Il teatro in Italia dal fascismo al dopoguerra (Parte 2)

Il teatro, già oggetto di fermenti innovatori nei primi decenni Novecento, si ritrova con l’avvento del fascismo ad essere investito di nuove importanti trasformazioni. L’intervento del regime riguarda principalmente gli aspetti organizzativi della produzione di spettacoli.

Nel 1929 vengono inaugurati i Carri di Tespi, teatri mobili, incaricati di portare nelle città di provincia degli spettacoli popolari allestiti in collaborazione con i Dopolavoro fascisti. La scelta di far esibire questa compagnia girovaga non è di certo casuale: il regime, infatti, intende regolamentare la vita teatrale in ogni suo aspetto, scoraggiando in ogni modo qualsivoglia iniziativa estranea alla loro politica totalitaria.

L’anno successivo vengono istituite le Corporazioni dello Spettacolo, con l’intento di regolare i vari settori della produzione teatrale. All’utopia pirandelliana di un teatro di Stato, che garantisse democraticamente ai teatranti, i finanziamenti necessari per l’allestimento delle proprie opere, il regime preferisce adottare la politica dei premi e delle sovvenzioni.

Le compagnie teatrali

A tutte le produzioni che riscuotevano maggiore successo venivano elargiti incentivi economi. Il sistema delle sovvenzioni condiziona profondamente la vita teatrale, svilendo sia la figura dell’attore che della forma d’arte in sé.

Le compagnie, infatti, per incentivare gli incassi, iniziano a puntare su repertori diversi e più accessibile ridurre i periodi di prove e moltiplicare le repliche.

Il frenetico inseguimento del successo e la necessità di cambiare di continuo il repertorio spingono gli impresari ad ingaggiare gli attori per una sola stagione.

La compagnia cessa di essere la palestra privilegiata per l’allenamento e l’apprendimento dell’attore. L’attore si ritrova isolato, deve semplicemente funzionare bene all’interno dell’ingranaggio di una compagnia.

Le personalità di spicco in teatro: da Ugo Betti a Luigi Squarzina fino a Luchino Visconti

Il teatro, nel periodo fascismo, tranne Luigi Pirandello non conta grandi figure di autori teatrali. Sul piano della produzione drammaturgica l’unico autore di rilievo è Ugo Betti( 1892-1953), un magistrato cattolico che approfondisce nei suoi scritti il motivo della colpa e della responsabilità attraverso lo schema dell’inchiesta giuridica.

Betti eleva il dramma borghese alla tragedia, ponendo i suoi personaggi in condizioni estreme. Sono degli anni Trenta le suo opere migliori: Frana allo scalo Nord (1932), I nostri sogni (1936) e Notte in casa del ricco (1938).

Negli anni della guerra scrisse Ispezione e Corruzione al Palazzo di Giustizia, uno dei suoi lavori più tipici, incentrato su un’indagine di corruzione di alcuni magistrati; nel dopo guerra Acque turbate (1948) e la Fuggitiva (1952-53)

Gli stessi temi del processo morale, della colpa e delle responsabilità, tornano nell’immediato dopoguerra nelle opere di un altro autore cattolico, Diego Fabbri (1911-1980): Inquisizione (1946) e Processo a Gesù (1955)

Nell’immediato dopo guerra inizia a farsi forte il fervore del Neorealismo postbellico. A renderne meglio il clima è un autore, anche notevolissimo regista, Luigi Squarzina.

Nella sua prima opera, L’esposizione universale (1948), si rifà al modulo della cronaca tipico del nascente clima culturale e letterario. Anche Tre quarti di luna (1952), La sua parte di storia (1955) e la Romagnola rientrano nel clima morale e politico dell’antifascismo e della lotta di Resistenza.

Iniziano a diffondersi in quegli anni, sul modello del Piccolo Teatro di Milano, i Teatri stabili, sovvenzionati dallo Stato. Nel contempo si istituzionalizza la figura del regista, nata a cavallo tra le due guerre. Si afferma un tipo di spettacolo che prevede la presenta di un nuovo “autore” della scena, che controlla e dirige gli attori nella realizzazione di un prodotto replicabile.

In questo panorama operano nomi come Giorgio Strehler e Luchino Visconti che contribuiscono in maniera decisiva a fare del regista il creatore unico dello spettacolo teatrale.

 

Il teatro e la tradizione dialettale napoletana: Da Eduardo Scarpetta ai fratelli De Filippo

Nel teatro napoletano, accanto all’estro del macchiettista Raffaele Viviani, spunta un’altra figura di spicco, che documenta e incarna il passaggio dal teatro di varietà al dramma in dialetto è Eduardo Scarpetta anch’egli attore-autore di commedie in dialetto napoletano.

Scarpetta muore nel 1925 lasciando in eredità ai figli naturali (avuti con Luisa De Filippo) una scuola di teatro, in cui si formarono i suoi tre figli i  Peppino, Titina e Eduardo De Filippo. Della stessa scuola napoletana è il famoso attore comico Antonio De Curtis, in arte Totò.

I tre fratelli De Filippo istituiscono nel 1929 la Compagnia del teatro umoristico che si prolunga sino al 1944, quando Peppino se ne dissocia. Sino a quel momento i testi sono scritti dai due fratelli, Eduardo e Peppino.

Mentre Peppino si rivela soprattutto grande attore comico, il primo unisce alle abilità attoriali anche quelle di un notevole scrittore. Capacità che emergono, in particolare, dopo il 1944, quando Eduardo insieme alla sorella Titina danno vita al Teatro di Eduardo fino al 1953. L’anno successivo lo stesso Eduardo inizia a dirigere la Compagnia Scarpettiana

Sino al 1944 Eduardo è autore di commedie farsesche, dove riprende la figura di Pulcinella, personaggio maltrattato e deriso che però alla fine riesce a prendersi gioco degli altri con la sua amara saggezza.

In questo primo periodo- le cui opere sono riunite in Cantata dei giorni pari– la più riuscita è Natale in casa Cupiello (1931) costruita sul contrasto tra l’illusione della festa e l’amara consapevolezza della dolora realtà della vita.

Dopo il 1944 Eduardo si concentra, invece, su produzioni più realistiche, complesse e ricche di sfumature tipiche del genio pirandelliano. Questa nuova stagione- raccolta in Cantata dei giorni dispari– comincia con Napoli Milionara (1945), una commedia ambientata a Napoli negli anni della guerra, in cui si avverte un forte ecco dei Malavoglia di Verga. Altre grandi opere di Eduardo sono Filomena Marturano(1946) scritta per la sorella Titina, attrice nella stessa commedia; Questi Fantasmi (1946) e Le voci di dentro (1948)

 

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Luigi Pirandello: studi onomastici intorno ad ai personaggi di Mattia Pascal, Adriano Meis e Vitangelo Moscarda

Luigi Pirandello è uno degli autori italiani a quali sono stati dedicati innumerevoli studi di onomastica letteraria negli ultimi anni. L’Onomastica è il ramo della Linguistica che si occupa di studiare gli antroponimi ossia i nomi propri di persona.  La scelta onomastica affonda le sue radici nella poetica pirandelliana, nel suo relativismo, nel pedissequo contrasto tra forma e realtà e tra persona e personaggio.  L’uomo moderno è investito da una profonda crisi d’identità. L’autenticità della vita è costantemente messa a rischio dai meccanismi sociali che imprigionano l’uomo in una rete di convenzioni ed infigimenti e gli impongono l’identità fittizia di una maschera. Due sono le maschere: una indossata da noi e l’altra imposta da chi ci osserva. Da uno si diventa centomila e infine nessuno. Si smette di essere persona e ci si confina ad essere personaggio con una propria forma che si ripete indefessamente fino a giungere alla completa disgregazione dell’io. Il nome è tutto soprattutto quando si è convinti di vivere come personaggi.

Luigi Pirandello e l’importanza di chiamarsi

Per Luigi Pirandello il sistema onomastico è un gioco antinomico tra il nome proprio della persona e il nome letterario del personaggio. Luigi Sedita scrive “Il nome, anche per Pirandello, rappresenta la persona e la rimemora, ma sarà una persona diversa secondo i ‘centomila’ che le si rapportano e ne frantumano l’unità vanificandola in un angoscioso ‘nessuno’. Il segno onomastico conferisce certezza anagrafica al portatore, ma incapace di trasmettere il mondo «indiviso e pur vario» dello spirito, implica una dispersione esistenziale e pesa come un ingombro alienante. Se è dubbio che il nome proprio riassuma intera la persona, certamente quello letterario per Pirandello rappresenta invece il personaggio: il quale, però, dissentendo dall’autore, non sempre vi si riconosce.” Questa antinomia affonda le sue radici nello archetipo del Cratilo Platonico: Cratilo sosteneva che i nomi non venissero attribuiti per convenzione bensì che fossero collegati all’intima natura della cosa designata. Pirandello abbraccia in toto la riflessione cratiliana e ne fa un baluardo per le denominazioni dei suoi personaggi. L’interesse nei confronti dello scrittore novecentesco è sicuramente alto soprattutto perché ogni nome   assume riflessioni antropologiche, metalinguistiche e psicologiche.

L’attribuzione del nome è l’atto primario per la nascita del personaggio alla luce dell’arte, la certificazione della sua esistenza in vita, ma anche l’atto di riconoscimento e di affiliazione da parte dell’autore” precisa Sedita.

Nel coniare un nome o riadattandone uno esistente Luigi Pirandello compie una sorta di codificazione o ricodificazione, lasciando al lettore il compito della decodificazione. Il lettore deve scomporre, analizzare, scandagliare e riflettere. Nessun nome è casuale ma reca in sé un messaggio tutto da scoprire.

Mattia Pascal e Adriano Meis

Mattia Pascal è il protagonista del romanzo il Fu Mattia Pascal ma anche il personaggio a cui Pirandello si ispira per scrivere L’uomorismo. Luigi Pirandello nella premessa del Fu mattia Pascal scrive:

Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:

— Io mi chiamo Mattia Pascal.

— Grazie, caro. Questo lo so.

— E ti par poco?

Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza:

— Io mi chiamo Mattia Pascal.

Le interpretazioni onomastiche circa questo nome sono svariate. La prima, più semplice, ci viene suggerita dal Pirandello attraverso le parole di Roberto Pascal, fratello di Mattia: «Mattia, l’ho sempre detto io, Mattia, matto… matto! Ma no! Matto!». E quanto al cognome, esso è identico a quello di Théophile Pascal, uno degli autori teosofici del signor Paleari, l’affittacamere del romanzo.

L’altra è più peculiare e affonda la sua origine nei testi sacri. Il nome e il cognome Mattia Pascal sono collegati con il tema della Resurrezione. Mattia, negli Atti degli Apostoli (I, 15-26), è il seguace di Cristo che, dopo il tradimento di Giuda, «fu associato agli undici apostoli» come testimone della Resurrezione. Il cognome Pascal rimanda alla Pasqua e alla Resurrezione. Nome e cognome ribadiscono l’ansia di resurrezione del personaggio.  Ad un certo punto Mattia desidera cambiare identità. Per attuare il suo disegno di palingenesi è costretto a cambiare nome:

Il nome mi fu quasi offerto in treno, partito da poche ore da Alenga per Torino.

Viaggiavo con due signori che discutevano animatamente d’iconografia cristiana, in cui si dimostravano entrambi molto eruditi, per un ignorante come me.

Uno, il più giovane, dalla faccia pallida, oppressa da una folta e ruvida barba nera, pareva provasse una grande e particolar soddisfazione nell’enunciar la notizia ch’egli diceva antichissima, sostenuta da Giustino Martire, da Tertulliano e da non so chi altri, secondo la quale Cristo sarebbe stato bruttissimo.

Parlava con un vocione cavernoso, che contrastava stranamente con la sua aria da ispirato.

— Ma sì, ma sì, bruttissimo! bruttissimo! Ma anche Cirillo d’Alessandria! Sicuro, Cirillo d’Alessandria arriva finanche ad affermare che Cristo fu il più brutto degli uomini!

L’altro, ch’era un vecchietto magro magro, tranquillo nel suo ascetico squallore, ma pur con una piega a gli angoli della bocca che tradiva la sottile ironia, seduto quasi su la schiena, col collo lungo proteso come sotto un giogo sosteneva invece che non c’era da fidarsi delle più antiche testimonianze.

— Perchè la Chiesa, nei primi secoli, tutta volta a consustanziarsi la dottrina e lo spirito del suo ispiratore, si dava poco pensiero, ecco, poco pensiero delle sembianze corporee di lui.

A un certo punto vennero a parlare della Veronica e di due statue della città di Paneade, credute immagini di Cristo e della emorroissa.

— Ma sì! — scattò il giovane barbuto. — Ma se non c’è più dubbio ormai! Quelle due statue rappresentano l’imperatore Adriano con la città inginocchiata ai piedi.

Il vecchietto seguitava a sostener pacificamente la sua opinione, che doveva esser contraria, perchè quell’altro, incrollabile, guardando me, s’ostinava a ripetere:

— Adriano!

— …Beroníke, in greco. Da Beroníke poi: Veronica…

— Adriano! (a me).

— Oppure, Veronica, vera icon: storpiatura probabilissima…

— Adriano! (a me).

— Perchè la Beroníke degli Atti di Pilato…

— Adriano!

Ripetè così Adriano! non so più quante volte, sempre con gli occhi rivolti a me.

Quando scesero entrambi a una stazione e mi lasciarono solo nello scompartimento, m’affacciai al finestrino, per seguirli con gli occhi: discutevano ancora, allontanandosi.

A un certo punto però il vecchietto perdette la pazienza e prese la corsa.

— Chi lo dice? — gli domandò forte il giovane, fermo, con aria di sfida

Quegli allora si voltò per gridargli:

— Camillo De Meis!

Mi parve che anche lui gridasse a me quel nome, a me che stavo intanto a ripetere meccanicamente: — Adriano… — Buttai subito via quelde e ritenni il Meis.

— Adriano Meis! Sì… Adriano Meis: suona bene…

Mi parve anche che questo nome quadrasse bene alla faccia sbarbata e con gli occhiali, ai capelli lunghi, al cappellaccio alla finanziera che avrei dovuto portare.

— Adriano Meis. Benone! M’hanno battezzato.

 

Sul piano onomastico Mattia Pascal e Adriano Meis sono riconducibili alla figura di Cristo. Nel romanzo si assiste ad una duplice mancata resurrezione il progetto di Mattia Pascal di rinascere in Adriano Meis e la reincarnazione di Adriano in Mattia. Mattia inizialmente è una persona reale ma alla fine il protagonista non è né Mattia né Adriano ma un uomo vuoto, senza identità. Un’ombra imprigionata in una vita senza nome. Il fluire onomastico va dal nome proprio di persona al nome letterario del personaggio e viceversa e nel finale tutto si frantuma a favore di un completo sradicamento dalla realtà e uno sgretolamento dell’io: “L’ombra di un morto ecco la mia vita rifletteva aggiungendo: Ma sì! così era! Il simbolo, lo spettro della mia vita era quell’ombra. Ecco quel che restava di Mattia Pascal, morto alla stià: la sua ombra”

 

Vitangelo Moscarda

Luigi Pirandello in una lettera a Bontempelli del 26 maggio 1910 scriveva: «Se sapesse in quale tetraggine io mi sento avviluppato, senza più speranza di scampo! Lo vedrà dal mio prossimo romanzo: Monarda – Uno, nessuno e centomila». Monarda, dunque, doveva essere il nome del protagonista del romanzo. Dal greco mónos ‘solo, unico’ e il suffisso con valore negativo –arda. Un antroponimo che in maniera lapalissiana suggeriva la disperata aspirazione di chi vuol sentirsi “Uno”, ma si scopre “Nessuno” perché angosciosamente “Centomila” per gli altri.

Forse proprio questa immediata corrispondenza aveva spinto Luigi Pirandello a sostituire Monarda con Moscarda. Alcuni in questo cognome leggono lo pseudonimo dell’autore Luigi Pirandello che negli ultimi versi della raccolta Fuori di chiave si era identificato con “mosca senz’ale”. L’altro riferimento è sicuramente all’insetto mosca. Il cognome Moscarda acconto al nome Vitangelo innesca un meccanismo antinomico, un onomastico sentimento del contrario: l’ossimorica corrispondenza –angelo, figura angelica librata del nome e l’insetto Mosca, imprigionato nel cognome. Lo stesso Vitangelo Moscarda si riferisce al suo cognome in questi termini:

“Il nome, sia: brutto fino alla crudeltà. Moscarda. La mosca, e il dispetto del suo aspro fastidio ronzante.
Non aveva mica un nome per sé il mio spirito, né uno stato civile: aveva tutto un suo mondo dentro; e io non bollavo ogni volta di quel mio nome, a cui non pensavo affatto, tutte le cose che mi vedevo dentro e intorno. Ebbene, ma per gli altri io non ero quel mondo che portavo dentro di me senza nome, tutto intero, indiviso e pur vario. Ero invece, fuori, nel loro mondo, uno – staccato – che si chiamava Moscarda, un piccolo e determinato aspetto di realtà non mia, incluso fuori di me nella realtà degli altri e chiamato Moscarda”.

Da questo passo di Uno nessuno e centomila appare chiaro di come Vitangelo non si riconosca nel cognome che porta. E questo è solo il primo passo che lo condurrà al completo straniamento che avverrò alla fine della narrazione:

Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita.

Viatangelo Moscarda come Mattia Pascal riconoscono la non giustezza del loro nome perché incongruente con il loro mondo e la loro anima. All’anticratilismo dei personaggi si oppone il cratilismo dello scrittore per il quale il legame tra personaggio e nome resta indissolubile.

Questi sono solo due dei personaggi pirandelliani presi in esame per l’analisi onomastica ma tutte le opere di Luigi Pirandello sono costellati da una copiosa quantità di nomi, tutti diversi tutti portatori di significati alla ricerca del lettore più curioso e capace di scoprirli. Luigi Pirandello è capace di solleticare l’attenzione: in un perenne gioco di specchi rimette sempre tutto in discussione, sradicando le nostre certezze e trascinando il lettore nell’alveo di una proficua ambiguità, delegando al lettore la possibilità di sciogliere tutti gli enigmi. L’autore non smette mai di offrire punti di vista sempre inediti e questo non solo gli conferisce una disarmante ed infinità attualità ma risponde all’assunto della Letteratura, l’inesauribile arte di raccontare.

 

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Il teatro in Italia nel primo ‘900: da Marinetti a Chiariello

In Italia le forme ottocentesche del Teatro verista, il Teatro dialettale e il dramma borghese agli inizi del novecento, vengono messe in discussione e soppiantate da altri generi teatrali. I primi ad operare in questo contesto sono gli avanguardisti del movimento futurista di Filippo Tommaso Marinetti.
Tre sono i manifesti dedicati al teatro.

Tre sono i manifesti che i futuristi hanno dedicato al teatro. Il primo approccio alle questioni teatrali è costituito dal Manifesto dei drammaturghi futuristi del 1911, nel quale l’intero sistema del “mercato culturale” dell’epoca viene criticato per aver trasformato il prodotto artistico in merce. Un’arte che per essere venduta, si basa su luoghi comuni, lusingando e accrescendo la pigrizia del pubblico.
Il manifesto, al contrario, teorizza un teatro che induce a riflettere e ad avere un atteggiamento critico nei confronti di ciò che viene rappresentato. I procedimenti stilistici impiegati sono la deformazione, lo straniamento e la gestualità esagerata con lo scopo di stimolare reazioni ed impedire l’adesione passiva degli spettatori. I futuristi, in particolare, propugnano il disprezzo del pubblico: i fruitori non devono essere accontentati ma scossi con proposte estreme. Il manifesto arriva ad ostentare la voluttà di essere fischiati, perché nulla più dell’insuccesso garantisce la riuscita della provocazione.

Famose in questo senso sono le “serate futuriste” in cui i membri del movimento espongono testi poetici, declamano manifesti, presentano brani musicali e quadri futuristi. Le serate, per il loro intento provocatorio spesso si concludevano con diverbi, scontri fisici e risse tra i partecipanti e gli avanguardisti.

L’innovazione più grande consiste nel proporre una scrittura drammaturgica originale che riflettesse la vita moderna, «esasperata dalle velocità terrestri, marine ed aeree e dominata dal vapore e dall’elettricità» lontana dunque dall’esaltazione di eroi, dagli stereotipi come le storie d’amore travagliate, l’adulterio e racconti pietosi e commoventi tipici delle forme teatrali passate.

Con il manifesto Il Teatro di varietà del 1913 Marinetti individua nel Teatro di varietà la forma di spettacolo più vicina alle tendenze futuriste, ritenendolo «il più igienico fra tutti gli spettacoli, pel suo dinamismo di forma e di colore (movimento simultaneo di giocolieri, ballerine, ginnasti, cavallerizzi multicolori, cicloni spiralici di danzatori trottolanti sulle punte dei piedi). Col suo ritmo di danza celere e trascinante, trae per forza le anime più lente dal loro torpore e impone loro di correre e di saltare».

Due anni dopo nel 1915 esce l’altro manifesto Teatro futurista sintetico in cui si propone una forma di teatro «sintetico», «atecnico» (al contrario della scrittura drammatica del teatro borghese, naturalista e tecnica), «dinamico» e «simultaneo» («cioè nato dall’improvvisazione, dalla fulminea intuizione, dall’attualità suggestionante e rivelatrice»), «autonomo», cioè svincolato dalla tradizione, «alogico» e «irreale». Nascondo così le sintesi futuriste: azioni teatrali sintetiche cioè brevi <<stringere in pochi minuti, in poche parole e in pochi gesti innumerevoli situazioni, sensibilità, idee, sensazioni, fatti e simboli>>.

Il Teatro grottesco

L’altra tipologia di teatro nata in opposizione al dramma borghese e alle forme teatrali tradizionali è il Teatro del grottesco. Di poco successivo al teatro futurista, si sviluppa nel periodo della prima guerra mondiale fino agli anni venti. Il termine grottesco appare per la prima volta nel 1916 come sottotitolo del dramma la Maschera e il volto di Luigi Chiariello. Il dramma avvia una tendenza tutta nuova e da l’impulso per quello che sarà poi definito teatro del grottesco. Il tema centrale di questo genere è il costante conflitto tra l’apparire ed l’essere: tra quello che siamo o crediamo di essere e come invece appariamo agli altri e le innumerevoli maschere che l’uomo deve indossare per essere accettato dalla società.

Molti esponenti della letteratura novecentesca aderiscono al teatro grottesco. Il più noto è senza dubbio Luigi Pirandello con i testi Così è (se vi pare) (1917), Il piacere dell’onestà (1917), La patente (1918), Il giuoco delle parti (1918). Altro nome di rilievo è Pier Maria Rosso San Secondo. Siciliano e amico di Pirandello che porta in scena innumerevoli opere grottesche Marionette che passione, Tre vestiti che ballano, La bella addormentata.

L’esperienza del grottesco coinvolge anche Massimo Bontempelli con il capolavoro Minnie la Candida. Questi drammi sono accomunati dalle stesse tematiche: vengono rappresentate, discusse, parodiate la bassezza e l’inautentica dei rapporti sociali.

Tutte queste nuove forme teatrali non solo hanno disgregato le strutture teatrali tradizionali, ma hanno gettato le premesse su cui si fonderanno gli sperimentalismi della seconda metà del novecento, grazie ai quali il teatro conoscerà un periodo davvero fortunato.

Fonti: Luperini: La scrittura e l’interpretazione
Baldi-Giusso: La letteratura

 

10 frasi per ricordare Luigi Pirandello a 150 anni dalla sua nascita

Luigi Pirandello, nato esattamente 150 anni fa ad Agrigento, è stato uno degli scrittori e drammaturghi più significativi del panorama letterario del ‘900, vissuto negli anni del crollo del positivismo e nel periodo dell’età giolittiana con la conseguente crisi dello Stato italiano. Questo senso di disagio si riversa inevitabilmente sull’uomo e l’intellettuale Luigi Pirandello che non si riconosce più e fatica a trovare una posizione all’interno della società. Da queste premesse si sviluppa il relativismo pirandelliano e quindi il contrasto tra forma e vita: l’uomo e le cose cambiano in base a chi li percepisce, dunque l’uomo non è uno solo ma ha tante forme: crede di essere unico ma è centomila e alla fine nessuno. Questo nessuno è costretto ad indossare una maschera per relazionarsi con la società, la quale impone dei condizionamenti sociali che impediscono il manifestarsi di una vita autentica. L’unico modo per sfuggire da questa condizione di falsità è la follia: attraverso di essa infatti l’uomo può smascherarsi e svelare il vero io. Questa è ciò che Luigi Pirandello definisce umorismo, sentimento del contrario. 

Tali tematiche esistenziali costellano tutta la poetica di Pirandello che in maniera eclettica incastona nei diversi generi da lui affrontati dai romanzi, alla saggistica, alla poesia alla narrativa fino al teatro. Le sue opere più celebri sono Il Fu Mattia Pascal, Uno nessuno e centomila, l’Umorismo, Novelle per un anno, Sei personaggi in cerca d’autore.

 

1.”Imparerai a tue spese che lungo il  tuo cammino incontrerai ogni giorno milioni di maschere e pochissimi visi”

2.”C’è una maschera  per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo, resti nessuno”

3.”E’ molto più facile  essere un eroe che un galantuomo. Eroi si può essere una volta tanto; galantuomini si dev’essere sempre”

4.”La vita o si vive o si scrive, io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola”

5.”Nulla è più complicato delle sincerità”

6.”Gli unici modi per fuggire dalla vita sono la pazzia e l’ironia”

7.”Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi il mio dolore, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io”

8,”Nulla atterrisce più di uno specchio una coscienza non tranquilla”

9.” E’ l’amore guardò il tempo e rise, perché sapeva di non averne bisogno. Finse di morire per un giorno, e di rifiorire alla sera, senza leggi da rispettare. Si addormentò in un angolo di cuore per un tempo che non esisteva. Fuggì senza allontanarsi, ritornò senza essere partito, il tempo moriva lui restava”

10. “Le anime hanno un loro particolare modo d’intendersi, d’entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nelle schiavitù dell’esigenze sociali”

 

 

Uno, Nessuno, Centomila. Il romanzo di Pirandello in scena con Enrico Lo Verso

Vitangelo Moscarda, il protagonista del romanzo Uno, Nessuno, Centomila di Luigi Pirandello, incarna alla perfezione la crisi dell’uomo moderno nell’eterna ricerca del sé autentico. In occasione dei 150 anni dalla nascita del genio siciliano, che ricorreranno il prossimo 28 giugno, il personaggio pirandelliano torna a vivere sui palchi di tutta Italia grazie alla voce dell’attore Enrico Lo Verso.

Un viaggio nei meandri della mente umana, quello proposto dal testo nell’adattamento e la regia di Alessandra Pizzi, che consente allo spettatore di immergersi, in un crescendo di tensione e di complessità, nella vita di Vitangelo Moscarda.

Il sipario si apre su una scenografia essenziale, dove a farla da padrone sono gli specchi che riflettono i mille occhi con cui viene visto Moscarda da amici, parenti, passanti… Un gioco di sguardi e di rimandi che fanno da cassa di risonanza ad una interpretazione magistrale di Lo Verso che, in scena, interpreta e costruisce i mille volti di Vitangelo e tutti i personaggi che abitano il romanzo.

A dominare sono però le parole, quelle taglienti e aguzze di Pirandello, che sezionano e sondano l’animo umano sospeso tra l’essere nel mondo e l’apparire nella società. Quale la via da intraprendere per raggiungere l’essenza, per essere finalmente l’uno? È una domanda molto contemporanea quella che si pone Pirandello, che oggi certamente assume sfumature diverse, ma che resta immutata nella sua natura di assoluta problematicità.

I Classici sono tali perché non passano mai di moda e, come in questo caso, lo spettatore è accompagnato in un viaggio all’interno di sé stesso e all’elaborazione di domande di senso che sono stimolo essenziale per un miglioramento soggettivo e, di conseguenza, collettivo.

Uno spettacolo intenso, assolutamente da vedere, che in più di cinquanta repliche ha fatto registrare il sold out. Il dato, che forse per alcuni addetti ai lavori impegnati in esasperate sperimentazioni sceniche potrà risultare sorprendente, dimostra come ancora oggi Pirandello sia capace di parlare al pubblico e lo fa con grande autorevolezza.

Lo spettacolo, che proseguirà il suo viaggio in giro per l’Italia anche nei prossimi mesi, è una produzione Ergo Sum.

“Pirandello poeta”, Selene Gagliardi al Barà Book di Roma

La scrittura del primo novecento non si trattiene, e quasi cent’anni dopo non risparmia nuove inaspettate energie. Le lezioni sono lì, e alcuni le colgono. E quando si parla di Pirandello, il non-letto  può dirsi superfluo? Per questo motivo segnaliamo un evento nella capitale: si terrà oggi 28 maggio alle ore 18,00 presso il caffè letterario Barà Book di Roma (Via dei Piceni, 23) il saggio intitolato Pirandello Poeta di Selene Gagliardi. L’evento sarà moderato da Vanda Mauceri, traduttrice e scrittrice.

L’opera è stata pubblicata da Augh! Edizioni, casa editrice viterbese (Alter ego). La scrittrice durante l’edizione del Salone internazionale del Libro di Torino ha incontrato i lettori, che hanno avuto l’occasione e il piacere di  farsi autografare i loro libri.

Selene Gagliardi rispolvera la faccia di un Pirandello che solo dagli anni ’60 è passata, con non poca fatica, sotto la lente degli scranni accademici, e presenta un libro che apre le porte alla lettura di un poeta pressoché misconosciuto.  E’ così che l’agrigentino Premio Nobel iniziava il suo pellegrinaggio letterario nella fase giovanile della sua produzione. Gagliardi con una prosa raffinata spiega come l’opera pirandelliana abbia seguito un andamento circolare che, dalle prime liriche, si è concluso con i grandi romanzi della solitudine umana nei ruoli sociali imposti e la falsità del vivere, come l’agevole predisposizione alla fisionomia delle maschere fino alla riflessione estetica sull’umorismo, infine la contrapposizione ai vati  Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio.

Selene Gagliardi, classe 1989, è laureata alla Facoltà Lettere e Filosofia alla Sapienza di Roma e lavora come editor per Editori Internazionali Riuniti ed Editrice Totem; è giornalista dal 2014 e scrive per la testata culturale Pauranka. Inoltre è anche organizzatrice di eventi come Librinfestival, prima kermesse del genere librario a nord di Roma. Già autrice del saggio letterario Gli ardimentosi enigmi di Gianna Maria Campanella, Pirandello Poeta è il suo secondo libro.

Ariosto visto da Pirandello

Senza dubbio la cultura letteraria novecentesca ha rinvenuto una proiezione speculare di sé più nelle fome del barocco piuttosto che in quelle rinascimentali e del classicismo cinquecentesco, esprimendo la propria identificazione con le immagini della dissonanza, smarrendo ogni tensione verso gli ideali di unità e integrità propri di un’idea classica di letteratura. Pensiamo a Luigi Pirandello e alla sua pratica dell’arte del contrasto e della contraddizione, distonica con i canoni della tradizione letteraria, che però esprime un giudizio sulla civiltà letteraria del rinascimento e in particolar modo su uno dei suoi massimi rappresentanti, Ludovico Ariosto, positivo ma a tratti ambivalente.

Pirandello discute il tema della Retorica, ovvero l’insieme delle codificazioni, del sistema di regole di origine classica entrate in crisi con il romanticismo:

<<La Retorica, insomma, era come un guardaroba: il guardaroba dell’eloquenza dove i pensieri nudi andavano a vestirsi. E gli abiti, in quel guardaroba, erano già belli e pronti, tagliati tutti sui modelli antichi, o meno adorni, di stoffa umile o mezzana o magnifica, divisi in tante scansie, appesi alle grucce e custoditi dalla guardarobiera che si chiamava convenienza. Questa assegnava gli abiti acconci ai pensieri che si presentavano ignudi>>.

Ma se Pirandello parla dei danni incalcolabili prodotti dagli schemi della Retorica, egli respinge generalizzazioni e codici astratti; la sua polemica non investe il rinascimento come idealità grande che ha illuminato il mondo, ma funzionalizza il discorso sul rinascimento e in particolare su Ariosto alla sua poetica, in cui si preoccupa di giustificare storicamente quella poetica, tracciando un quadro della tradizione dell’umorismo. La mente va inevitabilmente alle pagine dell’Avvertenza che Pirandello ha apposto in appendice alla terza edizione del Fu Mattia Pascal, specialmente dove egli ironizza sui critici idealisti ansiosi di ribadire che l’umanità sia qualcosa che consiste più nel sentimento che nel ragionamento.

Pirandello e l’umorismo

Nella prima sezione del saggio L’umorismo, il diagramma storiografico dell’umorismo appare come un movimento di trasgessione nei confronti dei canoni vincolanti di moduli retorici, basato sulle leggi di imitazione e ripetizione; la letteratura umoristica in Italia è stata alimentata, secondo Pirandello, da scrittori toscani di cui il capofila è stato Cecco Angiolieri, che lo scrittore siciliano definisce “di popolo”, ovvero lontani dalla scuola e dunque maggiormente inclini a distaccarsi dalla Retorica. Il riso italico nemico della Retorica è una forma di sconnessione anche se non è possibile identificarlo con l’umorismo in senso stretto in quanto quest’ultimo ha bisogno di una drammatizzazione e di un’immersione dell’autore stesso nel dramma, aspetto, questo, che non si riscontra mai nella poesia cavalleresca; da Pulci ad Ariosto prevale una forma di ironia che riduce o annulla contrasti troppo violenti, che invece esploderanno in Cervantes. Ariosto non scrive, come Pulci, per parodiare la “lingua buffona del popolo”, né come Boiardo, per “buon tempo e gradito sollazzo” al pubblico; Ariosto è più “serio” da questo punto di vista.

Pirandello parte dalla considerazione che bisogna respingere l’idea sostenuta dal filologo Rajna, secondo cui l’autore dell’Orlando furioso con sorriso incredulo trasforma in fantasmi i personaggi dell’Orlando innamorato; al contrario egli dà a quei personaggi ciò che a loro manca: consistenza e fondamento di verità fantastica e coerenza estetica. Ma in questo gioco, spesso irrompe la realtà, quella del presente e si dispiega l’ironia che però non stride. Significativo a tal proposito è il commento dell’episodio del castello di Atlante dove si incastonano, nota Pirandello, due magie: il poeta diviene un mago e fa entrare Angelica viva nel castello. Ad una prima finzione si sovrappone una seconda finzione, quella di Angelica resa invisibile dal suo anello. In Ariosto, secondo l’autore siciliano, l’ronia discoglie la realtà come dimostra anche l’episodio del volo di Ruggiero sull’ippogrifo.

Insomma anche quando il poeta con la magia dello stile riesce a rendere più solida la realtà, all’improvviso essa si posa sulla realtà effettiva, rompendo l’incanto della fantasia. Il gioco di Ariosto dunque, secondo Pirandello, mira a stabilire in continuazione un legame tra sé e la materia, tra le condizioni inverosimili del passato e le ragioni del presente. Dove non è possibile stabilire tale legame, ecco che interviene in maniera armonica l’ironia.

 

Bibliografia: A. Saccone, Qui/vive/sepolto/un poeta, Liguori editore.

Novelle per un anno, i turbamenti dei personaggi di Pirandello

Luigi Pirandello scrisse le Novelle per un anno in seguito ad un contratto col <<Corriere della sera>>; in realtà egli ne scrisse solo 241 su un totale di 365. Altre 15 furono pubblicate postume. Il treno delle novelle pirandelliane si configura come luogo letterario, dove le fragili e dolenti vite dei protagonisti s’incontrano e si scontrano, in un processo dialettico culminante spesso nell’autocoscienza. A fare da sfondo alle vicende della raccolta Novelle per un anno, stazioni desolate e desolanti, all’interno delle quali prendono corpo le storie personali di personaggi, che, per singolarità e varietà, possono ben rappresentare tutto lo spettro dell’umano vivere.

Novelle per un anno: il treno come strumento della conoscenza di sé

L’avvento delle ferrovie annunciava la scomparsa graduale di un’epoca, cui ne sarebbe subentrata una nuova, dominata dal ferro e dall’acciaio, dal mito della velocità e dalla ricchezza.
In questo contesto di grandi cambiamenti, non stupisce il fatto che nella sfera letteraria il treno assurga a vero e proprio Personaggio, che si carica di volta in volta di valori positivi e/o negativi. Infatti, ora diviene strumento di dominio dell’uomo sulla natura, simbolo tout-court del progresso, poi strumento alienante, distruttivo, demoniaco, proprio perché espressione di quel particolare sviluppo socio -economico che vedeva l’industria occupare un posto prioritario rispetto all’agricoltura.
Scrittori come Carducci, Dostojevskyj, Tolstoj, Buzzati, tanto per citarne alcuni, hanno avuto un rapporto ambivalente col treno. Nel senso che, oltre ad evidenziarne le peculiarità esistenziali, ne hanno, con largo anticipo, paventato la portata destrutturante nei confronti della tradizione, ponendo inquietanti interrogativi sullo sviluppo tecnologico e sul progresso, di cui il treno, appunto, era inoppugnabile simbolo.

I vari personaggi della novellistica pirandelliana, ancora ignari, affollano turbati e confusi i predellini, si accomodano nelle carrozze anguste come le loro anime e iniziano il viaggio verso luoghi fisici ignoti, come la loro interiore dimensione spirituale: Il treno trascina dietro di sé i vagoni e dentro i vagoni trascina i personaggi delle Novelle per un anno di Pirandello, ciascuno verso il suo destino umano e narrativo. Come a dire che in questo percorso conoscitivo non esistono differenze sociali, perché l’intero campionario umano è accomunato dal medesimo destino.

La Balia: la vicenda di Annicchia

Il desiderio dei protagonisti di scappare dalle loro grigie esistenze, li porta spesso a tagliare i legami con la Terra Madre, il che, in alcuni casi, comporta la perdizione; è il caso di Annicchia nella Balia, che, per combattere la povertà, lascia il paese, il suo bimbo neonato e contro il volere della suocera che la maledice. Questa sorta di maledizione sembra colpire da subito la protagonista: il treno da Napoli viaggia in forte ritardo e il datore di lavoro, in stazione, distratto dalle cupe elucubrazioni familiari, finisce col cercare la donna con un’ora di ritardo. La trova “nell’ufficio della dogana, dove si visitano i bagagli, che piangeva seduta sul sacco”. Annicchia è basita, i doganieri non possono darle conforto, perché inadeguati a risolvere il suo problema di donna disorientata,  “perduta”, così come è perduta la sua vita precedente. L’ “oggetto – stazione”, dunque, fa da sfondo a questa che potremmo definire l’annullamento della precedente identità a favore di una nuova, che però ha bisogno del pagamento di un simbolico dazio (il commiato da una parte di sé) per essere sdoganata.

Il profilo comprovato di Annicchia, che si rivela superato, nella nuova realtà è costretto a fare i conti con un sé nuovo e discrepante. L’arrivo dell’avvocato Mori rassicura solo in parte la povera donna. Inconsciamente, infatti, lei sente di trovarsi in una realtà che non le appartiene, in cui si sente fuori posto; prova ne è che quando sale in vettura si rannicchia, per occupare il meno spazio possibile. Poi però, sfinita si lascia andare ai suoi pensieri “sentiva soltanto il sollievo d’esser giunta, finalmente; d’aver superato il terrore della traversata sul piroscafo da Palermo a Napoli…” La sensazione di sollievo è dettata dall’aver superato indenne lo Stretto di Messina e quindi di essere sopravvissuta all’acqua. L’acqua come elemento primordiale è tanto simbolo della vita quanto della morte. In questo caso, l’associazione di questo elemento al treno può essere letta e interpretata come la morte della vita precedente e il conseguente brutale trapasso (“lo sgomento della furia del treno”) in un’altra dimensione esistenziale.

Non può essere dimenticato, comunque, che l’ambiente ferroviario fa da sfondo anche a un altro processo di chiarificazione interiore, quello relativo all’avvocato Ennio Mori, che, finora, nell’economia interpretativa, è stato in un certo senso trascurato per fare spazio alla protagonista. Nondimeno, il suo personaggio compare per primo sulla banchina della stazione e, per i comportamenti impazienti che manifesta: “sbuffava […] o si grattava la faccetta ossuta […] o si aggiustava le lenti…”, si propone da subito come una figura molto stressata da conflitti e frustrazioni. In apparenza può sembrare solo infastidito, perché costretto a sbrigare una faccenda (il ricevimento della balia) che per banalità ne sminuisce il ruolo e, di conseguenza, la positiva percezione di sé. In realtà il suo malessere ha radici molto più profonde; perciò, quando apprende del ritardo del treno, e realizza che per il disbrigo dell’incombenza occorre più tempo del previsto, si lascia sfuggire quel “cose da pazzi!”, palese espressione delle sue contrastanti istanze interiori. A questo punto, l’avvocato si vede costretto a cercare in stazione un posto per aspettare, ma i sedili sono tutti occupati. Allora, si allontana per guadagnare un appoggio al muro “sotto l’orologio”, simbolo del tempo che passa, ma che l’avvocato, invece, compresso nelle sue riflessioni, riporta indietro attraverso la rivisitazione lucida e dissacrante del suo matrimonio.

Donna Mimma: la religione come ultimo appiglio

Anche nella novella Donna Mimma è il treno a determinare il cambiamento del destino della protagonista, intimamente radicata in un mondo arcaico e contadino, ove alla mammana si richiedeva non il titolo di studio, ma semplicemente perizia e umanità. In questa realtà ambientale, in cui il tempo sembra essersi fermato, l’orologio ricomincia a ticchettare con l’arrivo della bella e giovane ostetrica, ufficialmente abilitata alla professione, la “piemontesa”. A questo punto, diventa necessario per Donna Mimma prendere quel treno che deve condurla in città, sui banchi di scuola. Con queste premesse “l’intronamento e la vertigine del viaggio in ferrovia, il primo in vita sua”, rappresentano nient’altro che la proiezione del disagio psicologico di una donna non più giovane, costretta a interrompere la sua vita abituale per intraprendere un’avventura, scolastica e urbana, che, per profusione d’impegno e gap temporale, non le si attaglia. Risulta singolare che il flash back del viaggio cominci e finisca con l’invocazione a Gesù. In quell’iniziale “Gesù, la ferrovia!”, si coglie l’accostamento del sacro al profano; come se il primo potesse annullare gli effetti destabilizzanti del secondo. Come se la religione, vissuta come elemento di continuità col passato e la tradizione, potesse esorcizzare le incongruenze e le incognite di un presente da cui Donna Mimma vorrebbe fuggire, nel tentativo di recuperare le certezze e la stabilità emotiva precedenti all’arrivo della “piemontesa”.

In quest’ottica, il paesaggio che scorre fuori dal finestrino diventa la proiezione dell’ individuale modo di sentire della donna, ossia la percezione che l’ambiente a lei noto si sta dileguando, e con esso la stabilità del suo io più profondo. Ella avverte, seppure indistintamente, che il presente è scompaginato e tumultuoso, (“l’urto violento d’un palo telegrafico; fischi, scossoni”) e che il futuro, ambiguo come quel treno di cui non si intravede la sagoma, dovrà essere affrontato di volta in volta, nelle sue minacciose ed enigmatiche sfaccettature “e di tratto in tratto lo spavento dei ponti e delle gallerie, una dopo l’altra”. Frastornata dal carattere disarmonico del reale, e ancora incapace di realizzare ciò che le sta accadendo, Donna Mimma per non soccombere si aggrappa all’unico punto di riferimento rimastole, la religione “Gesù! Gesù!”.

Nelle Novelle per un anno, il viaggio in treno ha sbalzato la protagonista in una dimensione ambientale e sociale ingannevole e spersonalizzante, dalla quale ella cerca di difendersi, opponendo le sue piccole certezze di paesana. Ma la città, con la sua università, paradossalmente, la impoverisce nelle capacità e la irrigidisce in una “forma” in cui ella stessa non sa riconoscersi (Tremano, le sue manine, e non vedono più. Il professore ha dato a donna Mimma gli occhiali della scienza, ma le ha fatto perdere, irrimediabilmente, la vista naturale. E che se ne farà domani donna Mimma degli occhiali, se non ci vede più?”). La città, dunque, diventa “simbolo di un sapere arido, non sentito, fatto di formule e parole, contrapposto a un sapere senza formule né nomi, ma cresciuto con germinazione spontanea dal contatto con la vita, da un’esperienza lunga e serena, da un’attenzione semplice e amorosa alle cose”. Di ritorno al paese, la protagonista sarà rifiutata non solo dalle donne, che la percepiscono cambiata dal soggiorno cittadino, ma finanche dai suoi adorati bambini: “No: brutta donna Mimma! Non la vogliamo più”.

La veste: il drammatico viaggio di Didì

Molto più drammatico, invece, risulta il viaggio in treno per Didì, protagonista della novella La veste lunga, che, col fratello Cocò e il padre, parte da Palermo per raggiungere Zùnica, paesino dell’interno, dove l’aspetta il matrimonio con un uomo vecchio; matrimonio combinato dai suoi congiunti, contro il suo volere, per risolvere i problemi finanziari della famiglia.
Per l’occasione la donna ha dovuto dismettere l’abbigliamento abituale da ragazza sedicenne, e indossare “per la prima volta, una veste lunga”, simbolo del passaggio dall’infanzia alla maturità, o per meglio dire, dalla leggerezza innocente all’ obbligo di responsabilità che la vita adulta comporta ed esige. Da quel momento, la “veste lunga” avrebbe coperto, e per sempre, le sue gambette, le stesse che la sera prima Cocò, scherzando, “aveva salutato con ambo le mani”, a suggello della fine di una stagione della vita. Per tutta la notte, combattuta e angustiata, Didì aveva rimuginato su questa svolta esistenziale, di cui ignorava gli esiti, ma di cui, tuttavia, percepiva a istinto la negatività.

Al mattino però, la protagonista sembra aver raggiunto una condizione psicologica di rassegnata accettazione del nuovo ruolo, tant’è che si accomoda sul sedile del vagone ferroviario premurandosi di assumere una postura e un atteggiamento congrui al presente status da signora. A questa sua posa compunta, si contrappongono la postura “col capo abbandonato su la spalliera rossa […] tenendo gli occhi bassi e la sigaretta attaccata al labbro superiore” e il tono canzonatorio del fratello, le cui futili e quasi infantili provocazioni rimandano a una superficiale e vacua visione della vita, priva di ogni forma di sensibilità e, perciò, incapace di percepire i sentimenti altrui.Intanto il treno va, e, mentre il fratello si assopisce, la ragazza dà inizio a uno scandaglio interiore crudo e doloroso.

La donna comincia a osservare Cocò con gli occhi dell’anima, nel tentativo di far riemergere un passato felice, ma subito capisce che il dolce fratellino dell’infanzia ha lasciato il posto a un uomo cinico e arido, con sul volto i segni del cambiamento: “Le pareva ch’egli fosse come arso, dentro. E quest’arsura interna, di trista febbre, gliela scorgeva negli sguardi, nelle labbra, nell’aridità e nella rossedine della pelle, segnatamente sotto gli occhi”. Allora la ragazza,  ricerca il momento in cui ha avuto inizio questa metamorfosi e s’accorge, con orrore, che essa coincide con il periodo in cui Cocò ha indossato i “calzoni lunghi”, vale a dire, con la sua entrata in società. L’aver determinato la congiuntura temporale di quella radicale trasformazione, e, soprattutto, l’aver identificato nella sfera sociale la provenienza dei comportamenti abietti del fratello, produce in Didì, dapprima, sconcerto, poi paura di essere destinata alla stessa sorte. In quel momento, ella avverte il peso della “veste lunga”, simbolo della maturità, sui piedini di fanciulla. Questa innocente sensazione è sintomatica della sua inadeguatezza a entrare nel mondo dei grandi, per cui è meccanico e istintivo per la ragazza cercare con gli occhi il padre, da cui, inconsciamente, si aspetta rassicurazioni e protezione. Ma il padre, seduto dal lato opposto del vagone, attende serio ai suoi documenti di lavoro e non le rivolge neanche uno sguardo. Didì, allora prende atto, forse per la prima volta dalla morte della madre, della sua irreversibile solitudine. Solitudine che in quei tre anni, di mancanza dell’affetto e del supporto materno, aveva tentato inutilmente di affrontare e di arginare da sola, perché privata del sostegno morale degli uomini di casa, dediti alle loro vacue vite. Con gli occhi della memoria, la ragazza recupera mano a mano i ricordi e ne chiarisce il senso e la portata: alla morte della madre aveva fatto seguito un graduale e costante allontanamento del padre e del fratello dalla casa, intesa nella duplice accezione fisica ed emotiva. I due uomini avevano spostato il baricentro della loro vita fuori dalle mura domestiche, lasciandola preda del vuoto e della solitudine. Essi si erano mostrati interessati alla sua vita solo per proporle e imporle il matrimonio combinato e il conseguente viaggio. In un attimo, o forse in un’eternità, tutte le tessere del mosaico si erano ricomposte e Didì si trova nella crudele condizione di dover costatare il grigiore della sua vita, manipolata dal padre avido e interessato, sotto gli occhi indifferenti del fratello.

Intanto, il treno arranca su di una salita e procede lentissimamente “quasi ansimando”, ma in questo ansimare c’è la chiara allusione al doloroso processo di acquisizione di consapevolezza, esperito dalla protagonista, che ormai ha capito il gioco e, rifiutando di assumere la sua parte, si predispone a una lenta e solitaria agonia “per terre desolate, senza un filo d’acqua, senza un ciuffo d’erba, sotto l’azzurro intenso e cupo del cielo” .
In quell’opprimente atmosfera: “Non passava nulla, mai nulla davanti al finestrino della vettura; solo di tanto in tanto, lentissimamente, un palo telegrafico, arido anch’esso, coi quattro fili che s’avvallavano appena”. Ella, tradita dalle menzogne e dall’indifferenza dei suoi affetti più intimi e viscerali, non vede altra soluzione al suo problema se non la morte; cosicché, in un moto lucido e disperato, si avvelena, sottraendo una fialetta di medicinale al padre.

Il viaggio reale tra Palermo e Zùnica, dunque, è diventato viaggio interiore, oltre che promotore di una presa di coscienza della condizione della donna all’interno della famiglia. Famiglia, cellula basilare della società, ove si annidano solitudine e incomunicabilità. Luogo dove, spesso, si consumano vendette e si perpetrano soprusi, come quelli che, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, Strindberg andava rappresentando nel suo teatro. Egli infatti aveva individuato nella famiglia tradizionale un ambito di studio ideale (come già le pièces di Ibsen avevano dimostrato) delle dinamiche in gioco nelle relazioni umane. Circa vent’anni prima delle indagini freudiane, e in modo più intenso rispetto al suo predecessore Ibsen, Strindberg aveva capito che la famiglia – “djävla familjen” (maledetta famiglia), come era solito chiamarla – era indiscutibilmente il luogo privilegiato di dispotismi ed egoismi.
La crisi della famiglia non risparmia, come si evince da questa vicenda di Novelle per un anno, neanche il nucleo familiare di paese, la cui sacralità, tanto cara a Verga, si frantuma alle lusinghe dell’interesse economico.
La protagonista, apparsa sin dall’inizio come vittima, si riscatta da questo status e, con un atto di volontà, successivo alla presa di coscienza, decide di rendersi artefice del proprio destino; da qui, il suicidio, che va inteso “come la colma concentrazione, di un’inesorabile esperienza”.

Prof.ssa Gina Forgione

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