Helmut Berger, bellezza gelida ed inquieta della settima arte

Un incandescente bagliore; è stato questo Helmut Berger nella storia del cinema italiano. L’attore austriaco, scomparso lo scorso 18 maggio, ha legato per sempre il suo nome a quello del grande regista italiano Luchino Visconti, la cui poetica si sposò perfettamente con il talento e la bellezza ultraterrena e inquieta di Berger.

Sotto la direzione di Visconti, Berger interpretò in modo magistrale protagonisti dalla personalità complessa e contorta, che lo rispecchiavano. Dopo di lui, è difficile poter dire con certezza di aver assistito ad una medesima espressione di sentimenti ed emozioni opposte: lo sguardo dell’attore esprimeva una dolcezza infinita mentre l’increspatura delle labbra comunicava cinismo e una certa dose di crudeltà. Il tutto nella stessa inquadratura.

Visconti scavò profondamente nell’interiorità di Helmut Berger fino a fare emergere la sua duplicità caratteriale che lo ha sempre contraddistinto come attore. Dopo Visconti nessun regista è più riuscito a valorizzare le enormi potenzialità istrioniche di Berger, che ha sempre amato definirsi la vedova di Visconti.

Nato a Salisburgo nel 1944  da una famiglia di albergatori, Berger non proseguì mai la strada battuta dai genitori, ma si ritrovò presto, grazie alla sua bellezza seducente ed eterea, a lavorare come modello mentre prendeva lezioni di recitazione. Poi l’arrivo in Italia, inizialmente a Perugia, dove frequentò i corsi di teatro all’Università per stranieri, per poi decidere di tentare la fortuna a Roma.

Fu proprio nelle capitale che Berger iniziò a lavorare come assistente cinematografico e qui, nel 1964, durante le riprese del film Vaghe stelle dell’Orsa, conobbe Luchino Visconti. Fu proprio grazie al sodalizio artistico e personale con il cineasta milanese che Berger ottenne il suo primo ruolo, nell’episodio (diretto da Visconti) La strega bruciata viva del film Le streghe (1967). Appena un anno dopo, nel 1968, arrivò la sua prima parte da protagonista nel film I giovani tigri, diretto da Antonio Leonviola.

Ma il vero successo arrivò con La caduta degli deì (1969), primo capitolo della “trilogia tedesca” di Visconti, dove Berger fu il luciferino e depravato Martin von Essenbeck, ruolo che gli valse una nomination al Golden Globe. Sempre con il regista milanese, vestì i panni dell’infelice Ludovico II di Baviera in Ludwig (1973) e quelli del cinico Konrad in Gruppo di famiglia in un interno del 1974. Qualche anno prima, nel 1970, l’attore ebbe anche l’opportunità di lavorare con Vittorio De Sica nel celebre Il giardino dei Finzi Contini (vincitore del premio Oscar 1972 come miglior film straniero) e, nel 1972, con Nelo Risi nel film La colonna infame.

Con la scomparsa di Visconti, l’attore austriaco iniziò a soffrire di depressione che lo portò a dichiarare di “essere divenuto vedovo a soli 32 anni“. Iniziò ad assumere alcool e sostanze stupefacenti, conducendo una vita sregolata, che lo costrinse a più di una sosta forzata, dopo che nel 1977 rischiò la morte per eccesso di droga.

Le offerte da parte del cinema iniziarono a scarseggiare e Berger decise di gettarsi a capofitto sul piccolo schermo, tornando in scena nell’adattamento televisivo del romanzo Fantomas dell’amico Claude Chabrol (1980), sceneggiato che ebbe il merito di riaccendere su di lui le luci dei riflettori. Durante gli anni Ottanta partecipò poi alla terza stagione statunitense della serie tv Dynasty, nel 1985 al film di guerra Cold Name: Emerald, per poi tornare in Italia nel 1989 e interpretare Egidio nello sceneggiato tv i Promessi Sposi e il ruolo del banchiere svizzero Keinszig ne Il Padrino III di Francis Ford Coppola (1990).

La produttrice Marina Cicogna, ha sempre sostenuto che il rapporto che legava Berger a Visconti era basato sulla crudeltà e che i suoi eccessi facevano parte della vita dell’attore anche prima della morte di Visconti, la persona più autodistruttiva che abbia mai conosciuto la produttrice: portava via quello che poteva dalla casa di Visconti; la situazione si appesantì quando Berger scoprì che, a parte una casa, non aveva avuto una lira da Luchino, che scriveva un testamento dopo l’altro.

«A Helmut non fregava niente di nessuno, dal punto di vista sentimentale», ha inoltre affermato Marina Cicogna. Sembrerebbe che la relazione tra tra Visconti e Berger fosse a tutti gli effetti un legame di subordinazione al regista milanese, d’altronde la maggior parte degli attori coinvolti nelle sue produzione, sono stati marchiati a vita, pagando un dazio artistico, emotivo e psicologico; quasi avessero assorbito l’animo di Visconti, la sua solitudine, il suo ingegno, la sua fatica mentale, i suoi sadismi, le sue mane, le sue concupiscenze, i suoi strazi, la sua stanchezza del sole, come Macbeth. E come Berger, che più di chiunque altro attore viscontiano, è stato l’emanazione all’eccesso del lato più oscuro del regista, il cui unico vero oggetto di adorazione portato verso l’illimite del fanatismo, era sua madre Carla Erba, nipote di Carlo Erba, fondatore dell’omonima industria farmaceutica.

Senza dubbio il legame tra l’attore e il regista, si presta volentieri ad una storia cinematografica che narra di un grande regista pigmalione in analisi con Lacàn e un giovane arcangelo e spietato in cerca di fortuna; l’uno è stato la fortuna per l’altro e viceversa. Un melodramma lirico dai risvolti psicologici alla maniera di Visconti dove Berger è la vera incarnazione del Male, come Martin de La caduta degli dei, gelido e violento, personaggio sadico e sorridente che ricorda Stavrogin dei Demoni di Dostojevskji quando violenta una bambina ebrea e non fa nulla per impedirne il suicidio, e il giovane Torless di Musil, il personaggio di Ludwig, alter-ego di Visconti, esteta decadente, scialacquatore e folle, e al contempo la quintessenza della malinconia e della soave inquietudine propria del personaggio di Alberto nel Giardino dei Finzi-Contini: Lo so a cosa pensi… pensi che mi manca la gioia di vivere. Ma chi… chi me la può dare?

 

 

 

 

Luchino Visconti, gattopardo imperfetto tra neorealismo e decadentismo

Decadente, nostalgico, melodrammatico. È Luchino Visconti, maestro del cinema italiano tra neorealismo e decadentismo, autore di capolavori immortali tra Tomasi di Lampedusa e Proust

Il neorealismo di Luchino Visconti

Il cinema italiano ha ospitato grandi registi che hanno reso noto il neorealismo in tutto il mondo. Attraverso opere come Roma città aperta o Ladri di biciclette.

Raccontando un’Italia semidistrutta, ma capace di grandi speranze sociali, tra lo squallore del secondo dopoguerra. Ogni regista diede un suo contributo alla creazione di un canone neorealista, con i suoi attori presi dalla strada, i set nelle strade della città e non solo negli studi, l’adesione a principi politici come il marxismo e l’antifascismo.

Ossessione e La terra trema

A questo canone appartiene anche Luchino Visconti, regista di estrazione aristocratica, che nel 1943 dirige il primo vero film neorealista: Ossessione.

In esso si mostrano i temi del movimento di De Sica e Rossellini, dalla rottura con la correttezza del cinema dei telefoni bianchi all’attenzione per la resa dei contesti sociali. Riprendendo i temi del naturalismo francese e del verismo, stravolgendoli e attualizzandoli.

Non è un caso che La terra trema, secondo film di Visconti, finanziato dal PCI, si rifaccia ai Malavoglia di Verga, stravolgendone la sceneggiatura, introducendo il dialetto siciliano, che nell’opera letteraria era solo accennato.

Nostalgia e decadentismo

Poi, a partire dagli anni ’50-’60, il neorealismo si decompone, proiettando i suoi registi verso altri filoni. De Sica verso il cinema nazional-popolare di ieri oggi e domani, Fellini (che pur era stato neorealista a modo tutto suo) verso un cinema onirico e magico.

Visconti, che chiude i conti col neorealismo con il film Bellissima, aspra critica sociale e constatazione del fallimento degli ideali neorealisti, si cimenta in un cinema fatto di nostalgia e intimismo.

Senso

Il primo punto di rottura è Senso, tratto da una novella di Camillo Boito (fratello del più noto Arrigo), del 1954. L’opera descrive l’amore tra un ufficiale austriaco, Franz Mahler, e una nobildonna italiana, di ideali risorgimentali, sullo sfondo di una Venezia decadente durante il risorgimento.

Il film è la constatazione del risorgimento come rivoluzione tradita, della critica alla guerra, ma soprattutto la presa di coscienza del la fine di un mondo. Il mondo aristocratico e antico schiacciato dalla borghesia e dalla storia.

La grandezza di senso sta proprio nell’introduzione di temi marcatamente decadenti. La fine del mondo ottocentesco e l’avanzata della società di massa, il culto del melodramma e della bellezza, reso tramite fuori campo che creano omaggi al mondo del melodramma e del teatro.

Mostrando in ogni inquadratura riferimenti alla pittura ottocentesca, soprattutto ad Hayez, rendendo la scenografia come un perenne teatro dell’opera. Impreziosendo il film di elementi aristocratici ed estetizzanti.

Il Gattopardo

Estetizzazione del mondo aristocratico e nostalgico che è il centro di uno dei capolavori del cineasta milanese: Il gattopardo (1963), tratto dall’omonimo romanzo del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Si tratta di un film che, secondo la volontà di Visconti, voleva trovare la perfetta sintesi tra Mastro Don Gesualdo di Verga e Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.

Il risultato è un kolossal unico che riesce a condensare il meglio della poetica e dello stile del regista. La storia è ambientata nella Sicilia dell’ottocento a cavallo tra la fine del regno delle Due Sicilie e l’inizio del neonato regno d’Italia.

I protagonisti sono i membri di una famiglia nobile siciliana, implicata con i Borbone, che vive una vita rigida e lussuosa, affascinante e anacronistica.

Trama e contenuti del film

Rappresentante di questo mondo è il principe Salina (Burt Lancaster), nobile pessimista e disilluso, conscio della fine del dominio del mondo aristocratico meridionale che di fronte all’avanzare delle nuove generazioni, spregiudicate e tessitrici, rappresentate dal giovane Tancredi (Alain Delon), e all’ascesa della ricca borghesia, è amareggiato per un mondo che vede sgretolarsi.

Un mondo fatto di ritualità, di convenzioni sociali, di una routine immobile e fuori dal tempo. Proprio nella resa di questo contesto Visconti mostra il suo stile decadente ed estetizzante.

Le pose, le abitudini, le formalità di questo ambente vengono raccontate e approfondite immergendo lo spettatore in scenari fastosi ed affascinanti. Attraverso una cura maniacale del dettaglio, l’utilizzo frequente di campi lunghi per creare una atmosfera da melodramma. Teatrale e magnifica, ma anche immobile e decadente.

Il principe Salina

Di questa epoca finita il principe Salina è l’ultimo rappresentante, che mostra la propria incompatibilità con la spregiudicatezza e l’ambizione di Tancredi e del mondo borghese (“Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica in quattro e quattr’otto. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”).

Che però asseconda spingendo Tancredi verso la figlia del ricco borghese don Calogero (Claudia Cardinale), interrompendo la continuazione della tradizione nobiliare.

È il vinto della storia che di fronte ad un mondo che muore verso cui sente simpatia e affetto sceglie la via del ritorno, chiudendosi pessimisticamente nella propria oasi di raffinatezza:

“Sono un esponente della vecchia classe, fatalmente compromesso con il passato regime, e a questo legato da vincoli di decenza, se non di affetto. La mia è un’infelice generazione, a cavallo tra due mondi e a disagio in tutti e due. E per di più, io sono completamente senza illusioni.

Che se ne farebbe il Senato di me, di un inesperto legislatore cui manca la capacità di ingannare se stesso, essenziale requisito per chi voglia guidare gli altri?

No Chevalley, in politica non porgerei un dito, me lo morderebbero. Siamo vecchi, Chevalley. Molto vecchi. Sono almeno venticinque secoli che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche ed eterogenee civiltà. Tutte venute da fuori, nessuna fatta da noi, nessuna che sia germogliata qui.

Da duemilacinquecento anni non siamo altro che una colonia. Oh, non lo dico per lagnarmi, è colpa nostra. Ma siamo molto stanchi, svuotati, spenti.”

Gruppo di famiglia in interno

Temi quelli del Gattopardo che verranno poi ripresi ben undici anni dopo nel 1974 con la pellicola Gruppo di famiglia in interno (1974), in cui il protagonista (Burt Lancaster), interpreta un anziano professore universitario che, ritirato dalla vita, si dedica allo studio e alla cultura in uno splendido palazzo-biblioteca.

La residenza del professore è un appartamento ricercatissimo in cui i quadri, i manoscritti antichi, i pizzi e le porcellane, creano una atmosfera sospesa e ricercata, in cui il suo protagonista si specchia e confonde, in una quiete dottissima.

Quiete turbata dall’arrivo della marchesa Brumonti, di sua figlia col compagno, e di Konrad, giovane amante dal passato extraparlamentare e una vita dissoluta.

Il film, girato solo tra le mura domestiche, racconta l’intromissione di questi personaggi nella vita del professore, allegoria dell’intromissione del mondo moderno, con cui il protagonista inizia a dialogare, finendone deluso e disgustato.

Un film allegorico

Diventando involontariamente padre di questa assurda famiglia. Famiglia in cui si inscenano le finzioni e i pregiudizi del mondo borghese degli anni 70. Colpito dalle spinte pseudorivoluzionarie del ’68, da una borghesia ancora più cinica e spregiudicata, involutasi col consumismo.

Mostrando la totale idiosincrasia dell’intellettuale con la società consumista e turbolenta. Anche il professore è un vinto, come il principe salina, è il ritratto malinconico di relitto di un mondo passato, che plasmato sulla vita solitaria e claustrofobica dell’anglista Mario Praz, mostra un lato ancora più intimista e nostalgico.

Affidandosi proustianamente alla memoria, alla letteratura, la forma fisica dei ricordi. Sentendosi fuori posto oppresso dalla presenza annientante della morte:

“C’è uno scrittore del quale tengo i libri in camera mia e che rileggo continuamente, racconta di un inquilino che un giorno si insedia nell’appartamento sopra il suo, lo scrittore lo sente muoversi, camminare, aggirarsi, poi tutt’a un tratto sparisce e per lungo tempo c’è solo il silenzio. Ma all’improvviso ritorna, in seguito le sue assenze si fanno più rare e la sua presenza più costante: è la morte”.

L’anacronismo di Luchino Visconti

In questi film Visconti mostra il suo lato più nostalgico e decadente, reazionario e anacronistico. Profondamente critico verso la borghesia (verrà infatti considerato sempre un compagno di strada del Pci) e nostalgico di un mondo che sa in rovina, oppresso dalla figura opprimente della morte.

In cui si riconosce la grande trazione decadente, un fascino aristocratico e raffinato. Cullato in quel mondo morto, reso magnifico dalla convinzione proustiana che crede che ogni paradiso è paradiso perduto.

Un gattopardo milanese che nonostante le stroncature della critica comunista, si affianca al partito, che si confronta col mondo moderno , rimanendone deluso e disgustato, ritornando all’arte. Lui, un gattopardo imperfetto.

 

Francesco Subiaco

Il teatro in Italia dal fascismo al dopoguerra (Parte 2)

Il teatro, già oggetto di fermenti innovatori nei primi decenni Novecento, si ritrova con l’avvento del fascismo ad essere investito di nuove importanti trasformazioni. L’intervento del regime riguarda principalmente gli aspetti organizzativi della produzione di spettacoli.

Nel 1929 vengono inaugurati i Carri di Tespi, teatri mobili, incaricati di portare nelle città di provincia degli spettacoli popolari allestiti in collaborazione con i Dopolavoro fascisti. La scelta di far esibire questa compagnia girovaga non è di certo casuale: il regime, infatti, intende regolamentare la vita teatrale in ogni suo aspetto, scoraggiando in ogni modo qualsivoglia iniziativa estranea alla loro politica totalitaria.

L’anno successivo vengono istituite le Corporazioni dello Spettacolo, con l’intento di regolare i vari settori della produzione teatrale. All’utopia pirandelliana di un teatro di Stato, che garantisse democraticamente ai teatranti, i finanziamenti necessari per l’allestimento delle proprie opere, il regime preferisce adottare la politica dei premi e delle sovvenzioni.

Le compagnie teatrali

A tutte le produzioni che riscuotevano maggiore successo venivano elargiti incentivi economi. Il sistema delle sovvenzioni condiziona profondamente la vita teatrale, svilendo sia la figura dell’attore che della forma d’arte in sé.

Le compagnie, infatti, per incentivare gli incassi, iniziano a puntare su repertori diversi e più accessibile ridurre i periodi di prove e moltiplicare le repliche.

Il frenetico inseguimento del successo e la necessità di cambiare di continuo il repertorio spingono gli impresari ad ingaggiare gli attori per una sola stagione.

La compagnia cessa di essere la palestra privilegiata per l’allenamento e l’apprendimento dell’attore. L’attore si ritrova isolato, deve semplicemente funzionare bene all’interno dell’ingranaggio di una compagnia.

Le personalità di spicco in teatro: da Ugo Betti a Luigi Squarzina fino a Luchino Visconti

Il teatro, nel periodo fascismo, tranne Luigi Pirandello non conta grandi figure di autori teatrali. Sul piano della produzione drammaturgica l’unico autore di rilievo è Ugo Betti( 1892-1953), un magistrato cattolico che approfondisce nei suoi scritti il motivo della colpa e della responsabilità attraverso lo schema dell’inchiesta giuridica.

Betti eleva il dramma borghese alla tragedia, ponendo i suoi personaggi in condizioni estreme. Sono degli anni Trenta le suo opere migliori: Frana allo scalo Nord (1932), I nostri sogni (1936) e Notte in casa del ricco (1938).

Negli anni della guerra scrisse Ispezione e Corruzione al Palazzo di Giustizia, uno dei suoi lavori più tipici, incentrato su un’indagine di corruzione di alcuni magistrati; nel dopo guerra Acque turbate (1948) e la Fuggitiva (1952-53)

Gli stessi temi del processo morale, della colpa e delle responsabilità, tornano nell’immediato dopoguerra nelle opere di un altro autore cattolico, Diego Fabbri (1911-1980): Inquisizione (1946) e Processo a Gesù (1955)

Nell’immediato dopo guerra inizia a farsi forte il fervore del Neorealismo postbellico. A renderne meglio il clima è un autore, anche notevolissimo regista, Luigi Squarzina.

Nella sua prima opera, L’esposizione universale (1948), si rifà al modulo della cronaca tipico del nascente clima culturale e letterario. Anche Tre quarti di luna (1952), La sua parte di storia (1955) e la Romagnola rientrano nel clima morale e politico dell’antifascismo e della lotta di Resistenza.

Iniziano a diffondersi in quegli anni, sul modello del Piccolo Teatro di Milano, i Teatri stabili, sovvenzionati dallo Stato. Nel contempo si istituzionalizza la figura del regista, nata a cavallo tra le due guerre. Si afferma un tipo di spettacolo che prevede la presenta di un nuovo “autore” della scena, che controlla e dirige gli attori nella realizzazione di un prodotto replicabile.

In questo panorama operano nomi come Giorgio Strehler e Luchino Visconti che contribuiscono in maniera decisiva a fare del regista il creatore unico dello spettacolo teatrale.

 

Il teatro e la tradizione dialettale napoletana: Da Eduardo Scarpetta ai fratelli De Filippo

Nel teatro napoletano, accanto all’estro del macchiettista Raffaele Viviani, spunta un’altra figura di spicco, che documenta e incarna il passaggio dal teatro di varietà al dramma in dialetto è Eduardo Scarpetta anch’egli attore-autore di commedie in dialetto napoletano.

Scarpetta muore nel 1925 lasciando in eredità ai figli naturali (avuti con Luisa De Filippo) una scuola di teatro, in cui si formarono i suoi tre figli i  Peppino, Titina e Eduardo De Filippo. Della stessa scuola napoletana è il famoso attore comico Antonio De Curtis, in arte Totò.

I tre fratelli De Filippo istituiscono nel 1929 la Compagnia del teatro umoristico che si prolunga sino al 1944, quando Peppino se ne dissocia. Sino a quel momento i testi sono scritti dai due fratelli, Eduardo e Peppino.

Mentre Peppino si rivela soprattutto grande attore comico, il primo unisce alle abilità attoriali anche quelle di un notevole scrittore. Capacità che emergono, in particolare, dopo il 1944, quando Eduardo insieme alla sorella Titina danno vita al Teatro di Eduardo fino al 1953. L’anno successivo lo stesso Eduardo inizia a dirigere la Compagnia Scarpettiana

Sino al 1944 Eduardo è autore di commedie farsesche, dove riprende la figura di Pulcinella, personaggio maltrattato e deriso che però alla fine riesce a prendersi gioco degli altri con la sua amara saggezza.

In questo primo periodo- le cui opere sono riunite in Cantata dei giorni pari– la più riuscita è Natale in casa Cupiello (1931) costruita sul contrasto tra l’illusione della festa e l’amara consapevolezza della dolora realtà della vita.

Dopo il 1944 Eduardo si concentra, invece, su produzioni più realistiche, complesse e ricche di sfumature tipiche del genio pirandelliano. Questa nuova stagione- raccolta in Cantata dei giorni dispari– comincia con Napoli Milionara (1945), una commedia ambientata a Napoli negli anni della guerra, in cui si avverte un forte ecco dei Malavoglia di Verga. Altre grandi opere di Eduardo sono Filomena Marturano(1946) scritta per la sorella Titina, attrice nella stessa commedia; Questi Fantasmi (1946) e Le voci di dentro (1948)

 

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Dannunzianesimo tragico e gusto per la ricercatezza nei film ‘aristocratici’ di Luchino Visconti

Nel marzo del 1976, dopo aver visionato il primo montaggio del suo ultimo film: L’innocente, tratto dal celebre romanzo di Gabriele d’Annunzio, si spegneva a Roma, Luchino Visconti di Modrone, Nobile dei duchi, Duca di Grazzano Visconti, Conte di Lonate Pozzolo, Signore di Corgeno, Consignore di Somma, Consignore di Crenna, Consignore di Agnadello, Patrizio Milanese. Questi i suoi titoli nobiliari. Non è affatto superfluo, come qualcuno potrebbe pensare, ricordare chi fosse e da dove provenisse il regista milanese, perché il tempo della scienza, misurabile, regolare, rettilineo non esaurisce mai il tempo della durata, composto da ricordi e interiorità, come ci avrebbe insegnato Bergson e come ce lo ha rivelato nel suo capolavoro de La recherche, Marcel Proust.

Il giovane Luchino si appassiona di teatro non ancora adolescente. E’ un lettore vorace di libretti teatrali, in particolare di Shakespeare. Naturalmente la vicinanza al Teatro alla Scala, cui la sua famiglia è da generazioni benefattrice, contribuisce in maniera non irrilevante ad accrescere in lui l’amore per la scena, per la rappresentazione delle passioni e dei desideri che si celano nell’intimo della natura umana. La permanenza parigina, avvenuta poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, gli permetterà di incontrare intellettuali come Jean Cocteau e di essere assistente alla regia di Jean Renoir, esperienza questa che costituirà la sua vera iniziazione al mondo del cinema. Sempre a Parigi, infine, si deve il suo incontro con il mondo comunista d’oltralpe e italiano, all’epoca in esilio proprio all’ombra della tour Eiffel.

Visconti, spirito libero, è visto con malcelato sospetto dalla sinistra a causa delle sue origini nobiliari, cosa questa che lo accompagnerà per tutta la vita e spesso servirà da pretesto per catalogare aprioristicamente i suoi film come frutto di uno spirito reazionario, nostalgico e conservatore. Ma il regista milanese, nei confronti di chi avrà da ridire sulle trame e sulla provenienza sociale dei protagonisti di alcune delle sue sceneggiature, ci terrà sempre a precisare:

[…] è invalsa la credenza, anch’essa singolare, che fare del realismo nel cinema voglia dire approfondire moti, sentimenti e problemi delle classi povere della nostra epoca. Come se fosse proibito a un regista realista indagare criticamente sui moti, sentimenti e problemi delle classi dominanti in una qualsiasi altra epoca, ricavandone una lezione d’attualità, naturalmente, allorché si va a ricercare nel passato i motivi che mossero o cristallizzassero determinati strati sociali.

Film che costituiranno quel corpus fatto di ricercatezza, scavo interiore e drammaticità – in una sintesi sua propria – che faranno di Visconti tra i massimi, se non il massimo, interprete del cinema italiano ed europeo del ‘900.

La doppia chiave di lettura che il regista milanese fornisce, in tutti i suoi film, assegna a questi un posto speciale, dal sapore quasi mistico, esoterico, mai circoscritto nella apparente semplicità della trama in cui si inscrivono le vicende narrate. In Senso (1954), per esempio, in una fosca atmosfera veneziana, ancora sotto il dominio austriaco, va in scena una tragica storia d’amore tra un’aristocratica che sogna e combatte per l’ideale unitario e un giovane tenente dell’esercito austriaco. L’amore unisce ciò che la politica non è in grado di unire, si potrebbe subito pensare; ma ad uno sguardo più profondo, svelatosi solamente nelle scene finali, si consuma la disfatta non tanto di una relazione amorosa, quanto di una classe dominante, universalmente considerata, all’indomani del trionfo della borghesia avida e bracconiera che ha ormai infettato dei suoi istinti mercantilistici anche le decadenti classi dominanti.

E’ proprio questa considerazione, questo atto di lesa maestà verso tutto un mondo, l’unico a cui era degno credere, quel mondo ove la Rivoluzione francese ancora non aveva fatto capolino, è ciò a cui allude il tenente Mahler, quando in preda alla disperazione, dinanzi al suo ormai consunto amore, afferma:

[…] cosa mi importa che i miei compatrioti abbiano vinto oggi una battaglia in un posto chiamato Custoza, quando so che perderanno una guerra e non solo la guerra; e l’Austria tra pochi anni sarà finita e un intero mondo sparirà, quello a cui apparteniamo tu ed io. Il nuovo mondo di cui parla tuo cugino non ha alcun senso per me.

La medesima aspirazione alla ricerca di un senso perduto, del resto, agita la mente e le membra di uno stanco ed esausto uomo come il principe di Salina nel Gattopardo (1964). Egli è costretto a guardare inerme le trasformazioni sociali e politiche della nascente Italia. Stato nuovo che ha come imperativo quello di creare italiani nuovi, come don Calogero Sedara, astro della borghesia in ascesa, dai modi villani e rozzi, che sa parlare solo di affari, di patrimoni e di nuove terre da incamerare, e con cui aristocratici come don Fabrizio devono venire a patti per la potenza economica e politica che questo nuovo ceto esprime. In una scena del film, il principe stesso, dialogando con don Pirrone, espone al meglio cosa avverrà presto:

Ho fatto importanti scoperte politiche. Sapete che succede nel nostro paese? Niente succede, niente. Solo un’inavvertibile sostituzione di ceti. Il ceto medio non vuole distruggerci, ma vuole solo prendere il nostro posto, con le maniere più dolci; mettendoci magari in tasca qualche migliaio di ducati. E poi tutto può restare com’è. Capite Padre? il nostro è il paese degli accomodamenti.

Luchino Visconti lascia al ballo finale la nostalgia nei confronti di un’epoca che sta volgendo al termine. Il valzer e lo sfarzo dei saloni dell’aristocrazia siciliana, dai cui soffitti respirano blasoni illustri, devono cedere il passo ai nuovi affamati, a coloro i quali i cerimoniali, il galateo e il bon ton appaiono come piccinerie da museo, a coloro i quali manca sia il senso dell’onore che della bellezza.

Nel 1971, con Morte a Venezia, il regista milanese consacrerà appositamente al tema della bellezza il suo film, tratto dal romanzo di Thomas Mann. Il compositore Gustav von Aschenbach rappresenta l’artista umanamente appagato, e proprio per questo profondamente irrequieto, che decide di passare un periodo di riposo a Venezia, alla ricerca spasmodica e disperata dell’idealtipo di bellezza. In un’atmosfera pregna di estetismo di un celebre e storico hotel veneziano, sul finire della Belle Epoque, il bello ideale si materializza in un adolescente di una nobile famiglia polacca. Seppur attraverso metodi discutibili, ricalcando la trama di Mann, Visconti mette in scena la capacità della bellezza di rompere qualsiasi schema interiore, di suscitare nell’anima di colui che la contempla energie inestinguibili, arrivando financo alla pazzia pur di coglierla, almeno per un istante.

La volontà di Luchino Visconti va al di là di una certa morbosità che in certe scene sembra adombrare il messaggio di fondo; essa, al contrario, esamina il desiderio umano, scruta nelle segrete della nostra coscienza per mostrare a noi spettatori che il desiderio di bellezza è inscritto nelle nostre più intime corde. Di un anelito religioso si tratta, evidentemente. Sconta, come questo, il rischio dell’esagerazione che manda in cortocircuito l’equilibrio umano. Le scene finali, che vedono il protagonista truccato, in preda ad una folle ricerca di quella bellezza tanto agognata, mostrano nella sua interezza proprio questo aspetto. Tuttavia, la morte di von Aschenbach, con cui si conclude il film, nell’istante in cui protende la mano verso il giovane Tadzio che scompare lungo l’orizzonte del mare, testimonia anche la perenne insoddisfazione di colui che ripone nelle creature non il miraggio, ma l’essenza del bello.

Bellezza e arte: anche qui, all’insegna di queste due coordinate si muove l’ultimo personaggio che Luchino Visconti volle mostrare nel suo film Ludwig (1973): vale a dire Ludovico II, il sovrano bavarese reso celebre per via dei fantasmagorici castelli che fece realizzare nella sua terra. Le fortezze di Neuschwanstein, Linderhof e Herrenchiemsee costituiscono non solo un portato significativo del suo reame, ma soprattutto rivelano lo spirito e la sensibilità di un personaggio storico nel quale il mistero che ha agitato la sua vita, sino ai momenti finali, costituisce il limite oltre cui, ancor oggi, gli stessi storici faticano a sporgersi. La pazzia, in tal modo, diviene la risposta più semplice, sbrigativa con il quale apostrofare un sovrano a cui non piaceva muover guerra, a cui non interessava prendere parte a manovre politiche, ma che aveva come unico interesse quello di far rivivere e riassaporare lo spirito degli eroi narrati nelle saghe nibelungiche e nei poemi cavallereschi e a cui il suo maestro e modello assoluto, Richard Wagner, si era ispirato dando ad esse nuova linfa nelle sue memorabili opere. Visconti, dal canto suo, ha un opinione molto chiara del sovrano bavarese:

Ludwig non era pazzo, non lo era più di quanto lo siamo noi, mentre lo ricordiamo.
(L. Visconti, Ludwig II secondo L.V.)

Non è errato considerare Ludwig come un sovrano che avesse in cuor suo nient’altra ambizione che quella di educare un popolo, il proprio, al gusto della bellezza. Non conto io, sembra dirci, conta ciò che vi ho trasmesso con i miei castelli, con il patrocinio da me destinato ad opere, a teatri, all’arte somma così come essa fu realizzata e trasmessa da Richard Wagner.

Sembrano attagliarsi alla perfezione, e persino suonare profetiche, le parole del filosofo colombiano Nicolas Gomez Davila, le quali riflettono il senso più profondo dell’insegnamento che Luchino Visconti, attraverso la figura di Ludwig, vuole dare:

Nei Paesi borghesi come in terra comunista l’evasione dalla realtà è deplorata in quanto vizio solitario, perversione debilitante e abietta. La società moderna scredita l’evaso per evitare che qualcuno ascolti il resoconto dei suoi viaggi. L’arte o la storia, l’immaginazione dell’uomo o il suo tragico e nobile destino non sono criteri che la mediocrità moderna tolleri. Tale “evasione” è la fugace visione di splendori perduti e la probabilità di un verdetto implacabile sulla società attuale.

Considerare, interrogarsi, lasciarsi cullare dai messaggi che Luchino Visconti dà con i suoi film non costituisce opera vana; al contrario, essi educano alla bellezza riflettendo, non di rado, la sua ancella più stretta: l’etica.

 

Diego Panetta

In morte di Giorgio Albertazzi

Giorgio Albertazzi, grande protagonista del teatro italiano, nonché uno dei primi divi televisivi, protagonista di letture letterarie e sceneggiati, si è spento lo scorso 28 maggio a Roccastrada, all’età di 92 anni. Attore decadente, libertino, “ateo come Kafka” (come amava definirsi lui stesso), dannunziano, spesso troppo prevedibile, enfatico e perifrastico, poco duttile a differenza di altri suoi colleghi (Carmelo Bene considerò il suo teatro addirittura squallida prosa), Giorgio Albertazzi tuttavia è stato senza dubbio un attore dalla grandissima personalità, brillante, con una verve inesauribile.

Giorgio Albertazzi: politica, teatro, cinema

“Il perdente di successo”, come lui stesso si definiva, si era appena sposato, con la nobildonna Pia De’ Tolomei, donna molto più giovane di lui, definita da Albertazzi come un “tramite tra Dio e l’uomo”. Albertazzi non si è mai pentito né ha mai rinnegato la sua adesione alla Repubblica Sociale, questione più volte al centro di aspre polemiche, anche dopo la sua morte; in più occasioni l’artista toscano aveva dichiarato di aver compiuto quella scelta per ragioni di famiglia e di ideale, precisando che per lui e altri si era trattato della scoperta di una via socialista anticlericale, dell’idea della Carta del lavoro e contro il re, della partecipazione dei lavoratori agli utili delle aziende, dell’istinto della libertà e dell’anarchia, che lo avevano anche spinto ad essere “di sinistra”, come alcune delle persone più importanti della sua vita come Luchino Visconti e Anna Proclemer, e come andava in voga durante quegli anni.

Etichettato dai militanti di Rifondazione come “fucilatore non pentito”, l’attore ha sempre smentito di aver fucilato qualcuno, non sapeva nulla dei campi di sterminio ma già allora non aveva simpatia per i tedeschi e ricordava di quando (all’epoca era sottotenente), i tedeschi consegnarono ai soldati italiani due disertori, addestrati in Germania, inquadrati nell’esercito della Rsi, fuggiti e ripresi; avrebbero potuto essere fucilati immediatamente e invece furono processati; uno fu assolto, l’altro condannato a morte. Si sperò fino alla fine di risparmiarlo ma il comandante del reggimento ordinò: o lui, o loro. Era la guerra ed è troppo facile fare gli eroi adesso, e dare addosso ad Albertazzi non avendo vissuto quegli anni e dimenticando che il mondo della cultura italiana del dopoguerra, oltre ad Albertazzi, ha visto come protagonisti molti ‘repubblichini’ tra cui Dino Buzzati, Walter Chiari, Amedeo Nazzari, Ugo Tognazzi, senza contare il fatto che quasi tutti in quegli anni di dittatura, erano (anche solo apparentemente) fascisti e anche per qualsiasi oppositore era più opportuno e conveniente (per la propria vita) portare la camicia nera di giorno ed essere sobillatori di notte.

Albertazzi, ha recitato ogni opera, ogni autore, Sofocle, Shakespaeare, Miller, Dostoevskij, Ibsen, Dante; nel cinema ha recitato per Alain Resnais, nel film L’anno scorso a Marienbad (1961), ambizioso film sull’inganno della verità della memoria, importante per comprendere gli sperimentalismi degli anni sessanta, ma anche clamoroso insuccesso di pubblico e in Eva di Joseph Losey (1962) per poi ritornare definitivamente al teatro e al teatro sceneggiato per la tv (indimenticabili Delitto e castigo, Gli spettri, Piccolo mondo antico, L’idiota Don Giovanni, Vita di Dante), dati gli insuccessi cinematografici, dovuti soprattutto alla bassa qualità delle pellicole (5 donne per l’assassino, Mark il poliziotto, Tutti gli anni una volta l’anno).

<<Gassman aveva il corpo, Carmelo Bene il talento ma io sono Re Lear e vorrei morire sul palcoscenico>>, soleva dire Giorgio Albertazzi e, idealmente, così è stato.

 

10 frasi per innamorarsi di Luchino Visconti

Luchino Visconti, grandissimo regista del cinema e del teatro italiano ed internazionale, cultore di Marcel Proust, raffinato, lirico, dannunziano (Senso, L’innocente, La caduta degli dei, Morte a Venezia) e popolare (Ossessione, La terra trema, Bellissima) al contempo, magniloquente, maniacale nel modo filmare, di decorare le scenografie e persino gli interni dei cassetti che nessuno avrebbe visto, ha realizzato capolavori immortali della storia del cinema, sfidando la propria omosessualità e portando sul grande schermo il suo sangue blu e la sua visione aristocratica del mondo unita alla sua educazione marxista che lo faceva propendere ideologicamente verso il proletariato. Ha saputo coniugare melodramma e realismo, sue grandi passioni stilistiche, prediligendo una tematica in particolare: quella relativa alla sfaldamento dei legami familiari.

Di seguito proponiamo 10 frasi tratte dai suoi film:

“Il denaro ha le gambe, e deve camminare. Altrimenti, se resta nelle tasche, prende la muffa”.
(Ossessione, 1943)

“Il genio è un dono di Dio. Anzi no, è una punizione di Dio, un divampare peccaminoso e morboso di doti naturali”. (Morte a Venezia, 1971)

“I siciliani non vorranno mai migliorare, perché si considerano già perfetti. In loro la vanità è più forte della miseria”. (Il Gattopardo, 1963)

L’amore? Già, certo, l’amore… Fuoco e fiamme per un anno, e cenere per trenta”. (Il Gattopardo)

“Sono un disertore perché sono un vigliacco, e non mi dispiace di essere né un disertore né un vigliacco. Cosa m’importa che i miei compatrioti abbiano vinto oggi una battaglia in un posto chiamato Custoza quando so che perderanno la guerra e non solo la guerra… E l’Austria fra pochi anni sarà finita, e un intero mondo sparirà: quello a cui apparteniamo tu ed io. E il nuovo mondo di cui parla tuo cugino non ha nessun interesse per me: è molto meglio non essere coinvolti in queste storie e prendersi il proprio piacere dove lo si trova”. (Senso, 1954)

“Ecco la guerra che gli italiani preferiscono: pioggia di coriandoli con accompagnamento di mandolini”. (Senso)

“Rocco è un santo. Ma nel mondo in cui viviamo, nella società che gli uomini hanno creato, non c’è più posto per i santi come lui: la loro pietà provoca dei disastri”. (Rocco e i suoi fratelli, 1960)

“La fortuna bisogna farsela venire”. (Rocco e i suoi fratelli)

“Vedi, Gunther, tu questa notte hai conquistato qualcosa di veramente straordinario. La brutalità di tuo padre, l’ambizione di Friedrich, la stessa crudeltà di Martin, non sono assolutamente nulla a confronto di quello che tu adesso possiedi: l’odio, Gunther. Tu possiedi l’odio, un odio giovane, puro, assoluto. Ma sta’ attento: questo potenziale d’energia e furore è troppo importante per farne la ragione di una personale vendetta: sarebbe un lusso, uno spreco inutile. […] Tu verrai con me: noi ti insegneremo ad amministrare questa tua immensa ricchezza, ad investirla nel modo giusto”. (La caduta degli dei, 1969)

“C’e uno scrittore, del quale tengo i libri in camera mia e che rileggo continuamente… Racconta di un inquilino che un giorno si insedia nell’appartamento sopra il suo. Lo scrittore lo sente muoversi, camminare, aggirarsi. Poi tutt’a un tratto sparisce, e per lungo tempo c’è solo il silenzio. Ma all’improvviso ritorna. In seguito le sue assenze si fanno più rare, e la sua presenza più costante. È la morte”. (Gruppo di famiglia in un interno, 1974)

 

Dal romanzo al film: L’innocente, l’ultimo sguardo critico di Luchino Visconti

L’ultima opera del maestro Luchino Visconti prima di andarsene, e dopo essersi dedicato ad un primo montaggio. L’innocente (1976) non venne ritoccato né dai collaboratori di Visconti né dagli sceneggiatori Cecchi D’Amico e Medioli.

I titoli di testa del film riportano l’ultimo messaggio, l’ultimo saluto del regista più lirico che ha avuto il cinema italiano: le sue mani che sfogliano una vecchia edizione del romanzo L’innocente di Gabriele d’Annunzio. Cosa avrà spinto l’aristocratico regista a trasferire su pellicola il più tradizionale dei romanzi del poeta-vate? Forse i giudizi lusinghieri sul romanzo espressi, tra gli altri, da Marcel Proust, scrittore molto amato da Visconti e di cui avrebbe voluto realizzare La ricerca del tempo perduto? In effetti, a differenza de Il piacere, primo romanzo decadente e post-naturalista della nostra letteratura, L’innocente si muove tra naturalismo e decadentismo, (guardando ai grandi romanzi russi), e proprio questo discrimine tra le due categorie storico-critiche (specialmente l’ultima) probabilmente ha attratto Visconti insieme all’atmosfera crepuscolare e dimessa rispetto alle precedenti opere.

Tale supposizione trova riscontro nel secondo periodo della produzione del regista, caratterizzato da un certo gusto per il decadentismo.Tuttavia sono il disagio interiore e la gelosia del protagonista, Tullio Hermil, ricco ed aristocratico uomo che tradisce la propria moglie, che proiettano il romanzo nel Novecento, anticipando la figura dell’inetto sveviano e ad attrarre Luchino Visconti.

Vi sono profonde differenze sostanziali e narrative tra il libro e il film:nel romanzo Tullio è sposato con Giuliana e hanno due figlie, nel film l’infelice coppia non ne ha, la figura quasi invisibile di Teresa Raffo, amante di Tullio e proposta nel film come presenza indipendente e addirittura giudicante del comportamento e del gesto di Tullio che uccide il figlio di Giuliana concepito con lo scrittore Filippo D’Arborio, dopo averlo esposto al gelo durante la notte di Natale. Ma soprattutto, mentre D’Annunzio lascia sopravvivere Tullio al suo crimine, Visconti lo rende suicida, in quanto secondo il regista l’aristocratico conservatore è incapace di scendere a compromessi con la modernità, con l’emancipazione femminile, soprattutto dopo il rifiuto di Teresa Raffo che lo indica come “mostro” escludendo qualsiasi possibilità di amarlo ancora. Certamente Tullio non si toglie la vita per rimorso ma perché, da perfetto superuomo, il quale si considera al di sopra della legge, e convinto esponente di un mondo che vuole plasmare il ‘resto’ del mondo, non può accettare la propria fine e quindi preferisce disporre lui della sua vita, di fronte al fallimento e alla decadenza.

Se L’innocente dannunziano è un romanzo-confessione/giustificazione che mira a raccontare un male inesorabile, un odio invincibile, sia mentale che morale che attanaglia l’ateo e dongiovanni Tullio tra ritorni ad un’equivoca bontà di matrice tolstoiana e continui tradimenti, L’innocente viscontiano è un sottile ritratto della Roma umbertina e del suo clima culturale,da questo punto di vista Visconti non si allontana dal suo leitmotiv: il crollo di un mondo, di una società filmati attraverso la sconfitta e l’agonia esistenziale di uno o più individui che ne rappresentano la classe vigente. Pur curando l’aspetto strettamente umano, le dinamiche relazionali,la condizione femminile (l’aborto in particolar modo), Visconti pone la sua raffinata lente d’ingrandimento sul male di Tullio e sul suo non far nulla per tenerlo a bada, per eseguire il requiem di un’epoca.

Non c’è spazio per approfondimenti di tipo psicologico ne L’innocente, Visconti piuttosto privilegia gli arredamenti principeschi, gli abiti d’alta sartoria, accessori preziosi, quasi a voler evidenziare ancora di più l’atmosfera di morte che pervade il film (allontanandosi anche per quanto riguarda questo aspetto dal romanzo).
Le nette differenze tra romanzo e film hanno suscitato non poche perplessità tra la critica, in realtà la rilettura che propone Visconti mostra coerentemente continuità con molte delle sue opere precedenti ( si potrebbe fare un parallelo tra Tullio e Ludwing, entrambi personaggi tragici, votati ai miti di grandezza) proprio il romanzo di D’Annunzio, usandolo come pretesto per raccontare, attraverso un linguaggio bellissimo, anche altro. Questa è la vera tragedia e Luchino Visconti ne è il maestro.

 

L’innocente-scheda film
Anno: 1976
Durata: 135′
Genere: Drammatico
Regia: Luchino Visconti
Fotografia: Pasqualino De Santis
Musica: Franco Mannino
Temi musicali tratti da: Sinfonia Concertante di W. Amadeus Mozart
Sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli, Luchino Visconti
Cast: Laura Antonelli (Giuliana), Giancarlo Giannini (Tullio Hermil), Jennifer O’neil (Teresa Raffo), Marc Porel (Filippo D’Arborio), Massimo Girotti (conte Stefano Egano), Rina Morelli (madre di Tullio).
Costumi: Piero Tosi
Scenografia: Mario Garbuglia
Produzione: Rizzoli Film

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