“Sono consapevole che l’umanità non possa avere accesso all’immortalità, ma credo che si possa conquistare una amortalità, vale a dire la privazione della mortalità per un tempo indefinito”, (Edgar Morin , L’uomo e la Morte) .
Come si è evoluto il rapporto dell’umanità nei confronti della morte nell’arco dei secoli? Come ha gestito l’uomo, lo sgomento che deriva dall’annullamento della propria esistenza, quel baratro percettivo che cancella e ridefinisce i contorni dello scorrere del tempo con l’assenza dello stesso? La morte, di certo, non cambia, muta la concezione che gli esseri umani hanno verso di essa, e le condizioni in cui la stessa si verifica. Edgar Morin affronta la sfida di confrontarsi con un tema vasto e dai confini fugaci, perché far fronte alla morte vuol dire considerare l’uomo in tutta la sua disarmante totalità.
L’Uomo e la Morte, il saggio di Morin pubblicato per la prima volta nel 1951, non ha la pretesa di fornire risposte ma rappresenta, al contempo, un testo decisivo per comprendere la sostanza del pensiero moriniano, e per intendere, a distanza di oltre mezzo secolo dalla prima edizione, i drammi e le speranze del nostro presente.
Edgar Morin (Parigi 8 luglio 1921) sociologo e filosofo francese, ha dedicato gran parte delle sue opere alla riforma dell’educazione, incentivando il sistema sociale a considerare la cultura come un unico amalgama, “un pensiero della complessità” e aborrendo la separazione del sapere, tipico dei nostri tempi, in sterili compartimenti stagno. Fortemente critico nei confronti della divisione dell’erudizione in due blocchi separati, umanistico e scientifico, effetto collaterale causato dalla civiltà occidentale ormai globalizzata, egli è adorato alla stregua di un maestro spirituale in Messico e in America del Sud. In patria gode di seguito solo tra il grande pubblico, infatti l’ambiente accademico gli è ostile. La sua produzione letteraria è immensa, in quanto lo studioso ha esaminato i temi più disparati, dall’industria culturale, all’unità complessa dei saperi, e così via. Classificare Morin come un filosofo oppure un sociologo, è quindi, errato, lo si potrebbe definire un acuto osservatore dello Spirito del tempo (dal libro omonimo edito nel 1960, scritto dopo aver viaggiato per l’America Latina).
L’Uomo e la Morte parte da un assunto molto semplice: la paura dell’umanità verso la fine della propria esistenza biologica. Tale angoscia è l’esperienza “originaria” che accomuna il sentire di ciascun individuo, fin da bambino. In tal senso Morin cita alcuni studi pedagogici, asserendo che dai sette anni si percepisce la morte come un evento universale, mentre dai dieci se ne comprende l’ineluttabilità e l’irreversibilità a essa congenita. Il bambino fin da piccolo, anche se non ha ancora sviluppato l’idea di morte ne avverte l’inquietudine. Perché siamo spaventati da un evento naturale? D’altronde come dichiara lo stesso autore : “L’uomo ancora innocente, non è riuscito a capire che questa morte a cui ha indirizzato tante grida e tante preghiere non era altro che la sua stessa immagine, il suo stesso mito, e che credendo di guardarla fissava se stesso”.
Il terrore ha avuto origine e si è amplificato, dal momento in cui l’uomo/animale si è trasformato in uomo/ individuo. La creazione dell’uno e del solo, ha cagionato il rifiuto e l’orrore verso la morte.
Secondo il celeberrimo pensatore, l’uomo è l’essere despecializzato per eccellenza ed “è capace di tutto e di niente, partecipa a tutte le forze dell’universo, è un microcosmo dotato di tutte le possibilità, di tutte le plasticità”. Tale tasso di generalità quasi simile a quello dell’ameba dei primi esseri viventi indifferenziati, è stato rafforzato e sviluppato grazie alle potenzialità straordinarie insite nella mano e nel cervello. Questa è la chiave di volta individuata da Morin: la prodigiosa dialettica mano-cervello-parola, ha fatto si che l’uomo esplicasse le sue determinazioni sul mondo esterno, plasmando l’ambiente per impossessarsene. Il genere umano è permeato dalla propria soggettività. Tale modo di essere è talmente urgente e stentoreo che fin dall’inizio dei tempi l’individuo ha sentito il bisogno di rimarcarlo. Come? Attraverso l’omicidio, che secondo Freud testimonia l’atto di origine dell’umanità, ovvero il desiderio di affermare il proprio io attraverso la distruzione di altre individualità. Appare evidente che un evento come la morte che porta all’annientamento della persona, sia percepita come annichilente.
Per superare questa afflizione sussistono diversi metodi: la negazione, “non si può guardare in faccia né il sole né la morte”, si può tentare cioè di metterla tra parentesi, di dimenticarsene, ma quando si è costretti ad affrontarla, si possono creare gli alibi più confortevoli, come la religione o la credenza nell’immortalità, ovvero l’eidolon, il doppio. E non è proprio l’ombra la prima acquisizione di se stessi? L’ombra è il doppio, un essere che si dissocia dall’uomo mentre quest’ultimo dorme, e continua e vegliare sui suoi sogni. L’ombra altro non è che l’individualità che trionfa sulla vita e sulla morte.
Se ci si avvicina a questo saggio per ottenere delle risposte, si commette un errore grossolano. Sostanzialmente L’Uomo e la Morte è un attento studio clinico sulla sintomatologia della razza umana, innanzi alle proprie paure ed aporie.