Vittoria del No, Renzi si dimette. La superbia partì a cavallo e tornò a piedi

La maggioranza dei cittadini italiani aventi diritto, ha detto No alla riforma costituzionale e al premier Matteo Renzi che ha personalizzato oltremodo questo referendum. L’Italia si sveglia con un governo che si prepara alle dimissioni dopo mille giorni di permanenza, e con il presidente del Consiglio che, in seguito ad un dignitoso discorso che ha tenuto ieri sera, subito dopo aver appreso l’esito del referendum, ha rimesso il proprio mandato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale ha però sottolineato, già dopo un’ora di colloquio con il premier durante il pomeriggio che ci sono “impegni e scadenze di cui le istituzioni dovranno assicurare in ogni caso il rispetto, garantendo risposte all’altezza dei problemi del momento”. Il passo indietro di Renzi è stato congelato fino all’approvazione della Legge di Bilancio. Renzi dunque resta ancora in carica fino alla fine della settimana a causa di questa impellenza, co buona pace degli avvoltoi.

Il dato definitivo del referendum dice che l’affluenza in tutte le regioni ha superato il 50%, sebbene non ci fosse il quorum, al No è andato oltre il 59% dei voti, mentre al Sì il 40,4%. I favorevoli l’hanno spuntata solo in Trentino Alto Adige, Emilia Romagna e Toscana (dati del Viminale). Una batosta per Renzi e il suo governo che su questa riforma avevano puntato tutto.

Possibili scenari dopo le dimissioni di Renzi

Tra le ipotesi per il dopo Renzi, c’è che Mattarella decida di privilegiare la continuità tra passato e presente, incaricando un ministro del governo PD (i nomi che circolano sono quelli dei ministri dell’Economia Padoan, quello delle Infrastrutture Delrio e quello della Cultura Franceschini. Non c’è chiarezza per quanto riguarda la maggioranza e in riferimento a questo aspetto, il compito potrebbe essere affidato anche a una figura istituzionale, come quella del presidente del Senato Pietro Grasso. Il M5S e la Lega chiedono elezioni, ed in effetti questa legge elettorale attualmente favorirebbe i pentastellati ma c’è il problema di una legge elettorale da fare, perché l’Italicum vale solo per la Camera. Diversa la posizione di altre forze politiche, tra le quali Forza Italia che chiede di rimettere totalmente alla legge, così come Sinistra Italiana che dall’Italicum è penalizzata. A ciò si aggiunge il freno della Corte costituzionale che non si pronuncerà prima di gennaio. Di sicuro le forze politiche uscite vincenti da questo referendum premeranno affinché non si vada al voto il prima possibile.

La schiacciante vittoria del No e il ridimensionamento ontologico di Renzi e company

Ma tornando a ciò che è accaduto ieri sera, alla schiacciante vittoria del No e al discorso privo di innalzamento di toni che aveva caratterizzato la campagna referendiaria per il Sì di Renzi, il quale si è permesso di tutto e di più (persino strumentalizzare le malattie) con l’appoggio della maggior parte dei giornali nostrani, i quali, se al posto di Renzi ci fosse stato Berlusconi, avrebbero gridato allo scandalo, è ancora una volta utile e importante sottolineare come anche stavolta, dopo la Brexit e la vittoria di Trump, la realtà abia superato la narrazione del governo, della finanza, delle oligarchie economiche, degli opinionisti parrucconi che affermavano che qualora avesse vinto il no, l’Italia non sarebbe mai uscita dalla palude in cui versa e che a votare no erano solo conservatori, e ancora: della Rai e dei giornalisti servili verso Renzi, dei personaggi dello spettacolo e degli esponenti della politica estera. Nulla hanno potuto Roberto Benigni, il premio Strega Francesco Piccolo e Michele Santoro. Ancora una volta il popolo ha votato con la propria testa, senza lasciarsi sedurre da facili slogan e convincere che i promulgatori del no fossero un’accozzaglia e rappresentassero “la casta”. Nulla hanno potuto i provvedimenti e riforme del governo Renzi attuate durante questi mille giorni, tutti in direzione dell’esito positivo del referendum di ieri.

Matteo Renzi e i suoi yes-men and women sono partiti a cavallo e tornati a piedi, sembrano essere già lontani i giorni in cui arroganti ed irridenti (come dimenticare l’ormai celebre l’hashtag “Ciaone” di Ernesto Carbone in seguito al mancato quorum del referendum sulle trivelle), esponenti del Pd come Romano, Migliore, Morani, Boschi presenziavano in TV con la sicurezza stampata in volto che avrebbe vinto il sì, prevedendo scenari apocalittici in caso di vittoria del no e usando provvedimenti giusti come il superamento del bicameralismo paritario, il taglio delle poltrone in Parlamento e l’abolizione del CNEL come specchietto per le allodole, coprendo l’intero pasticcio quale era la riforma costituzionale, scritta, tra gli altri, da personaggi come Verdini. Insomma: i nuovi 100 senatori sarebbero stati eletti in gran segreto dalla casta politica all’interno dei Consigli regionali, che attualmente sono quasi tutti nelle mani del PD e con l’attuale legge elettorale per la Camera, gli italiani non avrebbero potuto più eleggere nemmeno una buona parte dei deputati, poiché sarebbero stati gli stessi partiti ad indicare il nome del primo degli eletti in ogni collegio. Inoltre la riforma prevedeva l’abbassamento della soglia dei voti necessari per l’elezione del Presidente della Repubblica da parte dei parlamentari, consentendo in questo modo ad un unico partito (in questo momento storico il PD di Renzi) di controllare anche la nomina della più alta carica dello Stato. In sintesi, Renzi avrebbe governato indisturbato per altri venti anni.

La maggioranza degli italiani ha preferito mantenere la Costituzione di Parri e Calamandrei

La maggioranza degli italiani, che da alcuni radical chic ed intellettualoidi  saranno ovviamente etichettati come “populisti”, ha preferito mantenere la Costituzione di Calamandrei e Parri. Tuttavia sarebbe bastato modificarla davvero solo in quei pochi aspetti che avrebbero semplificato e sburocratizzato il sistema, e la maggior parte avrebbe votato positivamente, mentre si è preferito smantellarla dando l’immunità parlamentare ai consiglieri regionali che avrebbero risposto agli interessi del partito piuttosto che a quelli del loro territorio, non facendo più votare i cittadini per il Senato. Molti cittadini italiani questo lo hanno capito, essendosi informati a dovere, soprattutto sul web, nel merito della riforma.

La campagna referendaria di Renzi è stata al limite dell’indecenza (come quella dei suoi adepti, una su tutti Maria Elena Boschi, la fatina dal sorriso sempre pronto, depositaria della narrazione renziana, che ha affermato che chi avrebbe votato no sarebbe stato come Casa Pound, e che i veri partigiani avrebbero votato sì), consegnandoci un Renzi diverso da quello che in molti ha trasmesso speranza, delle primarie, un Renzi accentratore, troppo sicuro di se, onnipresente in TV, bugiardo e arrogante.

Le dimissioni di Renzi da Capo del Governo concludono un breve ciclo cominciato con la sua nomina con un tweet, con un accordo interno al ceto dirigente italiano e sostenuto dalla finanza, e terminato con un voto su una riforma (scritta male e divisiva per il Paese, nella quale invece, tutti dovrebbero riconoscersi) invocata da una banca d’affari, senza mai passare per un’elezione. Senza contare, essendo stato quello sul referendum anche un voto al governo, che molto poco, se non nulla, è stato fatto per contrastare disoccupazione, precariato e austerità. Il PD sembra davvero aver dimenticato la propria base sociale. Non a caso chi ha votato massicciamente No sono stati proprio gli under 35. Che sia l’inizio di una nuova Storia, e che la data del 4 dicembre 2016 venga fissata bene nella mente di chi ha in mente di stravolgere anche lui in futuro la Carta Costituzionale, chiunque egli sia. L’invasione delle cavallette non c’è stata e non ci sarà, sebbene alcuni esponenti del PD renziano pensino che dopo di loro ci sarà il nulla e che siano ancora l’unica alternativa possibile.

Addio a Dario Fo, capopopolo e ‘giullare’ di corte dell’ultrasinistra

Dario Fo si è spento ieri 13 ottobre, all’età di 90 anni a Milano, tre anni dopo la morte della sua amatissima compagna di vita Franca Rame. Negli ultimi anni aveva dato pubblicamente il suo appoggio al M5S, ravvisando nel Movimento fondato dal suo amico Beppe Grillo, alcuni valori propri della sinistra che, disilluso, non riscontrava più nel partito.

Dario Fo, la cultura popolare e l’ideologia manichea

Dario Fo è stato un importante attore di teatro, regista, autore, sceneggiatore, pittore. Sarcastico e umorista, si è aggiudicato il Premio Nobel per la Letteratura nel 1997, e ha inventato con il grammelot, una nuova lingua volgare, che racchiudeva i dialetti di tutta Italia. Dario Fo è stato un giullare che ha trasformato in giullare a sua volta anche Francesco d’Assisi, raccontando la vita del santo più amato in Italia in maniera  efficace e divertente. La sua opera più conosciuta è senza dubbio Mistero Buffo, del 1969, costituita da un insieme di monologhi che descrivono alcuni episodi di argomento biblico, ispirati ad alcuni brani dei vangeli apocrifi o a racconti popolari sulla vita di Gesù.

L’opinione pubblica e molti addetti ai lavori reputano Dario Fo, secondo il quale la cultura popolare e la sua architettura collettiva (non quella ufficiale) è il vero cardine della storia del teatro e di tutte le arti, un character che si è contraddistinto per il diverso uso del corpo e delle potenzialità sceniche dell’attore: ogni suono, parola o canto uniti alla gestualità danno vita ad un insieme semantico indivisibile, di cui il racconto degli eventi è un canovaccio, accompagnato da un nonsense linguistico, da uno stile irriverente, buffonesco e parossistico, atto a dileggiare il potere, che si richiama alle rappresentazioni medioevali eseguite dai giullari e dai cantastorie. A ben osservare, Dario Fo non sembra proprio che si sia battuto per restituire dignità agli oppressi, indipendentemente dalla sua volontà, sulla quale non possiamo aprire un dibattito, ma sembra piuttosto che il nostro “giullare” abbia spalleggiato un certo tipo di potere, passando da ribelle a conformista; e il potere, come ci insegna il teatro elisabettiano, è sempre uguale a se stesso e non è né positivo, né negativo. Dario Fo è stato propugnatore di un’ideologia manichea, i cui ipse dixit sono ben lontani dal fulgore e dalla saggezza dei fools elisabettiani, delle gesta epiche dei plays di Shakespeare che raccontano la natura umana.

Dario Fo, tra teatro e politica

Figlio di un ferroviere e di una casalinga, Dario Fo crebbe in un paesino del lago Maggiore, in un ambito familiare intellettualmente molto vivace. La prima esperienza artistica fu presso l’Accademia di Brera, poi ci furono la guerra e la divisa della Repubblica di Salò, la radio con Franco Paraenti e Dyrano al Piccolo di Milano con Il dito nell’occhio; nonché il cinema con Lo sviato di Carlo Lizzani e soprattuto l’amore con l’attrice e drammaturga Franca Rame, con la quale firma Gli Arcangeli non giocano a flipper, Chi ruba un piede è fortunato in amore, La signora è da buttare, sino a diventare uno dei maggiori protagonisti del teatro italiano ed europeo e dell’intellighentia nostrana. Ma per ricordare in maniera giusta Dario Fo, bisogna menzionare anche misfatti non solo glorie, altrimenti si scade nell’apologia, scalfendo la memoria.

Dario Fo fu tra i giovani balilla che aderirono alla Repubblica di Salò, per combattare per la Patria perduta. E fin qui la cosa non deve sorprendere, dato che la maggior parte dei ragazzini cresciuti sotto il regime fascista, sotto il segno del Duce, presero parte alla Repubblica Sociale Italiana nata in seguito alla destituzione di Benito Mussolini. Dario Fo, allora diciassettenne andò a combattere volontario tra i parà della RSI, nel Raggruppamento A.P.A.R. di Tradate. Ancora nulla da obiettare, sarebbe troppo facile sentenziare allegramente sul passato di una persona, processare la sua storia, ma ciò che infastidisce a molti del Dario Fo “politico” sono le omissioni e i cambi di bandiera durante la sua vecchiaia, o come avrebbe preferito dire lui, l’anzianità, perché i vecchi sono ottusi e nostalgici, a differenza degli anziani. L’autore del Mistero buffo, non ha mai parlato del suo passato da repubblichino di sua sponte, e quando lo ha fatto incalzato da qualcuno ha spiegato che andò volontario tra i parà dell’esercito della RSI per far cadere le accuse di antifascismo che pendevano su suo padre, temendo una rappresaglia fascista. Sono parole che lasciano esterrefatti.

Sono motivazioni labili quelle di Dario Fo, “paracule”, inaccettabili soprattutto se si pensa ad un’altra figura di rilievo del nostro teatro che ha condiviso gli stessi ideali adolescenziali di Fo, quella di Giorgio Albertazzi, anche lui giovanissimo combattente nelle fila dei repubblichini. Ma a differenza del suo collega non lo ha mai negato e rinnegato. Fo è stato un intellettuale della sinistra non di sinistra, sinistra che in questi giorni si stanno sperticando in stucchevoli encomi e retorici panegirici verso “il grande artista e uomo libero” che è stato Dario Fo. Si usano sempre gli stessi termini quando ci lascia un intellettuale o uomo di cultura, magari sopravvalutato, come probabilmente è stato il Nobel per la Letteratura assegnato a Fo (premio che in realtà è un martello politico, più che un riconoscimento ad un vero e serio risultato letterario), se si pensa che scrittori come Gesualdo Bufalino, tanto per fare un nome, non hanno mai avuto l’onore di vedersi consegnare un meritato premio Nobel. Ma Dario Fo è stato un “poeta di corte dell’ultrasinistra”, come soleva dire Indro Montanelli, (il quale riservò a Fo una pungente battuta: “Ha la statura del suo nome”), un intoccabile, e se alcuni suoi show televisivi sono falliti, è perchè gran parte dell’opinione pubblica ha attribuito i suoi flop a censure o a cospirazioni (non si capisce bene da parte di chi e perché), non perchè non funzionavano.

Per ricordare in toto Dario Fo, non possiamo non dimenticarci della sua difesa degli assassini del rogo di Primavalle nel 1973 e della vergognosa firma della condanna del commissario Calabresi. Così come non possiamo dimeticare l’invettiva di Fo contro gli intellettuali italiani, rei di essere asserviti al pensiero unico:

“Abbiamo oggi una classe d’intellettuali che in gran parte ha perso il tamburo, un formidabile strumento per svegliare i bambini imbambolati. Tacciono in molti: non hanno dignità e quindi non s’indignano. Ecco cos’è terribile e incredibile: la mancanza di indignazione. Molti pensano: ma chi me lo fa fare di espormi? Un giorno magari avrò bisogno di qualcosa, di un favore, di un aiuto da chi ora sto criticando. Tutto è giocato sui ricatti, sulla possibilità di avere un vantaggio. Chi fa informazione o opinione ha capito una cosa: bisogna stare al gioco”.

Un intellettuale però non dovrebbe nemmeno rinnegare il proprio passato e fare il “paraculo”. Ma siamo certi che Dario Fo non ce ne avrebbe voluto, proprio in virtù della sua giusta invettiva contro i seguaci del pensiero unico, lo stesso che vuole i non estimatori dell’artista e dell’uomo Fo, ignoranti, fascisti o schiavi del potere. Surreale. Che la terra ti sia lieve signor Fo e che i suoi seguaci non siano troppo snob e sprezzanti con chi non è riuscito a farsi sedurre dalla sua rivoluzione linguistica, che ha trovato il suo Mistero non buffo ma noioso. In fondo siamo liberi di disfarci del senso di colpa che ci induce a farci intimidire dal rango di un artista, a non comprendere delle opere soprattutto quando queste non vogliono farsi comprendere da tutti noi.

 

Exit mobile version