Dal film candidato agli Oscar 2018 The shape of water-La forma dell’acqua, risulta chiaro che il regista Guillermo del Toro sia molto più che un semplice appassionato di Lovecraft, Borges, Bava Fellini e di mostri: il cineasta messicano è prima di tutto, infatti, un vero narratore di fiabe moderne, un uomo che ha trovato nella settima arte il medium espressivo perfetto per raccontare le sue storie uniche. Altrettanto vero è che del Toro non sia un creatore di film per tutti, e ciò si vede dal fatto che il suo stile particolare gli sia valso uno strano rapporto di amore/odio con Hollywood: nonostante abbia un nutrito seguito di appassionati, infatti, i suoi racconti degli ultimi anni si erano forse un po’ allontanati dai meravigliosi estetismi narrativi de La Spina del Diavolo o de Il Labirinto del Fauno per perdersi in sovrastrutture un po’ barocche e rime estetiche di difficile decifrabilità (come nel caso del poco riuscito Crimson Peak).
Con La forma dell’acqua del Toro non solo è riuscito a creare quello che probabilmente è il suo film migliore, ma lo fa con una storia d’amore, terreno nel quale non si era praticamente mai addentrato. L’ultima pellicola del regista è infatti anche la sua consacrazione definitiva, un film attraverso il quale traspare chiaramente non solo tutta la sua voglia di riscatto e il suo amore incondizionato per il cinema, ma anche una consapevolezza nuova, più precisa e sicura nel raccontare le sue storie. C’è da dire dopotutto che, probabilmente, dopo il Leone d’Oro a Venezia, quest’ultimo lavoro sarà un prodotto che riserverà a del Toro grandi soddisfazioni anche durante la cerimonia di premiazione dei prossimi Academy Awards (il film è stato candidato all’Oscar in ben tredici categorie).
La scenografia della Baltimora immaginata dal del Toro funge un po’ da specchio per lo stato d’animo dei personaggi che la abitano: l’oscurità regna sovrana, e il cielo della città sembra presagire una pioggia che prima o poi finirà con il cadere sulla vita di tutti i protagonisti. Alla fine, ognuno di loro cova dentro di sé un intimo dolore, soffrendo per una possibile vita perduta: l’amica Zelda trattiene a stento una grande voglia di riscatto, che ha paura a manifestare apertamente in quanto donna nera in un’epoca in cui queste due categorie avevano difficoltà a trovare uno spazio, Giles accumula nel frigo torte che lo disgustano ma che compra nel locale dove lavora il barista di cui è segretamente innamorato ma a cui non si può dichiarare, lo scienziato interpretato da Michael Stuhlbarg è vittima di un sistema che lo usa e lo sfrutta ma da cui si trova impossibilitato a scappare.
E se la protagonista Elisa è muta, senza un passato ed emarginata da una società che la considera diversa, dopotutto anche lo strano essere, strappato da un fiume in Amazzonia dove veniva considerato un dio per diventare una cavia da laboratorio, non si ritrova anch’esso ad essere impossibilitato a comunicare in un mondo che non lo accetta, esattamente come lei? I protagonisti del film sono proprio loro, quindi: i deboli, i reietti, i diversi, gli esclusi, i mostri. Il forte sottotesto politico presente in La forma dell’acqua riesce ad essere così riuscito, però, proprio perché non cade mai nel banale o nel retorico, nonostante sia chiaro e presente per tutta la durata della pellicola.
Se fantasy creativo estratto da un leitmotiv classico doveva essere, infatti, il regista messicano di horror ricercati trapiantato a Hollywood impartisce una lezione d’alta classe su come alla fine di una tempestosa storia d’amore la Bella possa non avere più bisogno che la Bestia si trasformi in un principe umanamente corretto. Prima identikit di una solitudine al femminile, poi avventura mozzafiato all’ombra della Guerra Fredda, infine grido di libertà in nome dei “diversi” alquanto svincolato, però, come si è accennato dalla consueta retorica buonista: seppure la metafora centrale proponga un vero e proprio manifesto a favore delle minoranze oppresse, La forma dell’acqua riesce a fare di un uomo-branchia, un mostro perseguitato, una creatura anfibia ripugnante il credibile protagonista di un puzzle visionario, una dichiarazione d’amore al cinema di genere, uno show euforizzante librato nei vortici di un musical fiabesco.
Per mitigare il possibile retrogusto melenso il sentimento che a poco a poco avvince la dimessa e muta Elisa (perfetta l’incarnazione della Hawkins) all’essere misterioso, catturato all’inizio dei Sessanta in Amazzonia e tenuto prigioniero dai militari yankee al servizio di un torvo colonnello (l’impressionante Shannon) in un laboratorio segreto dove lei lavora come donna delle pulizie, è via via contrappuntato da sapienti sprazzi, anche abbinati, di humour ed erotismo; mentre il crescendo della suspense non tralascia la cura maniacale dell’ambientazione, la fotografia e le musiche d’epoca, per non parlare della pertinenza delle automobili, i cartelloni pubblicitari in stile Norman Rockwell e la sala Orpheum dislocata sotto l’appartamento della protagonista dove si proiettano a volontà goduriosi peplum e horror. Il taglio registico è talmente diretto e sincero da non fare perdere al film il suo impeto neppure quando ciascuno dei coprotagonisti -la collega nera vessata dal marito, lo scienziato che fa il doppio gioco in nome e per conto dei non meno malvagi sovietici, il giovane gay disegnatore fallito- accentua la propria funzione di puntello drammaturgico in vista dell’accavallarsi di fughe e colpi di scena nel prolungato, convulso, folle finale. Non si sa se sia opportuno o meno accontentarsi dell’epigrafe “I mostri siamo noi, non loro”, perché La forma dell’acqua mette in campo una serie ricchissima d’invenzioni e diramazioni che rischiano di renderla banale o inappagante. Quello che sappiamo bene, però, è che Del Toro sa fare il cinema, eccome se lo sa fare.
La forma dell’acqua è dunque anche una bellissima dichiarazione d’amore di Guillermo del Toro nei confronti della settima arte, quella più romantica, visionaria, sentimentale: in questa pellicola non c’è infatti solo un chiaro rimando all’estetica de Il Mostro della Laguna Nera del 1954 di Jack Arnold ma c’è appunto una storia che ricorda molto il romanticismo de La Bella e la Bestia, ci sono delle musiche che strizzano l’occhio Il Favoloso Mondo di Amélie, c’è un po’ di E.T. e di King Kong. Ad un certo punto del film ci sarà anche un cinema che proietta in sala vecchi film come The Story of Ruth: i rimandi più numerosi sono dedicati infatti soprattutto ai vecchi musical, alle pellicole in bianco e nero che fanno battere i piedi a tempo di musica ad ogni balletto di Shirley Temple. Anche la protagonista del film, Elisa, trova infatti più colori in una pellicola in bianco e nero che nella sua vita vera, paradossalmente molto più grigia di quel mondo di celluloide sul quale tanto fantastica: lei sogna di fuggire dalla realtà di cui è impotente prigioniera piroettando sulle note di You’ll Never Know di Renée Fleming, danzando sulle punte e cantando con una voce cristallina che non potrà avere mai.
In questa pellicola si celebra la vera la settima arte, quella che ti fa sfuggire alle brutture della vita reale per cercare un po’ di magia, per ritrovare se stessi o, forse, per perdersi un po’: dopotutto siamo in quel periodo degli anni ’60 durante il quale il cinema continuava ad esistere come un mezzo di intrattenimento in declino, sopravvivendo nonostante le pressanti minacce di crollo sotto i colpi della televisione, ormai in via di diffusione capillare in tutte le case statunitensi (un po’ come la creatura del film, un tempo venerata e considerata un dio, poi maltrattata e brutalizzata dai suoi miseri oppressori).
La forma dell’acqua ci fa ritrovare quella naturale attrazione e malinconia per le sale buie, vuote e polverose (la protagonista vive in un appartamento ubicato proprio sopra una vecchia ma bellissima sala di proiezione): luoghi dimenticati da molti che tuttavia vengono riscoperti come magnetico rifugio, a volte inaspettato, da chi ne ha davvero bisogno, premiando chi ha tempo di fermarsi a guardare il pulviscolo che si illumina nel fascio di luce del proiettore. E poi, diciamo la verità: Se proprio si deve assistere all’ennesimo pippone sull’amore inclusivo senza falsi moralismi che supera le discriminazioni, i pregiudizi e le diversità, almeno che abbia la pretesa di essere un film di ottima fattura invece che le solite mediocre storielle politicamente corrette.
Fonti: L’intellettuale dissidente