettore, come la cura più efficace: la poesia:

 

Parlare con la carta

il mio rito più sano.

E poi fuggire

da un mondo che uccide

con parole di pietra

che hanno smarrito il confine.

Entrate in libreria

uno alla volta

e saccheggiatela

con quegli occhi di fame

che avete dimenticato.

 

la cultura;

Entrate in libreria

uno alla volta

e saccheggiatela

con quegli occhi di fame

che avete dimenticato.

 

e l’Amore:

Niente baci

abbracci, strette di mano

incontri nei luoghi affollati.

Su un lembo di terra

intanto si spara: l’Europa

si è ammalata. E non esiste

vaccino, se non l’Amore.

 

E come se lo scrittore nel mettere nero su bianco le sue riflessioni avesse soffiato sulla pagina regalando cristalli: pietre che ogni lettore raccoglierà e dove specchiandosi ritroverà un po’ di sé: “Non vi stancherete mai. Perché ci siete voi, ci siamo tutti noi in questi limpidi e taglienti versi. È questo il compito della poesia: raccontarci la vita in ogni suo spigolo, in ogni sua sfumatura, deve confortarci, essere arte maga, ma anche farci del male, colpirci alla bocca dello stomaco, nel cuore, deve lasciarci cicatrici per farci comprendere e rinascere” aggiunge Pastorin.

 

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