Per alcuni aspetti la filosofia della scrittura di Derrida presenta alcune assonanze con quella dell’ultimo Wittgenstein, con il quale concorda sul fatto che il significato delle parole dipende da come queste sono scritte e pronunciate, crede che il modo di capire noi stessi e il nostro linguaggio cambino con il passare del tempo. Una delle parole di Derrida è différance, differanza, ogni cosa è diversa da ogni altra e nessuna parola usata due volte mantiene lo stesso significato. Derrida decostruisce le teorie classiche e fondazionali della filosofia, da Platone ad Heidegger, sino allo strutturalismo. È il decostruzionismo.
Anche Derrida non confida in un linguaggio unico e con Rorty considera la filosofia un genere di scrittura come altri, ma la pratica decostruttiva di Derrida è radicale (tanto che un filosofo come Feyerabend lo definisce un ottenebratore).
Derrida può richiamare alla memoria l’ultimo Wittgenstein, quello dei giochi di parole, ma è egli stesso a prendere le distanze da quest’ultimo paradigma possibile. Derrida definisce i suoi esercizi di scrittura non giochi di parole ma fuochi di parole, per bruciare i segni sino ad incenerirli, in modo che possano essere usati una sola volta. Si tratta di allontanarsi dalla filosofia intesa come logocentrismo, dal primato della logica.
Ne La pharmacie de Platon è ripreso il mito proposto da Platone nel Fedro, ove attraverso il mito di Thamus e Theuth (il dio Theuth offre il dono della scrittura al faraone Thamus che rifiuta, preferendogli la parola), si attua il rifiuto della scrittura per inaugurare quello che sarà un motivo dominante della filosofia occidentale: il logocentrismo, o metafisica della presenza.
Per Derrida la parola come presenza, come suono, ha dominato la filosofia e la cultura occidentale in contrapposizione alla scrittura, che invece produce negazione della presenza, assenza. Mentre la parola si connette direttamente all’anima, la scrittura è sconnessa e indiretta, risulta poco riconoscibile persino a colui che l’ha prodotta. Derrida si riferisce a un parricidio da parte del testo nei confronti del suo autore.
La parola come voce, fonema è la coscienza stessa e la scrittura gli si contrappone.
L’écriture non lascia nulla oltre i propri margini, non vi sono significati primi da raggiungere attraverso di essa, perché essa è l’unica realtà e ciò che può fare è compiere un’opera di disseminazione dei significati. C’è la distinzione tra libri, espressione della voce dell’autore, e testi, irriconoscibili e neutrali.
Dati questi sviluppi del percorso derridiano viene spontaneo riconoscere una presa di distanza dalla concezione heideggeriana dei fonemi come parole magiche epocali, ma ciò non significa che la proposta di Derrida non sia per Rorty ancora fondazionalista, portandoci dalla parola come presenza alla scrittura dell’assenza. E anche Derrida dissemina il suo cammino intellettuale di parole pesanti come differanza, decostruzione, disseminazione, traccia.
Nel caso del neologismo différance (non différence) avviene in maniera apparentemente casuale e attraverso una ricerca sui termini originali in latino (differre) e greco (diapherein). Sicché différance indica la differenza comunemente intesa, ma anche (dal latino) il differire temporalmente, il rinviare. Dunque un termine spazio-temporale e non precisamente un concetto. Questa differanza indica l’assenza della presenza, il fatto che si usi un segno che sta a indicare la disconnessione spazio-temporale tra esso e la cosa indicata, una presenza rimandata, differita. Così Derrida intende i segni come distanti sia dall’idea scientifica di “segno corrispondente a”, sia dal profondismo heideggeriano del fonema magico. Dunque l’origine è sempre elusa, sta da un’altra parte, non ricongiungibile al segno. Ciò che rimane è la traccia dell’origine perduta, non l’origine stessa.
A sfavore delle argomentazioni non metodiche di Derrida, Rorty sostiene l’impossibilità di un superamento della metafisica continuando a discuterne. Difficile confrontarsi con la metafisica senza prenderne in considerazione i temi, legittimandoli una volta in più.
Oltre a questo Rorty non comprende in che modo termini come différance o trace potrebbero riuscire laddove dasein o aletheia hanno fallito e fa notare come questi termini non assomiglino ai giochi di parole di Wittgenstein e siano diventati termini normali anche nei dipartimenti accademici di filosofia.
Allo stesso tempo i testi derridiani rischiano di porsi nei confronti del lettore come dei codici indecifrabili, entità vagamente minacciose e indomabili. E vi è persino la proposta derridiana, mutuata da Antonin Artaud, di concepire le parole scritte alla maniera dei geroglifici egizi. Il geroglifico come origine che rifiuta qualsiasi altro segno, nel consueto rapporto tra segno e significato e che difende la fisicità del linguaggio.
In generale, per Derrida, si fa strada l’esigenza di non imporre una teoria interpretativa per dominare il testo, meglio lasciare che sia questo a dominare noi e a suggerire come avvicinarci ad esso. Su questo, da propugnatore del linguaggio d’uso, Rorty propone un paragone provocatorio e abbastanza efficace, sostenendo che sarebbe come se l’uso che facciamo del cacciavite, avvitare le viti, fosse imposto dal cacciavite stesso.
Inoltre, per Rorty decostruire la metafisica è compito sostanzialmente inutile.
La proposta rortiana è quella di non affannarsi a epurare la cultura da termini come metafisica, anima, mente, linguaggio, realismo, idealismo ma di continuare a farne uso, senza per questo drammatizzarli e farne delle ipostasi. Al massimo possiamo dimenticare, pensare ad altro.
Rorty segue l’evoluzione degli scritti di Derrida e nota come questi talvolta sia vicino alla realizzazione del superamento, laddove i suoi testi assumono come toni dominanti l’enigmaticità e lo scherzo e, dunque, l’alleggerimento, come ad esempio nella Carte Postale (Envois).
Habermas, nel suo Discorso filosofico della modernità, pone Derrida tra i neonietzschiani e postmoderni assieme a Rorty, Lyotard e Foucault.
A lato, la questione del postmodernismo in filosofia è posta con la Condizione postmoderna di J. F. Lyotard; in quest’opera si osserva come i diversi saperi non trovino più un collante comune in una qualche metanarrazione condivisa universalmente.
Del moderno non si accettano: visione globale del mondo, legittimazioni filosofiche, fiducia nel corso progressivo della storia in vista dell’attuazione di idee, metalinguaggi, saperi fondazionali; vi sono invece la consapevolezza dell’esistenza di una società complessa e plurale, l’amore per il citazionismo e una concezione ristagnante del tempo.
Molti postmoderni paiono confidare in una dimensione laterale, un’essenza decorativa e perifericache lascia tracce della propria evanescenza. Un’esistenza rimandata a un momento che non verrà, come per la différance derridiana.
Rorty da parte sua usa poco il termine postmodernismo, considerandolo oramai abusato e poco utilizzabile. In particolare i suoi dubbi non possono che derivargli da quel proposito di andare oltre la storia, che deve sembrargli un altro trucco per evocare criteri astorici per la risoluzione di problemi filosofici.
Rendere più labili le frontiere tra la scienza e l’arte non ha lo scopo di porre fine a entrambe a vantaggio di un brodo primordiale indifferenziato. Rorty non intende scrivere da una dimensione parallela a questa, di questo preciso momento storico. Il desiderio è quello di mettere in relazione le diverse discipline e poter vivere in un mondo in cui ogni persona sia libera di ricrearsi attraverso il proprio linguaggio.
https://www.riflessioni.it/angolo_filosofico/rorty-06-decostruzionismo-postmodernismo.htm