‘Yoga’: il male di vivere secondo Emmanuel Carrère in un romanzo che non parla, per fortuna, di yoga

Avrebbe dovuto intitolarlo Tai chi, ma si sa, lo yoga attira molto di più, è più famoso. L’idea di Carrère, in effetti, era proprio quella di scrivere un libro sullo yoga, anzi, “un libro arguto e accattivante sullo yoga”, che si sarebbe dovuto intitolare “L’espirazione”. Perché questa scelta?

Perché Carrère pratica da trent’anni, tra alti e bassi, nonostante lui stesso si definisca un “meditante della domenica”, e perché lo yoga vende e tira di brutto.

Infatti questo libro sta vendendo molto bene, tutti ne parlano, Carrère può esserne contento, lui e il suo ego enorme (se lo dice da solo, da sempre, ne è consapevole) anche se soffre per non essere famoso e acclamato come Michel Houellebecq, che infatti dice spudoratamente d’invidiare.

Yoga: sinossi

La vita che Emmanuel Carrère racconta, questa volta, è proprio la sua: trascorsa, in gran parte, a combattere contro quella che gli antichi chiamavano melanconia. C’è stato un momento in cui lo scrittore credeva di aver sconfitto i suoi demoni, di aver raggiunto «uno stato di meraviglia e serenità»; allora ha deciso di buttare giù un libretto «arguto e accattivante» sulle discipline che pratica da anni: lo yoga, la meditazione, il tai chi.

Solo che quei demoni erano ancora in agguato, e quando meno se l’aspettava gli sono piombati addosso: e non sono bastati i farmaci, ci sono volute quattordici sedute di elettroshock per farlo uscire da quello che era stato diagnosticato come «disturbo bipolare di tipo II».

Questo non è dunque il libretto «arguto e accattivante» sullo yoga che Carrère intendeva offrirci: è molto di più. Vi si parla, certo, di che cos’è lo yoga e di come lo si pratica, e di un seminario di meditazione Vipassana che non era consentito abbandonare, e che lui abbandona senza esitazioni dopo aver appreso la morte di un amico nell’attentato a «Charlie Hebdo».

Ma anche di una relazione erotica intensissima e dei mesi terribili trascorsi al Sainte-Anne, l’ospedale psichiatrico di Parigi; del sorriso di Martha Argerich mentre suona la polacca Eroica di Chopin e di un soggiorno a Leros insieme ad alcuni ragazzi fuggiti dall’Afghanistan; di un’americana la cui sorella schizofrenica è scomparsa nel nulla e di come lui abbia smesso di battere a macchina con un solo dito – per finire, del suo lento ritorno alla vita, alla scrittura, all’amore.

Solo una questione di marketing?

Yoga di Carrère si chiama così solo per una questione di marketing, e su questo ci sono pochi dubbi; è un libro che avrebbe dovuto parlare di yoga ma che non lo fa, e che quando sembra farlo, lo fa per i fanatici dello yoga, in modo superficiale.

Carrère, dice di meditare, fare yoga e tai chi da trent’anni, ma certamente conosce poco di questa pratica, cosa che non per forza deve andare a suo sfavore e infatti  liquida la mindfulness con quattro parole non rendendosi neanche conto di coltivare proprio la mindfulness, e non di meditare o praticare yoga in modo “ortodosso”.

Carrère non ne sa molto, e quando accenna due parole sulla mindfulness fa pure errori, scrivendo che il suo fondatore è uno psichiatra, cosa che non è, perché Jon Kabat-Zinn è un biologo. Poi insulta pure un certo Ram Dass“apostolo dell’LSD, che in età avanzata è diventato un vecchio guru della mindfulness”, definendolo uno yogi-barbuto-vegetariano-indossatore di sandali-babbeo-imbecille-pericoloso, che scrive libri brutti, stupidi e inutili, quei libri di autoaiuto che vendono tanto.

Insomma l’impressione è che lo scrittore francese si faccia anche beffe delle maeditazione, vantandosi di non saperne fino in fondo. E allora? Forse deve aver capito che per curare certi male meditare non serve a nulla, e che l’amore, l’erotismo, le cure farmacologiche, possano essere più efficaci. Essere ignoranti in materia di yoga non è un crimine, come una certa dose di stravaganza. Come se Carrère fosse il primo ad esercitarla, sebbene essere più informati non guasta mai.

Un ‘autobiografia riuscita a metà

Il risultato è un’autobiografia mal riuscita. E tutto perché Carrère considera -giustamente- i suoi pensieri troppo importanti, intelligenti, fondamentali, non capendo che per l’Oriente i pensieri vanno abbandonati, sono soltanto illusione, non hanno nessun peso, nessuna importanza, allontanano dalla realtà ultima, confondono, sono ignoranza, così come il desiderio, l’attaccamento.

Per Carrère la meditazione è niente più che “l’ennesimo giochino narcisistico. E questo mi rattrista”. E se non avesse torto? E se alcuni occidentali hanno semplicemente un complesso di inferiorità nei confronti degli orientali da questo punto di vista?

Lo yoga non è qualcosa che serve per mantenersi in forma, una ginnastica, e Carrère sembra averlo capito, ma anche lui pratica comunque per tenersi in forma e soprattutto per provare a gestire la propria mente. E cosa ci sarebbe in fondo di male in questo:

“Trovo che sia già molto conquistarsi con la meditazione un po’ di stabilità psichica e di profondità strategica”. 

D’altronde non è tanto utile e produttivo entrare troppo in sè stessi: meditare è un atto egoistico. Mira a concentrarsi in un vuoto interiore, guardando sè stessi, sulla propria presunta forza interiore lasciando gli altri, l’amore (come ci dice lo scrittore francese) e il trascendente fuori dalla porta. Il modo migliore invece è proprio farlo entrare invece di perseguire come ossessi questa moda che sta spopolando.

 

Fonte Dejanira Bada

Montale: agnizioni, ricerca metafisica, Monterosso

Montale nacque nel 1896 a Genova e morì a Milano nel 1981. Nell’adolescenza e nella giovinezza trascorse le estati a Monterosso, dove faceva bagni e gite con Anna degli Uberti, che forse si può identificare con Annetta, la prima presenza femminile della sua poesia.

È proprio a Monterosso (alle Cinque Terre) che si formò come poeta autodidatta e fu proprio questo paese ad essere fondamentale nel suo immaginario. La critica ormai ha sistemato Montale assieme a Ungaretti (la poesia pura) e Saba (la poesia onesta). Oppure talvolta ha proposto una nuova triade: Montale, Ungaretti, Quasimodo (caposcuola dell’ermetismo).

Queste collocazioni tuttavia lasciano il tempo che trovano. Gli stessi critici un tempo proponevano la triade Carducci, Pascoli, D’Annunzio. Comunque Montale non fu mai legato ad alcuna scuola o ad alcun ismo letterario.

I modelli poetici di Montale

Possiamo solo affermare con certezza che in gioventù i suoi modelli di riferimento furono Foscolo, Leopardi, Manzoni come indicò nel suo scritto Stile e tradizione. Gli Ossi di seppia furono pubblicati da Gobetti nel 1925 e dimostrano una grande originalità perché si distanziano dall’opera dannunziana Alcyone.

Lo stesso Montale definì la poesia degli Ossi contro-eloquente e per nulla aulica. Il premio Nobel non a caso predilige i limoni ai bossi ligustri dei poeti laureati. La poesia degli Ossi permette di dire soltanto “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.

Nella sua prima raccolta poetica troviamo come protagonista l’aridità  del paesaggio ligure: non troviamo neanche sullo sfondo i grandi eventi storici o le ideologie, anche se Montale firmò in seguito il manifesto degli intellettuali antifascisti e si oppose quindi alle “stalle di Augia”.

Ossi di seppia: contenuti e stile

Gli stessi Ossi di seppia, che sono detriti in balia della corrente e che poi restano inermi sulla spiaggia, non simboleggiano altro che la condizione umana. L’agave abbarbicata allo scoglio in fondo non rappresenta altro che l’isolamento del poeta. La natura soffre; lo stesso essere umano soffre e non può far altro che testimoniare la propria sofferenza (“il male di vivere”).

La poesia montaliana si contraddistingue per il descrittivismo, la capacità di creare oggetti-emblemi e di mitizzare i luoghi della sua giovinezza. Ma è allo stesso tempo anche una poesia che rappresenta la crisi esistenziale di Montale, le sue disarmonie, il suo disagio, la precarietà della vita, l’inautenticità dell’esistenza: in definitiva il suo rapporto problematico con la realtà.

La poetica dell’autore ligure non consiste quindi in una pura nominazione e i suoi componimenti non sono semplici esercizi di stile, nonostante la sua giovane età. Montale inoltre non ha e non offre mai speranze, illusioni e neanche metafisiche consolatorie (i morti per Montale perdurano soltanto nella memoria dei vivi. Non c’è alcun aldilà): “è della razza di chi rimane a terra”, anche se è alla ricerca di un varco (alcuni critici hanno considerato per tale ragione il poeta comunque pervaso da un’ansia metafisica).

La ricerca metafisica di Montale

Forse anche per questo Montale è stato accusato di immobilismo esistenziale (è lui stesso Arsenio) nel corso della sua carriera poetica, oltre al fatto che è sempre stato etichettato come il poeta borghese per antonomasia. Per alcuni critici era non credente e borghese: perciò incapace di evolversi e destinato a ripetere le stesse tematiche.

Ad ogni modo gli Ossi di seppia forse restano il vertice della poesia montaliana: l’esito più alto.

Sono stati versati fiumi di inchiostro sul fatto che Montale non ebbe certezza della realtà né dell’esistenza e non riuscì mai a conciliarsi con sé stesso. Forse per queste ragioni la sua poesia è un’interrogazione delle cose ed è costituita da oggetti che divengono simboli.

Ma non è mai puro esercizio di nominazione né vano tentativo di giungere alla soglia del dicibile. Il poeta è teso verso l’essenziale, evita inutili orpelli. Non a caso il poeta degli “Ossi di seppia” nel 1946 aveva sostenuto in “Intervista immaginaria” che la poesia era apporto di conoscenza e non più mera rappresentazione.

Questa sua affermazione si può considerare una dichiarazione di intenti a cui seppe rimanere fedele e coerente negli anni successivi. Montale aveva intuito che gli oggetti potevano inviare dei segnali da decifrare e che in essi ci fossero dei significati profondi da cogliere, evitando di cacciarsi in zone inesplorate ai più e di dare forma alla materia informe e indifferenziata dell’inconscio.

La passione per il dettaglio e le agnizioni

Ecco allora che Montale cerca la verità nel dettaglio. La cerca nella traccia di lumaca, nello smeriglio di vetro. Non esclude dalla sua indagine nemmeno lo stuzzicadenti e la briciola, perché anche queste “possono dirci qualcosa”. La verità è sotto ai nostri occhi, nelle nostre mani. E’ come una cosa che non riusciamo a trovare, l’abbiamo cercata in tutti gli angoli tranne che nelle nostre mani.

Ma allo stesso tempo Montale ci dice che “è inafferrabile e sguscia come un’anguilla”. Esistono però delle persone che sono in grado di aiutarci nella ricerca della verità. E’ il caso di Esterina, che salva dal “delirio di immobilità” Arsenio e tutti coloro che appartengono alla “razza di chi rimane a terra”.

Nel lessico poetico di Montale compare in più occasioni il termine “agnizione”, che significa riconoscimento. Grazie ad Esterina il poeta giunge all’agnizione, alla rivelazione esistenziale, all’illuminazione interiore. Tramite quelle che Holderlin definiva “divinità terrestri” Montale giunge alle sue formule poetiche, alle sue celebri sentenze.

Queste “divinità terrestri” sono state naturalmente persone in carne ed ossa, ma hanno incontrato un grande poeta che è riuscito a vagheggiarle e trasfigurarle. Forse idealizzandole. Alcune di queste celebri epifanie montaliane furono vissute a Monterosso.

Oggi il turismo di massa arricchisce i liguri ma salvaguarda forse il territorio? Un tempo forse era un’ingiustizia che tale natura incontaminata fosse privilegio di pochi (quando non c’erano ancora le autostrade, i traghetti, le ferrovie). Esiste una via di mezzo? Il consumismo e il turismo mordi e fuggi forse  finiranno per deturpare anche le Cinque Terre. Per la tutela di quei borghi dovrebbe essere preferito un turismo di qualità a un turismo di quantità. Il rischio è che i vandali e i maleducati rovinino tutto.

 

Di Davide Morelli

 

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