Moriremo eleganti! La tirannia della mediocrazia in tutti gli ambiti del vivere civile

L’anno scorso è stato pubblicato il saggio di un filosofo canadese saggiamente intitolato Mediocrazia, ma non è del libro che si vuole parlare, semmai del titolo. La mediocrazia come cifra del nostro tempo, il trionfo o anzi la tirannia della mediocrità in tutti gli ambiti del vivere civile. Gli esempi abbondano, non è difficile individuarla in ogni ambito della vita pubblica, dalla inappellabile medietà della politica alla generale incuria della produzione artistica e letteraria, per non parlare della volgarizzazione della lingua parlata e scritta, della condotta pubblica e privata, dell’abbigliamento e dell’oggettivo decadimento dell’architettura. Materiale di scarto, riciclo di avanzi estetici e politici presentati come novità. Ci siamo dentro tutti, nessuno escluso. Philippe Daverio, uomo d’eleganza sopraffina, ha definito il nostro tempo l’epoca del trash:
Il trash è una cosa semplicissima: è l’opposto della complessità. Si prende un tema, lo si riduce al minimo dei suoi contenuti e quando si è superato il minimo di tollerabilità del banale, la sua capacità di comunicazione diventa vastissima.
Portare un tema qualsiasi alla portata di tutti, indistintamente, operando solo con la carta vetrata fino a mostrarne le ossa e iniziando poi a rosicchiare anche quelle. L’intento fu nobile: rendere la complessità alla portata dei semplici. Peccato però che la realizzazione si è rivelata un disastro: invece di abituare ed educare alla complessità, si è ridotta questa ai minimi termini fino a non renderla più concepibile se non come affettazione, come posa o atteggiamento di aristocratica alterità.

Poco tempo fa un insegnante di scuola media si trovò a leggere dei temi scritti da ragazzini degli anni Quaranta e a paragonarli a quelli dei suoi studenti. Il confronto fu impietoso. Non solo l’abisso di distanza nella padronanza dell’italiano, nella costruzione dei periodi e nell’uso dei vocaboli, ma soprattutto un’incomparabile superiorità nella complessità dello sguardo sul mondo: in un tempo in cui l’analfabetismo era ancora dilagante e le opportunità d’accesso agli strumenti culturali molto più scarse, emergeva una visione delle cose molto più matura e articolata. Ancora, pochi giorni fa il neo Presidente della Camera è stato ritratto sull’autobus in mise da impiegato comunale, incolta barba sale e pepe a incorniciare l’espressione istrionica da tribuno della plebe, mentre il deputato presidente la seduta d’insediamento non si è neppure degnato di indossare una modesta cravatta – almeno in Senato è obbligatoria. Uno di noi, anzi uni di noi, uomini del popolo. Ma chi fa maggiormente la posa: l’elegantone che può permetterselo attenendosi a un codice, che sia anche personalissimo, o il finto proletario che sbaraglia volutamente le convenzioni risultando fuori luogo?
Sempre a Roma, l’originale biglietteria della stazione Termini, costruzione razionalista in vetrocemento dal profilo ondulato che segue fedelmente i resti dell’aggere serviano, le prime mura romane, site proprio lì accanto. Un edificio grande, luminoso e spazioso, dal quale i passeggeri in attesa potevano ammirare i resti antichi rimanendo nel tempo moderno, nel caldo di una struttura che rende omaggio al genio latino e ne segue le forme, quasi a rappresentare la continuità e la memoria viva dell’arte classica. Oggi l’atrio pullula di box metallici; negozi e biglietterie hanno schermato la luce solare richiedendo l’installazione di luci artificiali e la vetrata che dà sulle mura serviane – l’incastonatura plastica tra passato e presente – è completamente ostruita da un negozio a due piani della Nike. Sono immagini, solo immagini di una mutazione in atto, quella che Massimo Mantellini in un libro ha chiamato Bassa risoluzione, ossia la tendenza dell’apparato tecnologico a sostituire beni e servizi esistenti con altri di sempre minore qualità.

Tutto si fonde in questa nostra modesta e scalcagnata argomentazione: da un lato la tirannia della mediocrità in senso culturale, dall’altro l’epopea del trash nel pubblico dibattito e nell’arte, infine la bassa risoluzione di beni e servizi, necessari e superflui. Il lettore mi scuserà se la trattazione sembra sconclusionata e confusionaria ma tale è nella realtà, poiché il mutamento è ancora in corso e delinearne nettamente i contorni è difficile e azzardato. Questo sincero scoramento nei confronti dell’esistente nasce dall’osservazione di quante belle cose o idee o luoghi incantevoli vengano insozzati dalla volgarità e dalla sciatteria, senza ragione apparente; di quanto la bellezza venga deturpata dall’incuria e dal disinteresse. Forse più d’ogni altra cosa si impone la mediocrità estetica, una lenta e inarrestabile accettazione di tutto quanto sia brutto, mal fatto, dozzinale, scadente e volgare – nelle cose come nelle persone. La domanda che monta è: siamo in grado di concepire veramente il bello, premesso che non si lascia categorizzare? Quella bellezza che il principe Mishkin de L’idiota di Dostoevskij evoca nel dire il mondo lo salverà la bellezza, dove la красота (krasotà, la bellezza) è da intendersi come grazia, nell’ampia accezione di unione tra buono e bello. La grazia che per Agostino è pulchritudo dei, dove la pulchritudo è attributo delle fanciulle, l’armonia delle forme.

È allora la grazia, fusione di armonia e virtù, che potrà mai salvare il mondo, non di certo la bellezza, indefinibile e sfuggente, legata a canoni estetici passeggeri e strutturali. Ebbene questa grazia si fa molta fatica a trovarla. Fare bella tv è impossibile, comanda l’audience; fare bella prosa è controproducente, si viene tacciati di ermetismo ed elitismo letterario; bella musica men che mai, va per la maggiore il polpettone commerciale; vestirsi bene diventa altezzosità, eccesso da gagà; parlare bene è da cattedratici, basti osservare come stona qualche bella parola nelle nuove piazze pubbliche, i social network, colmi di volgarità, insulti e bestemmie; arredare bene una casa è riservato ai ricchi (che spesso si affidano a architetti, dimostrando l’assenza di gusto) mentre il vulgus è costretto a comprare mobili in cartone compresso nei grandi magazzini; elaborare idee politiche fini e passionali condanna all’irrilevanza, la politica è mutata nel consenso per slogan. Basta così, credo che il concetto sia chiaro, allungare l’elenco ci condannerebbe alla deprimenza.

Quanta difficoltà nella distillazione del gusto, quanta fatica nel rovistio tra la spazzatura, alla ricerca di qualcosa di veramente bello… Un tempo era l’omologazione il cruccio degli intellettuali, l’appiattimento delle masse su unico canone estetico e linguistico: palazzi quadrati, jeans, neon, capelloni, televisione, politichese, Fiat 500, Sophia Loren, ecc. Roba per noi vintage. Pasolini denunciava la perdita di tradizioni secolari e dialetti, di usi popolari e costumi regionali, della bellezza selvaggia del popolo non corrotto dall’industria e dalla scolarizzazione, mentre gli alfieri del progresso proponevano di educare il volgo, di avvicinare le masse all’élite culturale e economica attraverso l’istruzione diffusa, la cultura di massa, la moda semplice, lo stile di vita piccolo-borghese e nazional-popolare. L’effetto collaterale è stata l’emergenza di una larga schiera di cafoni arricchiti e la compressione verso il centro di modi e mode, nonché la perdita del gusto: da un lato del gusto contadinesco per le cose semplici, dall’altro del gusto artificioso per le cose complesse, a tutto vantaggio di un indistinto non-gusto universale e industriale.
Già Longanesi sessanta anni fa ci avvertiva che

non c’è più fantasia, i nuovi ceti non sanno che farsene della fantasia. I grandi problemi della produzione, i monotoni miti dei nuovi ceti non tollerano più la fantasia. Tutto è destinato a ubbidire alle leggi del peso e della quantità. Oggi si procede soltanto a miliardi e tonnellate. (…) Si tende a mettere tutto in scatola: idee, frutta, sentimenti, carne. Non c’è posto per la fantasia, che è figlia diletta della libertà.
E il gusto è figlio della fantasia o della tradizione, entrambe agonizzanti. In una parola, ciò che si stenta a incontrare è l’eleganza, che non è la formalità.

Oggi che l’omologazione è stata superata si è giunti all’omogeneizzazione e – se mi è concesso – definirei la nostra come l’epoca della marmellata, che è sempre uguale a se stessa, la consistenza non cambia mai, il colore è uniforme da qualsiasi parte la si guardi, il sapore non muta e la si può spalmare a piacimento. Le parole che si leggono in un romanzo o che si sentono in tv o in una birreria sono uguali; lo studio di un avvocato è indistinguibile da quello di un agente immobiliare; il cantante e il docente universitario vestono allo stesso modo, e non perché queste coppie appartengano alla medesima alcova sociale e ne condividano dunque i canoni, bensì perché è il canone stesso ad essersi uniformato e spalmato su tutti i contingenti della società. Qual è un brano musicale degli ultimi dieci anni che merita di essere ascoltato tra due secoli come noi oggi ascoltiamo la nona di Beethoven? Nessuno, perché nessuno riesce a emergere dall’amalgama, che ovviamente non concede spazio a fantasia ed eleganza, a dispetto dei lodevoli ma sporadici tentativi di proporre novità davvero brillanti.

Heideggerianamente, si potrebbe dire che quel che manca è la cura in senso stretto: non ci si prende cura delle cose che ci circondano, delle idee elaborate e delle opere prodotte, se tutte durano poco, sono fatte male e destinate a morire nell’indifferenza passeggera e nella bruttura più negletta. L’attenzione ai dettagli è scarsissima, alla fantasia non è lasciata briglia sciolta perché – banalmente – non serve. È un di più, un superfluo che nell’epoca dei miliardi e delle tonnellate perde utilità, non porta profitto di alcun tipo, se non al più considerazione sociale. Ma se perfino l’ascensore sociale è bloccato, il gusto e lo stile non possono neppure più farsi strumento per l’ascesa. Fino a qualche decennio fa portamento, stile, linguaggio e modi erano sovente espressione di appartenenza sociale, distinguevano i signori dai cafoni, ma oggi che non esistono più gli uni né gli altri dell’eleganza non sappiamo che farcene. Ugualmente livellati su un grado omogeneo di origine sociale, di scolarizzazione e di fruizione culturale, non c’è distinzione nel non-gusto in cui ci si trova immersi e che ciascuno potrebbe piegare per giocarci a proprio piacimento. Perché si può essere eleganti nel condividere un codice estetico ma anche creandone uno che sia insolito, un coup de théâtre individuale, frutto della ricerca unita alla spontaneità; naturalezza e artificio messi al servizio della bellezza.

I tedeschi dicono kleider machen leute (i vestiti fanno la gente), all’opposto degli italiani, e per “vestiti” non intendiamo solo l’abbigliamento bensì tutta l’estetica. Se l’estetica che siamo in grado di produrre è così scadente è forse perché tutti stiamo diventando sempre più delle persone scadenti. Se parliamo male e scriviamo peggio, se ci vestiamo tutti modestamente uguali, se la musica che passa in radio è un tedio e libri inqualificabili vengono piazzati in commercio, non resta che opporsi individualmente. Ciascuno risponda per se stesso e alla fine si vedrà: si guardi allo specchio e si chieda se il mondo com’è fatto qui e oggi gli piace davvero. Se sì, buon per lui; se no, si dia da fare in solitudine per farsi più bello e rischiarare con la propria eleganza ciò che lo attornia, anche nella meschinità. Altrimenti può fare come la punta di diamante della trivella che sta forando i canoni estetici, il caro Mark Zuckerberg che dispone di un intero di armadio di sole magliette grigie e blue jeans – lo si è visto per la prima volta incravattato per rispondere ai parlamentari della fuga di dati: il karma, alle volte.

È solo una battuta, ma dove vada a finire quell’eleganza partorita dalla grazia, dalla pulchritudo dei, destinata a salvare il mondo, non si sa. L’eleganza è innanzitutto rispetto: per se stessi, per gli altri e per il mondo intero. Non è solo questione di guardaroba, tutt’altro: è questione di stile. Un mezzo per comunicare al mondo il proprio rispetto, per omaggiare i morti, interloquire coi vivi e lasciare un testimone ai nascituri. Allora vivano pure i modi semplici, la cordialità spontanea, la lingua non affettata e la modestia sincera. Ma volgarità, banalità e mediocrità, quelle no. Né snob né elitisti, non antiquati e neppure formali, ma se un tempo si diceva non moriremo democristiani oggi noi diciamo: non moriremo cafoni, non moriremo omogeneizzati, anzi, moriremo eleganti!

 

Alessio Trabucco

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