Considerazioni di un umarell sulla vita e la morte

Queste riflessioni sono scontate. Sono i piccoli pensieri quotidiani di un umarell, che giorno dopo giorno guarda come procedono i lavori della ristrutturazione dell’ecomostro davanti casa. Questi lavori sono fatti a circa duecento metri da casa mia e non mi disturbano per niente. Non sento i rumori. Non ho problemi con la polvere. Prendo il caffè in cucina e mi metto a riflettere. Guardo fuori dalla finestra. Anche questo è un modo di passare il tempo. Ogni cosa ha il suo tempo e ogni tempo ha le sue cose, secondo l’Ecclesiaste.

Non sono più giovane. Esco raramente, il minimo indispensabile. Telefono pochissimo. Una telefonata ogni settimana. Eppure da giovane avevo tante amicizie. Ora resta qualche ricordo sbiadito. Gli amici di un tempo li ho persi per strada. Ognuno ha la sua vita. Non voglio essere malinconico. È una semplice constatazione di fatto. Ci sono gli impegni lavorativi, familiari per molti amici. Il tempo libero a disposizione è poco. Ma forse siamo troppo cambiati e non ci sapremmo più veramente riconoscere.

Forse le mie sono nostalgie di uno che ha molto tempo da perdere. Forse come dicono banalmente alcuni il senso della vita è vivere. Forse ogni elucubrazione è qualcosa che ci allontana dalla vita stessa. Forse la vita e Dio scelgono come prediletti persone molto semplici e perciò innocenti. Forse molti ragionamenti sono intellettualismi vuoti; sono ciò che Freud chiamava razionalizzazioni, ovvero dei meccanismi di difesa dell’io.

Da giovani comunque si cerca di vincere la morte con l’amore, con il sesso. Dirò di più: la morte molto spesso resta sottotraccia. Non ci si pensa. Da adulti avviene una scissione nella psiche. Da una parte il desiderio biogrammatico di immortalità, che alcuni vogliono soddisfare facendo figli oppure cercando la posterità.

Dall’altra parte come scrisse Totò nella sua celebre ‘A livella “Nuje simmo serie, appartenimmo à morte!”. Dall’altra parte la rassegnazione che tutti gli uomini appartengono alla morte, per quanto cerchino di divincolarsi invano dalla sua morsa. L’amore sembra vincere la morte, ma anch’esso è destinato a finire.

Scrive in una sua poesia Sanguineti:Ho insegnato ai miei figli che mio padre è stato un uomo straordinario:/ [( potranno/ raccontarlo, così, a qualcuno, volendo, nel tempo): e poi, che tutti/ gli uomini sono straordinari:/ e che di un uomo sopravvivono, non so,/ ma dieci frasi, forse ( mettendo tutto insieme: i tic,/ i detti memorabili, i lapsus):/ e questi sono i casi fortunati”.

Il grande poeta genovese ci ricorda che per quanto ci si sforzi di lasciare una traccia i posteri saranno dormienti, per dirla alla Eraclito. Mi ricordo del Caffè delle giubbe rosse, frequentato decenni fa da Montale, Luzi, Parronchi, Bigongiari, e altre illustri personalità. Leggevo dalla Repubblica dei poeti al Mulino di Bazzano negli anni ’70, ideata da Adriano Spatola, Corrado Costa, Giulia Niccolai.

Leggevo di Pennabilli, un paese ad hoc per la poesia di Tonino Guerra. Cercavo notizie sulla rivista “Prato Pagano” negli anni ’80, diretta da Gabriella Sica, a cui collaborarono Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Silvia Bre. Ebbene alla fine tutto passa. Solo pochi studenti di lettere, pochi studiosi di letteratura, pochi appartenenti alla comunità poetica si ricorderanno di queste belle esperienze poetiche, che meriterebbero di essere ricordate dai più. Ma l’oblio è tiranno.

L’oblio cala anche su molti protagonisti dello show-business, del cinema, della musica. C’è poco spazio per le commemorazioni veramente sentite, che non siano una mera passerella di personaggi in cerca di visibilità con i loro perenni “io l’ho conosciuto”, “a me una volta confessò”, “quando collaborammo assieme”, scadendo spesso in un amarcord falso e melenso. Molto probabilmente saranno in tutt’altre faccende affaccendati i posteri, indipendentemente dal fatto che molti morti lascino una cospicua eredità morale, intellettuale, creativa.

Da tempo ho accettato il dominio incontrastato dell’oblio. Che se ne fa uno della gloria postuma? E poi è una bella pretesa la posterità: per essere ricordati bisogna aver fatto qualcosa di memorabile. Non solo ma in Italia le culle sono vuote. Gli italiani fanno sempre meno figli. E allora in futuro chi leggerà poeti e scrittori italiani?

Quando l’italiano sarà una lingua morta anche la letteratura italiana sarà definitivamente morta o quasi. Ma non siamo catastrofici e non poniamo limiti alla Provvidenza. Per ora  in Italia solo nel 2021 sono 85.551 i titoli usciti (il 22% in più rispetto al 2020 e il 16% in più rispetto al 2019). Durante gli anni pandemici l’editoria ha fatturato di più. Certo ci sono moltissime  pubblicazioni a pagamento, moltissime copie che finiscono al macero.

Non tutti i libri avrebbero ragione di esistere, ma per ogni autore il suo libro deve essere stampato. In fondo la pubblicazione di un libro, seppure a pagamento, in alcuni piccoli paesi di provincia è una sorta di piccola promozione sociale oltre a essere quella che i letterati chiamano una “legittimazione culturale”, ovvero se si vuole essere presi in seria considerazione dai critici ci vuole la pubblicazione cartacea.

Riviste letterarie, literary blog spuntano come funghi. Naturalmente quando si scrive per il web spesso ci si chiede se anche questo sia tutto inutile, destinato a scomparire nel mare magnum di Internet. Ci sono meno presentazioni di libri ma molte più dirette Facebook. C’è molto fermento. Tutto quindi lascia ben sperare. Roberto Vecchioni nella sua canzone “La stazione di Zima” (ricordando il poeta russo  Evtusenko) scrive che “ci facciamo del male perché non ci capiamo niente”. Siamo confusi, smarriti di fronte al mistero della vita, dell’amore, della morte.

Come scrive in un suo aforisma Morandotti “tutto sarebbe più semplice se nascessimo con le istruzioni per l’uso e la data di scadenza”. La vita è complessa perché fatta a strati molteplici come una cipolla (come Tommaso Landolfi definì la sua opera) e allo stesso tempo ci sono quelli che Guénon chiama gli “stati molteplici dell’essere”.

Senza pensare al fatto che è sempre ardimentoso prendere coscienza pienamente della nostra coscienza. La vita è già molto difficile viverla. Capirla è quasi impossibile. Ci sono dei momenti in cui abbiamo delle epifanie e ci sembra di aver afferrato tutto. Ma un istante dopo ritorna l’opacità. Forse non siamo fatti per capire la vita. Eppure ognuno ha le sue certezze in tasca, ha le sue piccole verità, costruite sulla base delle sue conoscenze e della sua esperienza, sempre limitate rispetto alla materia infinita della vita.

Sorgono spontanee dal basso  delle domande, ma di difficile soluzione, visto che non c’è un comune accordo: alcuni dicono che esistono delle leggi generali nella vita e altri dicono che ognuno è fatto a modo suo e ha la sua storia. Abbiamo in testa molti interrogativi, dubbi ed ipotesi soprattutto riguardo l’amore.

L’amore non va tradotto in senso letterale e non bisogna lasciarsi sopraffare dal nonsenso della morte. Continuiamo però a sbagliare, nonostante avvertenze e controindicazioni sulla vita. Il tempo scorre inesorabile fino al guasto irreparabile per vizio, destino o logorio….Così sarà per quel poco che ci rimane….forse Dio sa solo giudicare e non spiegare le  nostre scelte: siamo noi uomini, sospesi tra bisogni primari e cose ultime, il paradosso dei paradossi. Io ultimamente mi chiedo sempre più spesso se qualcosa veramente ci appartiene e se noi veramente apparteniamo a qualcosa di più grande.

Non è un caso che per Gadda la realtà fosse uno gnommero e per Montale una matassa che lui non era mai riuscito a sbrogliare. Tutto è un grande mistero se si pensa che ogni vita è un segmento, che talvolta i segmenti si intersecano, che si incontrano oppure che corrono paralleli per sempre. A volte facciamo un tratto di strada assieme a certe persone che poi ci lasceranno o che poi noi lasceremo. Resta qualcosa alla fine? Qualcuno lascerà a noi il testimone? Noi lo lasceremo a qualcuno il testimone? Ci vuole anche del tempismo per saper raccogliere il testimone.

Come ebbi a scrivere in alcuni scarni versicoli qualche anno fa:

Recitiamo un copione o un canovaccio?

Si recita a soggetto? Si naviga a vista?

Oppure forse siamo dei bastoncini disuguali

di Shangai e non sappiamo chi ci ha mischiato

e neanche quali mani supreme ci muovono

e giocano con noi? Le nostre vite sono forse linee

che talvolta si intersecano, talvolta corrono parallele,

talvolta combaciano per tratti più o meno lunghi?

Dal punto di una linea non si può comprendere tutto

questo groviglio inestricabile, questo mondo di linee:

ecco perché forse non si può capire

mai il mistero della nostra vita e di quelle altrui.

Forse non c’è alcuna logica nei nostri istanti.

Troppe le variabili e le variazioni infinitesimali.

In ogni caso è impossibile cogliere tutti i nessi.

Anche se fossimo linee

(regolari, frastagliate o curve chissà?).

il disegno non è lineare e ci trascende.

 

Sappiamo veramente apprezzare gli altri e gli altri ci sanno veramente apprezzare? Oppure è tutta fatica sprecata? Forse niente vince la morte. Forse ogni lavoro, ogni passione è un passatempo per non pensare alla morte, come intuì Pascal. Noi dobbiamo per forza pensare ad altro. Si finisce anche per pensare che il problema è sempre un altro. Allora molti per scongiurare la morte cercano di inebriarsi a più non posso della vita. Il loro è un vitalismo disperato.

‘Tre di uno’, la raccolta poetica di ricerca e ragionamento di Beatrice Cristalli

E’ una raccolta poetica dagli echi luziani e ungarettiani quella della giovane autrice piacentina Beatrice Cristalli, classe 1992, laureata in materia umanistiche, per la quale la parola è fatto, realtà ed ha un peso. Le poesie di Beatrice Cristalli ci consegnano un’autrice che trova prima ancora di cercare, riflettendo sul significato della parola nella nostra magmatica contemporaneità. Come nota giustamente Giovanna Rosadini nella prefazione dellopera, da un lato si ha, quindi, la scissione postmoderna fra la parola-realtà e un soggetto sempre più disancorato da evenienze oggettuali (ovvero i contesti che tradizionalmente lo definivano: modelli, relazioni, ruoli ecc., ormai “liquefatti”, per dirla con le parole del grande sociologo Zygmunt Bauman, e in continua trasformazione); dall’altro quel «voler essere / a tutti i costi» a cui «non c’è tuttavia rimedio», anche se «non è poi / così male essere e basta – le parole non frugano più». Se l’esistenza è sotto il segno della precarietà, infinite sono le possibili declinazioni, e rifrazioni, del soggetto: «Guarda che sei libero, verrà un ladro / E vorrà rubarti perché non potrà mai capire>>. O anche: «Non potevo essere altro se non / Questo / Il giusto riconoscersi del dito che / Punta lo specchio». Anche se, forse, questa condizione esistenziale, che l’autrice referta con una lingua sobria, asciutta e priva di orpelli retorici, ha origini remote: «Tutto sta in un’antica ferita / Che parla di una storia mai esistita / come di te che sei solo un uomo / Anche se le iniziali sono di Dio»: una ormai impossibile metafisica, in quella che non a caso Lipovetsky ha battezzato “ère du vide”, dove la ricerca della verità è sempre in bilico sul suo rovescio, il concetto di vuoto. «Sulla linea 90 / Ci sono solo due fatti / e il compimento non ci sarà»; «Ma io me ne vado / A cercare / o morirò negli assiomi»; «Non è vero niente».

Beatrice Cristalli  la cui tesi di laurea L’invenzione della colpa. L’antropologia negativa leopardiana tra Zibaldone e Operette morali,  ha vinto il secondo premio al Concorso per il Premio Giacomo Leopardi riservato alle tesi di laurea specialistica e dottorato 2017 del Centro Nazionale di Studi Leopardiani, si pone delle domande cercando di dare delle risposte, ricercando l’altro, mostrandosi universale, perché le tematiche della giovane autrice riguardano tutti noi. Tutto questo senza abdicare al ruolo che deve avere un poeta, ovvero quello di emozionare, sia in positivo che in negativo, scavando nella realtà, nella mente e nell’anima umane, restituendola a noi, trasfigurata. Il registro linguistico-riflessivo contribuisce a mantenere in equilibrio a mediare la modalità vivere il mondo da parte della Cristalli, e ne testimonia la rara maturità espressiva e poetica, nonché la compattezza ed organicità della struttura e dei contenuti.

Prendiamo la lirica intitolata Moto retrogrado che pare racchiudere tutto il senso della poetica della Cristalli:

Te l’avevano detto
Di ritrovare il transito
Dal quale si salpa:
Il posto senza nominativo
E il tuo battito in un altro viaggio
Una volta sola basterà.
Amare una cometa, tra i rotoli di numeri:
Ma come si fa, a capire così
Bene e male
Le dita di Cesare Augusto
Che organizza il cuore per tutti.
Non per me?
Tu di qua, io di là,
Io come un titano esiliato
Con un sacchetto della spesa
Tra le dita che ricercano l’ironia,
Il solito scomodo volto del vuoto.
Ma proverò la verità come efficacia
– Basterà
A sorridere in un vivo mutismo
Non sarai mai il tempo di una cometa:
Vedo sempre poco pudore
Nelle partenze di chi non conosco
Perché nessuno, in effetti, ha richiamato il tempo
Le giustificazioni
E non è sintomo di maturità

Non è non è, ma vivi nelle parole
Quelle che ora aderiscono al solo suono.
Che quello che vedo negli occhi degli altri
Sia il vero
Io credo non possa – non deve –
Ripercorrere i corridoi di un romanzo.
Si incastra piano tra i ritorni di una poesia
E poi uno scatto all’aperto
Il sole dell’ateneo tra i rumori dei passi
Come tra le voci e le mie nuove rotte
Lasciano una scia, non una risposta
La stessa prima di ogni perché:
A nuovo e luce annodati
Pochi versi, senza verbo
Accolgo come la sabbia fresca
Delle ore contate.
Non preoccuparti se i segni non
Spariscono, sprezzanti
Non dicono
Intanto è già cambiato un codice
Lui che ha solo una funzione
Qualche senso sotto le carte:
Sapessi giocare, io.
Ci sono diagnosi che rimangono nell’aria
Parte nelle fibre una consumazione diversa
Come un raggio nello spazio;
Salgo allora su quella deriva
La cometa che arriva al contrario:
Quel momento che era già negli altri

Ma arriva sempre dopo e mai tardi.
Basterà

L’autrice qui abbastanza ermetica, come se conciliasse passato e presente, antichità e contemporaneità, parlando ad un interlocutore immaginario, rassicurandolo sull’arrivo certo della cometa che farà luce sul confine tra bene e male. Senza lasciarsi sedurre da scorciatoie stilistiche la Cristalli ragiona scrivendo versi, agognando “il fuori”, perché solo smarrendosi, perdendosi, si può ritrovare se stessi, giungendo all’uno (o allo zero?). Una poesia fatta di immagini, simboli ricorrenti presenti nella mente umana che trovano forma nella realtà attraverso la parola, la poesia.

La contemporaneità, noi immersi in essa, la velocità, la frenesia dei nostri gesti e delle nostre azioni ci rende difficile recuperare qualsiasi assenza, inghiottiti come sia nel rituale moderno di tenere in mano il telecomando, facendoci anestetizzare dalla TV come si evince della poesia Una vita di cambi:

Recupero ogni assenza
E vorrei metterci dei punti
Gonfi come quella circostanza
La ripeto con un telecomando:
La verità è che pagherei caro
Per avere un dolore giusto
Culto per una mente diversa da me
Alla destra delle forme
Mi metto in fila come i Re Magi
Per aspettare una profezia rappresa
Ma torno sempre indietro alle quattro
Quando ho sentito una cicala
E la sua vocale sola:
Mi diceva che potevo vederti
Sotto quelle maglie spesse
Una voce verso qualche paradiso:
Noi non ci siamo detti niente.
Coi capelli piegati
Non mi sento tanto distante
Da voi
Che vi preoccupate del destino.
Pretendo di nuovo quelle pagine
Così come una preghiera sul tuo dorso:
Non so perché l’ho fatto,
E quanto ci ho messo
Tutto era veloce come le ciglia

La poesia cervellotica ed emozionale di Beatrice Cristalli conduce l’autrice, in questo articolato viaggio della mente, a spremere ogni singola parola per cavarne un senso nel mare di confusione e mediocrità che ci soffoca, dove non riusciamo più a comunicare, a trovare le giuste parole per esprimere la nostra interiorità. I versi liberi della Cristalli sfiorano, accarezzano la forma delle cose, afferrando (lievemente) per un momento ciò che. come afferma Silverio Novelli nella postfazione, è destinato a sottrarsi ora e sempre per riproporsi sempre, ogni volta, ad una nuova comunione transitoria di alterità («con il piacere di una sola carezza», Uno di uno). Alla base di queste poesie vi è certamente la consapevolezza da parte dell’autrice dell’esistenza della forza di resistenza della vita, quella tensione che provoca turbamento e dolore nell’anima e della mente. Ma se questo mondo è portatore di dolore, bisogna dialettizzarlo, tentare di trasformare il dolore in dolore giusto. In che modo? Considerandolo un dolore, un male necessario, pieno di significato. Ed ecco il cuore della raccolta Tre di uno: indicare la strada giusta per comprendere il senso di un dolore, ovvero liberare la semantica dall’evanescenza, riempire e nobilitare le parole ridotte a simulacri.

Tre di uno è un libro asciutto dalla forte connotazione filosofica che si rifà alla dolorosa esperienza di vivere di matrice leopardiana, ma non esente da un pathos espressivo (evidente soprattutto nella parole isolate che fanno verso da sole e che risuonano con veemenza) che non può non colpire il lettore e renderlo partecipe di questo viaggio conoscitivo.

Aldo Moro e la rappresentazione della storia, dai film che rimandano ad una iconografia stereotipata al romanzo di Vasta che racconta la storia come materia

Aldo Moro, scrivono Pasolini e Sciascia, agisce attraverso la lingua: i suoi discorsi involuti, il suo latinorum, sono lo strumento principale per conservare lo status quo. Moro è il simbolo di un potere incomprensibile e in quanto tale le Brigate Rosse, ossessionate dalla retorica del complotto e dei linguaggi da decifrare, lo rapiscono, in omaggio, appunto a un’idea più che a un dato di fatto-

La rappresentazione della storia da parte del cinema è spesso fondata su un immaginario autoreferenziale, i film si citano a vicenda, o rimandano a fonti audiovisive di tipo documentario, a fotografie, a dipinti, elementi visibili. Questo succede per ogni periodo storico ma nessun decennio come gli anni Settanta risente di un’iconografia standardizzata che spesso diventa stereotipo, luogo comune, banalità.
C’è un evento però, negli anni Settanta, il cui percorso iconografico è stato completamente diverso: questo evento è il caso Moro. E il racconto cinematografico dei 55 giorni, più che alle fonti visive, deve il suo canone narrativo alla letteratura, una letteratura che fino alla pubblicazione del romanzo di Giorgio Vasta, Il tempo materiale, non ha mai osato discostarsi dal solco tracciato da due giganti tanti anni fa. Dal 1978, per essere precisi.

Le cose stanno così: 16 marzo 1978. Aldo Moro, presidente del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, viene “prelevato” – uccisi i cinque uomini che lo scortavano – da una banda che si presume delle Brigate rosse. Un’ora dopo, le confederazioni sindacali proclamano lo sciopero generale. Prima di sera, il governo presieduto dall’onorevole Andreotti, su cui fino al giorno prima si manifestavano perplessità e riserve da parte delle sinistre e di alcuni gruppi della Democrazia Cristiana, viene approvato, da una maggioranza che comprende anche i comunisti, alla Camera dei deputati e al Senato. In via Licinio Calvo, a un centinaio di metri da via Fani dove il “prelevamento” è avvenuto, la polizia trova un delle automobili di cui si sono serviti i terroristi.
Le parole all’origine di tutto: «Uno dei racconti più straordinari che Borges abbia scritto è quello che, nelle Ficciones, s’intitola Pierre Menard, autore del Chisciotte. Come tutte le cose che sembrano assolutamente fantastiche, di pura astrazione e misteriose, questo racconto parte da un dato reale, da un fatto, da un preciso avvenimento che quello che si usa denominare il mondo occidentale ha, se non conosciuto, respirato. Quest’avvenimento è la pubblicazione, nel 1905, della Vida de Don Quijote y Sancho di Miguel de Unamuno… Da quel momento non è stato più possibile leggere il Don Chisciotte come Cervantes l’aveva scritto: l’interpretazione unamuniana che sembrava trasparente come un cristallo rispetto all’opera di Cervantes, era in effetti uno specchio: di Unamuno, del tempo di Unamuno, del sentimento di Unamuno».

Così inizia L’affaire Moro, di Leonardo Sciascia. Sono passati pochi mesi dal 17 marzo del 1978 e il ragionamento dello scrittore di Racalmuto è trasparente come un cristallo se messo in relazione all’oscuro dispiegarsi degli eventi che ha portato Aldo Moro alla morte. Sciascia disegna, da quel momento, un canone, e ogni lettura dell’evento e il Moro che per anni abbiamo visto raccontare è il Moro di Sciascia, del tempo di Sciascia, del sentimento di Sciascia.
Ma neppure quella di Sciascia è un’interpretazione originale. La sua lettura di Moro si rifà, in modo esplicito, a quella di Pier Paolo Pasolini che, il 1 febbario 1975, aveva scritto su Il Corriere della Sera: «Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi. (…) Nella fase di transizione – ossia durante la scomparsa delle lucciole – gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ‘69 a oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere».

È Pasolini che crea l’icona, inventa il personaggio che poi le Brigate Rosse rendono protagonista della loro mise en scene e che Sciascia racconta. Il Moro che rapiscono le BR, infatti, non è uno dei tanti politici della Democrazia Cristiana, ma proprio quello descritto su Il Corriere della Sera: il «meno implicato di tutti nelle cose orribili» che, da Piazza Fontana portano a Piazza della Loggia, hanno segnato i primi anni Settanta; il «più responsabile di tutti» perché, malgrado l’orrore, è rimasto lì dove è a conservare il potere inteso non come pratica ma come sistema. Moro, fin dall’articolo di Pasolini è un’idea, e avendo orecchiato Hegel i brigatisti sanno che l’unico modo per superare l’idea è renderla concreta, mangiarla, come aveva cantato Giorgio Gaber nel 1973. Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione. Moro idea, Moro icona, Moro astratta ma concretissima incarnazione del SIM, lo Stato Imperialista delle Multinazionali.

Moro, scrivono Pasolini e Sciascia, agisce attraverso la lingua: i suoi discorsi involuti, il suo latinorum, sono lo strumento principale per conservare lo status quo. Moro è il simbolo di un potere incomprensibile e in quanto tale le Brigate Rosse, ossessionate dalla retorica del complotto e dei linguaggi da decifrare, lo rapiscono, in omaggio, appunto a un’idea più che a un dato di fatto.
Sciascia è il primo a svelare il corto circuito ermeneutico che ha trasformato un uomo in un simbolo, in una vittima sacrificale, e così facendo ci invita a mettere in discussione la lettura di Pasolini senza mai dirlo esplicitamente. Dirà Sciascia altrove «Sono sempre d’accordo con Pasolini anche quando sbaglia». Ecco L’affaire Moro, pur partendo dalla riflessione di Pasolini, portandone all’estremo il ragionamento, quello sulla simbologia del potere incarnata da Moro e la sua lingua, ne svela il meccanismo retorico e invita a guardare all’uomo, in carne e ossa, così fragile, vulnerabile, minuto, da finire acciambellato in un portabagagli, come ha scritto Mario Luzi:

Acciambellato in quella sconcia stiva,
crivellato da quei colpi,
è lui, il capo di cinque governi,
punto fisso o stratega di almeno dieci altri,
la mente fina, il maestro
sottile
di metodica pazienza, esempio
vero di essa
anche spiritualmente: lui

Dopo L’Affaire Moro, quindi a partire dal 1978, ogni racconto per immagini della figura del politico democristiano ha oscillato fra Pasolini e Sciascia. Lo ha fatto Il caso Moro del 1986 nel quale il problema della lingua è stato messo a nudo in frammenti come quello dell’interrogatorio. Lo ha fatto Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, il più didascalico, fra tutti i film, che con l’interpretazione di Gifuni ha reso omaggio, senza alcuna originalità, al Moro icona, prima che uomo. Lo ha fatto, anche Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, l’unico che ha cercato di andare l’oltre l’evento, proiettando sull’affaire lo sguardo di una generazione, la sua, che dall’uccisione di Moro si è sentita, per prima, e in prima persona plurale, tradita.

Se il cinema è stato debitore in modo così esplicito della lettura di Sciascia tanto più lo è stata la letteratura, il cui immaginario, come ha scritto Raffaele Donnarumma ha «patito in modo particolare la storia», questa storia. Rari, però, i casi nei quali, riuscendo ad alzare lo sguardo, il narratore ha riletto secondo il suo tempo il caso Moro: Bellocchio, appunto, e poi Giorgio Vasta che con Il tempo materiale ha dato un nuovo senso pubblico alla storia di Aldo Moro. Quello che uno storico dovrebbe aspettarsi dall’uso pubblico della “sua” disciplina non è tanto la riproposizione dei fatti, dei punti di vista, della tradizione, storiografica o letteraria che sia, ma una chiave di lettura che traduca un evento del passato in qualcosa che risuoni nelle coscienze dei contemporanei.

A prescindere dall’esattezza, dalla filologia, dalla logica interna dei fatti, che non competete alla finzione. Come ha fatto in modo esemplare Jonathan Safran Foer con Ogni cosa è illuminata rispetto al racconto della Shoah che ha completamente reinventato.
Vasta, a distanza di 30 anni, ha messo in luce il sintomo, la lingua, per parlare della patologia, la storia. Scrive Vasta: «In questo momento l’Italia è percorsa dal contagio. Vuole essere percorsa dal contagio. Prova piacere ma non può ammetterlo. Perché non si può provare piacere davanti alla violenza e alla crisi. Non è decente. (…) L’Italia finge di desiderare il calore mentre non può rinunciare al tiepido. È dal 16 marzo che pretende di vivere con quaranta di febbre, solo che con quaranta di febbre non si vive. L’incandescenza è un gioco. L’eccitazione civile, lo scuotimento etico, sono funzioni. L’indignazione si è subito istituzionalizzata; si è istituzionalizzata la paura».

L’ha fatto attraverso le vite di tre ragazzini, l’ha fatto in una Palermo onirica ma allo stesso tempo realissima, dove i nomi delle vie, viale delle Magnolie, via Sciuti, villa Sperlinga, la connotazione borghese degli ambienti sono elementi vividi come se illuminati da una lampada al neon, o dal riflettore di una ripresa cinematografica.
L’ha fatto ribadendo, a suo modo, la questione del linguaggio, la stessa indicata da Pasolini, ripresa da Sciascia, che Vasta rielabora e non declina ai tempi di oggi.

«Mi torna in mente la maestra che quasi un anno fa, durante gli esami, ironica e realistica mi avevo detto che sono mitopoietico, quanto ero stato contento di scoprire che cosa voleva dire, quale piacere può dare muoversi dentro le parole, passare il tempo nel linguaggio. Andarsene via costruendo frasi, isolarsi. Perché la conseguenza del nostro modo di esprimerci- il tono sommesso, il volume basso, ogni parola piatta, ritagliata, calma eppure sediziosa – è che i nostri compagni di classe non ci riconoscono».

Marco Belpoliti ha scritto, in relazione all’uso della Polaroid nel rapimento Moro «I terroristi italiani vogliono riprodurre, con un metodo del tutto simile a quello agito su di loro da poliziotti e magistrati, la realtà stessa. Si tratta di una forma di “realismo traumatico”, in cui la messa in scena del sequestro, il rito della foto segnaletica, più ancora del comunicato o della propaganda scritta, diventa un elemento iperrealistico. Vogliono sottomettere il reale».
Vasta non scatta una polaroid sul 1978. Non vuole sottomettere il reale, ma rivelarne l’assoluta attualità, rendendo utile il racconto, militante, quanto lo è ogni racconto della storia nel quale il punto di vista è dichiarato, e non nascosto. Scrive Walter Siti: «C’è evidentemente un’esigenza metastorica in chi si dedica al folle compito di dare senso al mondo con le parole: l’esigenza è quella di giocare col fuoco, o se si vuole a nascondino con la realtà – stuzzicandola per trarne scintille che la realtà non sa nemmeno di avere, copiandola per negarla, cercando di sfuggire alla sua insensatezza ma nella convinzione che non ci sia senso senza mondo, come la colomba si illude se pensa di volare più veloce senza la resistenza dell’aria».
Vasta ha giocato col fuoco indicando una chiave di racconto possibile, riportando al cuore della narrativa la storia, non come sequenza di fatti e di date, ma materia (possibile) di cui son fatti i racconti. Riportandoci un luogo della memoria della storia del 900. Raccontando l’Aldo Moro di Vasta, del tempo di Vasta, del sentimento di Vasta.

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