Lovecraft, lo scrittore disperato e razzista che annienta il pensiero progressista

Nel corso degli ultimi tempi è riemerso il ciclico, soporifero dibattito sul razzismo di H.P. Lovecraft: con l’uscita di Lovecraft Country e dopo le accuse – francamente incomprensibili – rivolte a George Martin, tante anime belle hanno avuto il piacere di indignarsi nell’apprendere che lo scrittore del New England aveva chiamato il suo gatto “negro”.

Al netto della noia che i farfugliamenti liberal necessariamente suscitano, rimane un’osservazione da fare: se, guardando nella misera, ectoplasmica esistenza di Lovecraft la cosa peggiore ci sembra il razzismo, allora non abbiamo guardato bene. Perché c’è un legame angosciante fra la vita vissuta, la visione del mondo e le opere, una sinergia dolorosa da cui emerge una figura umana inquietante ed emblematica.

Lovecraft è un uomo triste, malato, oppresso dall’ossessiva presenza della madre e spaventato da tutti gli altri. Lovecraft è un ateo materialista che ammette tutte le implicazioni esistenziali di una posizione filosofica così pesante. Lovecraft è soprattutto un mitografo, come Tolkien e diametralmente opposto a Tolkien. Il professore di Oxford compone la mitologia di un mondo cristiano, eroico, un lungo medioevo che all’uscita de Il Signore degli Anelli era già in agonia, oggi è addirittura impensabile; il solitario di Providence, invece, scrive i miti per il mondo che verrà, oltre le ingenuità del positivismo, nutrito dai massacri meccanizzati della Prima guerra mondiale: il mondo in cui ci troviamo a vivere.

La potenza dei miti risiede nella loro verità, che è eterna e prescinde dai fatti: “queste cose non avvennero mai, ma sono per sempre”, con le parole di un altro mitografo, Saturnino Secondo Salustio. Dunque, la mitologia di Lovecraft è un cifrario perfetto per leggere il presente. Il saggio che Houellebecq dedica a Lovecraft ha un titolo icastico: Contro il mondo, contro la vita. L’horror di Lovecraft è l’orrore che si prova per la disgrazia di esistere, per l’umanità, per tutte le cose, filtrato attraverso il lessico del mito. Il suo – innegabile – razzismo è solo una manifestazione del disgusto per l’altro, tanto più ripugnante quanto più lontano dal microcosmo di Providence, a partire dagli immigrati di Chinatown fino agli Dei Esterni dall’altra parte della galassia:

“Pochi esseri sono stati posseduti, penetrati così a fondo, dalla convinzione dell’assoluta futilità delle aspirazioni umane. […] La razza umana scomparirà. […] I cieli saranno freddi e vuoti, attraversati dalla flebile luce di stelle quasi spente. […] Bene, male, moralità, sentimenti? Solo fandonie vittoriane. Tutto ciò che esiste è egotismo”.

Per la teologia manichea dei buoni, un razzista è un razzista e basta. Per chi invece pensa, il razzismo di Lovecraft appare lontanissimo da quello, delirante e mistico, di Alfred Rosenberg, l’ideologo di Hitler che ha scritto Il Mito del XX secolo. A Providence non resta, infine, niente da salvare, nessuna gloriosa palingenesi ariana che libererà il mondo dalle razze inferiori: ci sono solo gradazioni di orrore.

La mitologia di Lovecraft è meno pericolosa di quella nazista, ma anche più disperante. Il pensiero di Lovecraft è, infine, soltanto disperazione. Ed è il nostro pensiero, anche se non lo sappiamo. Azathoth, il caos nucleare, è l’immotivata esplosione del Big Bang; Shub-Niggurath, il capro nero dai mille cuccioli, è l’istinto di procreazione che spinge gli esseri viventi a “moltiplicarsi per morire innumerevoli”; Cthulhu è la gelida lontananza dello spazio, Yog-Sothoth l’inaccessibile assurdità del tempo. Sono tutte incarnazioni del nostro scientismo ateo, che domina il dibattito culturale, che insegniamo ai bambini, che spacciamo per progresso.

Se in Cristo si incarna la millenaria storia ebraica, allora i mostri di Lovecraft scrivono coi loro tentacoli la Bibbia della civiltà occidentale contemporanea. Il fatto è che Lovecraft potrebbe avere ragione. È persino probabile che abbia ragione: vivere non ha senso, non c’è niente dopo la morte, siamo soltanto elettricità che corre cieca nel labirinto dei neuroni. L’orrore lovecraftiano sta tutto qui, in ciò che è vero e al tempo stesso inaccettabile. I personaggi di Lovecraft, spesso professori e accademici, scoprono che l’uomo non conta nulla di fronte a potenze primordiali e invincibili, che la ragione non può rendere conto di una realtà senza logica, che l’intero universo è “invenzione di un non-dio la cui malvagità supera l’immaginazione”, come scrive Agota Kristof. La conseguenza è la follia, o il silenzio.

Se si pensa come Lovecraft, allora non si può che vivere come Lovecraft. Diventa, quindi, imbarazzante il contrasto fra lo scrittore eremita e le nostre rockstar dell’ateismo – gente come Dawkins, Pinker, Odifreddi. Diventa nauseante questa melassa di illuminismo scaduto e superomismo capito male che passa per pensiero, offensiva la serenità che “colpisce il dolore accumulato e privo di parole”. Se noi cresciamo con la favola che Dio non serve più perché possiamo essere felici anche senza, Lovecraft muove il suo attacco alla religione dalla parte opposta:

“Vedo che nella vostra filosofia la verità ha un posto minuscolo […]. Nella vostra mente, l’uomo è al centro di tutto, […] l’unico problema dell’universo”.

 

Lovecraft, lo scrittore triste e razzista che annienta il pensiero progressista – Pangea

Il terrore e l’odio per la vita e per il mondo nelle opere di H. P. Lovecraft, insofferente al modernismo

Reazionario, pessimista, razzista, antimoderno, antidemocratico e anti-yankee. Prima ignorato, poi demonizzato e banalizzato. Misconosciuto per molti , non è uno scrittore per tutti: un uomo “contro il mondo, contro la vita”. Ma nonostante ciò, H. P. Lovecraft è divenuto oggi una figura pop. Riscopriamo un autore che ha odiato così profondamente la vita, tanto da aver fatto del suo disgusto un’opera d’arte. Nella storia dell’umanità sono esistiti autori ignorati o addirittura umiliati quando erano in vita, per poi essere onorati dai posteri, divenendo dei veri e propri classici, colonne portanti di un determinato pensiero. Howard Philips Lovecraft è sicuramente uno di questi. Oggi le sue opere vengono ristampate in massa e i suoi miti sono impressi nell’immaginario collettivo. La conseguenza principale di questo stato di cose è che tutti parlano di Lovecraft, anche se non lo hanno mai letto: la sua figura viene banalizzata, in quanto unicamente ricondotta alle creazioni più famose (da Cthulhu a Nyarlathotep, dal Necronomicon alle Montagne della follia). Ad un livello più profondo, invece, il fascino di questo personaggio deriva proprio dalla sua caratterizzazione. Nell’introduzione alla raccolta di tutti i racconti lovecraftiani, Giuseppe Lippi scrive: «ama il mondo greco-romano, non il presente industrioso; riverisce il Settecento coloniale, non l’indipendentismo di “queste colonie di rivoltosi”; è anglofilo, antiyankee, insofferente al modernismo». È razzista, reazionario e disprezza la società democratica, progressista e consumista. Il suo pessimismo, definibile come “cosmico”, lo porta ad apprezzare i valori puritani: l’importante, nella permanenza in questo mondo orribile, è rimanere puri. Come afferma Michel Houellebecq nel suo saggio H. P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita: «il personaggio di Lovecraft affascina anche perché il suo sistema di valori è totalmente opposto al nostro».

Howard Phillips nasce a Providence, capitale del Rhode Island (il più piccolo degli stati americani, ma anche l’unico storicamente a maggioranza cattolica), il 20 agosto 1890. Il padre, Winfield, inglesissimo nei modi e per discendenza, muore quando Howard è ancora bambino. Il piccolo Lovecraft si ritrova a vivere con la madre Sarah Susan Phillips (di ceto medio borghese) e poi con le zie materne Lillian e Annie. Fin da piccolo è colpito da costanti esaurimenti nervosi, che lo portano ad abbandonare la scuola pubblica e a proseguire gli studi privatamente. Inizia a scrivere i propri racconti a sette anni, ma, dopo l’ennesimo collasso nervoso, nel 1908, decide di distruggere quasi tutta la sua produzione giovanile. È appena entrato nella maggiore età e ne è disgustato, come confiderà in una lettera del ’20: «poiché la gioia dell’infanzia non si riesce più ad agguantarla. L’età adulta è l’inferno». Dopo questa crisi durata quasi dieci anni, durante i quali scompare, rintanandosi in casa (forse è questo il periodo che gli varrà il soprannome del «solitario di Providence»), si riprende, iniziando a scrivere i suoi racconti maturi. Tuttavia, come rivelerà in una lettera del ’25, la scrittura per lui non ha mai rappresentato una professione, ma «un’arte elegante cui dedicarsi senza regolarità e con discernimento» che si adatta alla vita di un gentiluomo. L’unica cosa che chiede sempre agli editori è di pubblicare le sue opere senza tagli e modifiche o, nel caso contrario, non pubblicarle affatto. Come ammette lui stesso, non ricerca mai una storia da scrivere, ma aspetta che una storia abbia bisogno di essere scritta. È soprattutto questa l’importanza del sogno nell’opera lovecraftiana, seppur distante dal “simbolismo puerile” di Freud. In Oltre il muro del sonno (1919) scrive:

«La mia esperienza non mi consente di dubitare che l’uomo, una volta abbandonata la coscienza terrena, si trasferisca in una dimensione incorporea e profondamente diversa da quella che conosciamo; una dimensione incorporea di cui, una volta svegli, rimangono solo vaghissimi ricordi. […] A volte penso che questa esistenza meno materiale sia quella autentica e che la nostra vana presenza sul globo terracqueo sia di per sé un fenomeno secondario o puramente virtuale».

È per questa sua essenza aristocratica che, nonostante la collaborazione con numerose riviste (la più importante delle quali è Weird Tales), le proprie produzioni non sono la sua principale fonte di reddito. Lovecraft vive con i pochi dollari che guadagna come revisore delle opere altrui, in uno stato di semi-povertà permanente. Nei suoi lavori non parla mai del denaro, perché le preoccupazioni mondane non gli interessano. Allo stesso modo, non fa mai riferimento al sesso. Eppure, l’incontro nel ’22 con una donna, Sonia Haft Greene, rischia di scombussolare veramente la vita del solitario di Providence, riuscendoci effettivamente per un determinato periodo. In questo caso, è giusto parlare di opposti che si attraggono e si amano: la Greene è divorziata ed ebrea, ma ciò non impedisce ad un conservatore-antisemita come Lovecraft di sposarla nel ’24. I due si trasferiscono nella casa di lei a Brooklyn, dove Sonia ha un negozio di modista, mentre Howard passa dalla cittadina a maggioranza bianca, alla metropoli multiculturale. Nonostante questo balzo innaturale per un uomo come lui, tutto sembra procedere per il meglio, tanto che sembra deciso a dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Dopo poco, improvvisamente, la situazione naufraga: Sonia perde il lavoro e, messo nella condizione di dover trovare lui un’occupazione comune, nell’incapacità di farlo, H. P. si arrende. È in questo contesto, di miseria e risentimento, che il suo razzismo, da blando e innato, diventa ossessivo. Scrive Houellebecq: «non si tratta più del razzismo beneducato dei Wasp: è piuttosto l’odio brutale dell’animale preso in trappola, costretto a condividere la gabbia, con animali di una specie diversa e temibili». L’intolleranza di Lovecraft è radicale, perché continuo è il contatto con quelle che lui considera essere specie diverse, delle “razze aliene”, che prima del soggiorno a New York erano solo un’eccezione. È per questo che simpatizza per i progetti del giovane Hitler, prendendone le distanze successivamente, non solo per le conseguenze storiche (che vedrà parzialmente, morendo prima), ma perché dal ’26 torna nella sua Providence, lontano dal marasma e senza Sonia, dalla quale divorzia nel ’29.

L’anno del ritorno a casa coincide anche con la pubblicazione del suo racconto più famoso Il Richiamo di Cthulhu. L’Incipit di questa opera sembra riprendere quello di una sua produzione precedente. La verità sul defunto Arthur Jermyn e la sua famiglia (1920) si apre così:
«La vita è una cosa orribile e dietro le nostre esigue conoscenze si affacciano sinistri barlumi di verità che la rendono ancora più mostruosa. La scienza, già oggi sconvolgente nelle sue terribili rivelazioni, rappresenterà la fine della razza umana […] quando fornirà alla nostra mente la chiave di orrori insopportabili che un giorno dilagheranno nel mondo».

Lovecraft non è una persona religiosa, mentre crede fermamente nella scienza. Tuttavia, questa fede non è positiva: il pensiero scientifico permette la scoperta di nuovi fenomeni, ma questi non sono sempre un bene e, per questo, a volte non andrebbero proprio svelati. La conseguenza di questo pensiero si rintraccia nel finale del romanzo breve Le Montagne della Follia (scritto nel ’31, pubblicato nel ’36):

«È assolutamente necessario, per la pace e la salvezza dell’umanità, che alcuni degli angoli più oscuri e sepolti della terra e delle sue abissali profondità rimangano inviolati; altrimenti orrori che dormono si sveglieranno a nuova vita, e incubi sopravvissuti in modo proibito strisceranno o nuoteranno dai loro neri rifugi per rinnovare e ampliare le loro conquiste».

Nel sostenere la metodologia scientifica, dunque, ne riconosce anche i limiti. Del resto, le sue creazioni mitologiche non possono essere definite scientificamente, perché la loro essenza si pone al di là della conoscenza razionale, pur essendo affrontate in maniera prettamente materialistica. Come sostiene Houellebecq «il terrore di Lovecraft è rigorosamente materiale», perché esso deve essere obiettivo, anche se le tassonomie scientifiche e le descrizioni architettoniche arrivano a produrre delle sensazioni ipnotiche nel lettore, come accade durante lo studio anatomico degli Antichi ne Le Montagne della Follia. Forse, è proprio in questo testo che si percepisce il picco creativo lovecraftiano, tastando l’insignificanza dell’uomo nello spazio e nel tempo, vedendo, anche se per qualche istante e indirettamente, l’infinita varietà della vita, con annessa la sua inquietante bellezza. In questo testo, trapela un’inaspettata empatia per il diverso, che si concretizza nel pensiero dei due ricercatori quando si ritrovano dinnanzi agli Antichi massacrati dagli Shoggoth:

«Finalmente capimmo cos’è il terrore cosmico nelle sue profonde implicazioni. Non era la paura delle quattro creature misteriose che mancavano all’appello, perché sapevamo fin troppo bene che non erano più in grado di nuocerci. Poveri diavoli! Dopotutto, e rapportati ai loro parametri, non erano esseri malvagi: erano gli uomini di un altro tempo e un altro ordine biologico. La natura aveva giocato loro un tiro diabolico, come certo farà con tutti coloro che la follia umana, lo sprezzo del pericolo o la pura e semplice crudeltà spingeranno ad avventurarsi nelle orrende distese polari, morte o addormentate che siano…Sì, questo era il tragico benvenuto che avevano ricevuto nel tentativo di tornare a casa».

Si potrebbe obiettare che nessuno conduce i ricercatori nei meandri delle Montagne della Follia (che poi scopriranno essere altre, ben più alte e irraggiungibili), così come nessuno spinge l’equipaggio norvegese a risvegliare il grande Cthulhu, e nessuno impedisce ai Gardner di trasferirsi dopo che il Colore venuto dallo spazio (1927) inquina la loro proprietà e finisce per divorarli. Nessuno o tutto. Sembra che, infatti, i personaggi lovecraftiani, estremamente piatti per tutto il racconto, non possano sfuggire al dolore: «Aggrediti da percezioni abominevoli, – rimarca Houellebecq – i personaggi di Lovecraft agiscono da osservatori muti, immobili, totalmente impotenti, paralizzati. Vorrebbero scappare, o sprofondare nel torpore di un provvidenziale svenimento. Niente da fare. Rimarranno inchiodati lì dove sono, mentre intorno a loro l’incubo prende forma». Il loro fine non è mai la gloria o la redenzione, e solamente a volte è la conoscenza (seppur mai definitiva e assoluta), mentre spesso sono loro i mezzi affinché un telos superiore si realizzi.

P. L. Lovercraft si spegne per un cancro all’intestino il 15 marzo 1937. «Morto Lovecraft nasce la sua opera», diranno i biografi. Diventerà un “mito fondatore” per decine di autori. August Derleth e Donald Wandrei fonderanno la Arkham House per tramandarne l’opera. Pur essendo disprezzato dalla critica del tempo, sarà osannato dal pubblico, fino a diventare quell’icona pop presentata ad inizio articolo. La verità è che Lovecraft non è un autore per tutti. Jacques Bergier, lo stesso che lo definisce come un “Edgar Allan Poe Cosmico”, sostiene che «forse per apprezzare Lovecraft occorre aver sofferto molto». Qualora non si fosse sofferto abbastanza, bisognerebbe perlomeno avere presente questa massima, evitando di farneticare attorno alle sue creazioni e alle sue idee (anche politiche), tenendo maggiormente conto della sua vicenda. Houellebecq scrive che egli «è riuscito a trasformare il proprio disgusto per la vita in un’ostilità attiva». Lovecraft è, infatti, riuscito a scrivere così bene, perché odiava sì la vita così in fondo, ma amava anche nominare l’innominabile, nella convinzione che questo avrebbe portato al collasso della dannata umanità. Alla fine di tutto, davanti agli orrori di altri tempi e luoghi, la cosa più razionale è impazzire, come fa Zadok Allen, il vecchio pazzo alcolizzato ne La Maschera di Innsmouth (1936):

«Le sarebbe piaciuto essere un ragazzo come me e guardare dal tetto, tutto solo, cose che non erano umane? Eh?…Eh, eh, eh».

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

H. P. Lovecraft, il fascino dell’occulto

Howard Phillips Lovecraft nasce a Providence nel 1890. Il padre viene rinchiuso in manicomio quando lo scrittore ha tre anni, e muore cinque anni dopo, senza essere riuscito a creare alcun rapporto affettivo con lui. La madre si spegne nel 1921, liberandolo dalla sua personalità asfissiante che lo ha influenzato negativamente, facendolo crescere in un’atmosfera familiare opprimente e isolata. La sfortuna, insomma, ha avuto la sua parte nell’esistenza di questo personaggio. Cresciuto nell’agiatezza economica fino alla soglia dell’adolescenza, in seguito non ha potuto goderne, in quanto le speculazioni sbagliate di uno zio dissolsero i risparmi familiari, gettandolo sul lastrico. Lovecraft viene cresciuto da due attempate zie e conduce una vita al limite della povertà, sfruttato per conto di scrittori meno dotati di lui, dei quali rimette in sesto i manoscritti.

Ogni tanto scrive un racconto che non viene nemmeno pubblicato, anche se per alcuni di essi riusce a trovare uno sbocco su <<Weird Tales>>, mensile di storie dell’orrido i cui compensi erano tra i più bassi d’America. Unica parentesi, all’ interno di questa quotidianità ciclica e monotona, è il matrimonio celebrato con una donna molto più grande di lui, che dura soltanto due anni. Questo periodo aggiunge l’incubo all’incubo, Lovecraft si trova infatti a New York, incapace di ottenere un lavoro ben retribuito e costretto a farsi mantenere dalla moglie (modista e aspirante scrittrice), è disgustato dalla sterminata bolgia di razze, ceti e traffici della metropoli.

Decide dunque di far ritorno dalle zie, concedendosi ogni tanto, come unica distrazione, qualche viaggio in autobus verso fascinose mete storiche negli Stati Uniti. A quarantasei anni esala l’ultimo respiro, dopo aver trascorso un periodo di lunga sofferenza fisica a causa di un cancro.

Un’esistenza scarna e vuota quella di Lovecraft che sembra non combaciare con la personalità di scrittore, creatore di storie in cui soggetti repulsivi sono i protagonisti. Questo strano autodidatta solo e sfortunato, infatti, si ritrova ad essere un punto di riferimento per moltissime persone, con le quali instaura una corrispondenza talmente vasta e fiorente –  quasi centomila missive – da non avere termini di paragone in letteratura. In queste lettere egli dimostra un’erudizione senza pari. Il fisico nucleare Jacques Bergier –  considerato ai tempi un mostro di intelligenza – ha affermato: “Mai nella mia vita mi era capitato di corrispondere con una creatura altrettanto onnisciente”. Lovecraft è stato d’ispirazione a molti romanzieri dell’epoca, che grazie ai suoi consigli sono riusciti a formare un’eccellente carriera letteraria, ma sopra ogni altra cosa “il solitario di Providence” ha dato nuovo corpo e sostanza al genere horror, ribaltandone il punto di vista in senso cosmico.

Al civico n. 194 di Angell Street si trova una bella villa in stile coloniale, qui vi risiedeva Whipple V. Philips, nonno materno di Lovecraft, che viveva di rendita dopo aver condotto diversi affari e viaggiato per il globo. La casa era grande e carica di mobili, ninnoli e quadri, raffiguranti soggetti insoliti, appesi alle pareti. Fra quelle stanze immerse nella penombra, il piccolo Lovecraft si aggirava da solo, costretto dalla madre a non uscire nemmeno per recarsi a scuola, essendo la sua educazione affidata a tutori privati. Emarginato e circondato da anziani, il ragazzino trovava comunque il modo di alimentare la sua fantasia e l’intelletto precoce, attraverso i libri presenti all’interno dell’immensa biblioteca situata al secondo piano della villa. Da subito si delineano le preferenze di Lovecraft in fatto di letteratura: il nonno gli apre la strada verso il Fantastico, la nonna, studiosa di astronomia, lo erudisce sulle meraviglie dei cieli.

In questo microcosmo personale, sospeso in un limbo indefinito tra ragione e follia, Lovecraft ha sviluppato una singolare spiritualità neo-pagana, in cui ben presto si è affacciato l’incubo. È lo stesso autore a raccontarlo: “Nel gennaio del 1896, la morte di mia nonna gettò la casa in un’atmosfera cupa, dalla quale non uscì mai più. Le vesti nere di mia madre e delle mie zie mi riuscivano paurose e ripugnanti …  fu allora che la mia vivacità naturale si spense. Cominciai ad avere gli incubi più odiosi, popolati di cose che chiamai Night Gaunts, con un’espressione inventata da me”.

Le esperienze avute durante la fanciullezza hanno segnato profondamente il carattere dello scrittore gotico. Giunto alla maturità egli si ritrova infatti completamente da solo, misantropo e senza alcun titolo di studio, nella sua mente gli eventi giornalieri si trasformano in situazioni inaffrontabili e angosciose.

Lovecraft decide quindi di esorcizzare, a modo suo, e con una nota d’originalità, l’inquietudine del proprio animo, dando a ognuno dei suoi incubi una veste simbolica e una collocazione ultraterrena. Le sue afflizioni e le sue debolezze creano un pantheon dell’orrore, in cui germinano entità deformi e ripugnanti.

“L’immaginazione è il grande rifugio”, probabilmente questa frase riassume non solo tutta la poetica di Lovecraft, ma esplica le ragioni del fascino della sua narrativa che oltrepassa e supera i limiti dell’espressione comune per radicarsi nel profondo, verso qualcosa di più sensoriale.

Autore di numerosi racconti stranianti, come Dagon, Il colore venuto dallo spazio, Il richiamo di Cthulhu, La tomba, Oltre il muro del sonno e L’orrore di Dunwich, e di romanzi, tra cui Il caso di Charles Dexter Ward, Le montagne della follia, La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath e La maschera di Innsmouth, oltre ad alcuni racconti in versi (L’avamposto, L’antico sentiero, Ricordi, Fantasmi, ecc..) Lovecraft, che in vita non ha goduto di grande fortuna soprattutto presso la critica, oggi è considerato tra i massimi esponenti della letteratura horror insieme ad Edgar Allan Poe, nonché precursore della fantascienza angloamericana, influenzando produzioni cinematografiche e musicali.

Le passioni che ci travolgono – ha teorizzato lo scrittore  – possono essere dominate se, con un supremo atto immaginativo, riusciamo ad esteriorizzarle, a contemplarle in tutta la loro grottesca vanità”.

 

 

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