Il regista Giuseppe Gimmi: riflessioni sul cinema, tra Sorrentino, Capuano e Maradona

Occuparsi di cinema, realizzare un film è come viaggiare sotto una scia di stelle. Sono due anni che approfondisco il cinema attraverso lo studio di sceneggiatura e regia, Per le vie del paradiso” è stato il mio primo cortometraggio che mi ha permesso attraverso l’uso delle immagini e di voci narranti di avvicinarmi, ad alcune mitologie della mia vita. Oggi vorrei strettamente parlare di alcune figure importanti, che hanno cambiato il mio pensiero, e la mia vita. Sotto il segno di Paolo Sorrentino, Antonio Capuano e Diego Armando Maradona
Che cosa avete contro la nostalgia? L’unico svago che resta contro la paura del futuro”. Su questa frase io mi rispecchio; la bellezza del cinema di Paolo Sorrentino per me, racchiude la debolezza dell’essere umano, con le sue fragilità, una sintesi perfetta dei pensieri scadenti che ognuno di noi fa, assorbito da tale ignoranza di ignorare il bello, cioè tutto quello che ci circonda ma soprattutto la nostra anima veritiera, perché da qui parte tutto.
Un giovanissimo Paolo Sorrentino
Riflettere su se stessi, e sicuramente un allenamento che noi tutti dovremmo fare ogni giorno, cosi come i personaggi sorrentiniani analizzano la loro vita attraverso un grandissimo procedimento di scrittura. La nostalgia dei personaggi la rivediamo nei luoghi, alcune volte influenzano le nostre scelte o addirittura ci posso schiacciare in un buco nero dove difficilmente si riesce a tornare a galla. Il cinema è verità, per me Sorrentino é verità, dove attraverso il suo modo di vedere le cose riesce a trasportarti in una realtà confusa, quindi la realtà di tutti i giorni.
Avvicinandomi al suo cinema qualcosa che sicuramente mi ha impressionato è la forza dei personaggi attraverso lo sdoppiamento di facce (Toni Servillo) che nello stesso tempo fanno riflettere su una caratteristica veritiera della nostra vita, le maschere che indossiamo ogni giorno per essere “perfetti” alla massa senza  pensare a noi. Il cinema è senza regole per me, è tutto questo ho capito grazie alle sue pellicole, che si può descrivere la noia, i difetti, i pensieri, la gioia di vivere tutto attraverso un solo binario, quello della verità di essere se stessi, e di non diventare troppo abili per paura di convincersi di sapere tutto dalla vita.
“Non ti disunire” esclama Antonio Capuano a Fabietto Schisa nel film È Stata la mano di Dio. Essere fedeli a se stessi anche quando tutto va male. Parole, gesti e affermazioni, ma alla fine chi siamo noi? Ho conosciuto Antonio Capuano, in un breve incontro cinematografico a Bari. Una persona molto intelligente ma soprattutto un uomo che racconta attraverso una visione incredibile l’essere umano. Cerco di fare le cose con molta onestà. Onestà può essere una parola fastidiosa: cerco di fare le cose come le penso e come le sento, senza nascondigli, come giocano i bambini, questo è Antonio Capuano, dove la verità tocca come corde musicali la nostra anima e ci fa scrivere storie forti, dove attraverso gli occhi puoi toccare il personaggio, addirittura puoi sentirti travolto da tutto questo, perché devi essere accanito della vita. È una magia, come dicevo all’inizio, si perché fuori se alzi gli occhi al cielo senti l’odore della libertà.
“Maradona era una divinità” esclama Paolo Sorrentino in un’intervista. Diego Armando Maradona, dai capelli arruffati, con il volto angelico e un cuore d’oro come i suoi piedi. Il calcio è Diego Armando Maradona. Maradona è uno stato d’animo.
Siamo nel 1984 di un 5 Luglio che resterà nel cuore di tutti gli appassionati di calcio, l’arrivo di Maradona a Napoli, un riscatto, qualcosa di eccezionale che si unisce ad un sogno. L’uomo può superare i suoi limiti, può fondere la sua volontà e arrivare ovunque, quasi a toccare il cielo come ha fatto Maradona, fisico e metafisico questa è la differenza tra gli altri. È difficile raccontare una divinità, perché non la puoi raccontare ma la puoi solo sentire dentro, questo sei per me Diego Armando Maradona.
Giuseppe Gimmi

‘È stata la mano di Dio’, il cinema necessario di Paolo Sorrentino tra reale e immaginario

Sguardo caldo e mano salda per condurti nei segreti di un’autobiografia, certo, ma anche alla fonte di un cinema sentito dalla prima all’ultima sequenza come necessario. Dunque non a caso Sorrentino costruisce “È stata la mano di Dio” su tre interruttori che danno luce a un affresco perfettamente bilanciato tra reale e immaginario: il mare che rappresenta il vero cielo di Napoli, il miracolo di Maradona e l’avvento di un mentore come il cineasta Antonio Capuano, autoctono per scelta di libertà, il più mansueto degli incazzosi, l’antidoto vivente contro la diffusione dello SPAIP.

Al centro del ritratto estroso e sarcastico della tranquilla vita medioborghese della famiglia Sorrentino alias Schisa, Fabietto, l’alter ego di Paolo, deve però affrontare, manco fosse un eroe omerico, un dolore pressoché insostenibile, un’assurda disgrazia forse destinata a funestare tutti gli anni a venire del già spaesato adolescente.

La scorrevolezza del ritmo, la sobrietà delle musiche, la duttilità della fotografia e la pertinenza di costumi e scenografie riescono a garantire sino al finale il coinvolgimento, però è logico che una cesura così tragica provochi un mutamento delle atmosfere e il connesso adeguamento del respiro e dei toni del film. È pertanto alquanto strano che qualche recensore e qualche spettatore imputino a un film che assomiglia pour cause a un percorso marino contrassegnato dalle sue anse, le sue coste, i suoi approdi e i suoi abissi, l’affievolimento di una presunta “seconda parte”: la quale esiste, ovviamente, sul piano drammaturgico, ma non opera ribaltamenti su quello stilistico.

In un contesto polifonico i contributi degli interpreti non si dovrebbero neanche suddividere, ma il cinema di Sorrentino è spontaneamente generoso, non genera macchiette bensì caratteri, finge la verosimiglianza attaccandovi sempre di sguincio il cartellino del fantastico: Servillo è come al solito impressionante per come è in grado di modellare con cronometrici tocchi l’affabilità cameratesca del pater familias; Teresa Saponangelo, eccezionale in doppia modalità perché recita per il personaggio ma contemporaneamente per come (ri)vive nell’amore del figlio; Luisa Ranieri, oltre che fenomeno da studiare nei convegni di genetica (diventa sempre più bella col passare degli anni), molto concentrata in sequenze nient’affatto facili e via via tutti gli altri, dal Fabietto di Scotti al fratello di Joubert, dal Franco di Gallo al Capuano di Capano, dall’Alfredo di Carpentieri alla Pedrazzi nel ruolo dell’impagabile baronessa: vedere per credere come un episodio estremamente spinto si trasformi in una pagina squisita di cinema, dove, cioè, l’arredamento gremito di polveroso e smorto lusso (non manca la riproduzione in bronzo del pescatorello di Gemito), le movenze da lady Frankenstein della stessa, i suoi comandi da navigatrice esperta nell’atto sconosciuto dell’amplesso fanno davvero percepire in sala il fatidico “odore delle case dei vecchi” che è una delle battute ereditate dai dialoghi sorrentiniani d’eccellenza.

Tra i tanti e straripanti omaggi dedicati al calciatore argentino che volle farsi re, riannodati a un’età d’oro che ha preso la forma di una nuvola di fuoco piazzata sul cono del Vesuvio, quello di Sorrentino è certo il più commovente: niente analisi tecniche o risse da talk show, bensì un’esplosione incontenibile d’ebbrezza popolare, l’orgia della devozione al culto più puro, quello del talento e all’obiettivo finale più nobile, quello della leggenda.

Gol “falso” e gol vero (inestimabili entrambi), cosa importa? La grande bellezza al servizio della nostra condizione di voyeurs assomiglia a quella del cinema, falsa/vera per definizione, magari la stessa del capodopera “C’era una volta in America” che il protagonista cerca ogni volta invano di godersi in cassetta VHS.

L’identico meccanismo che genera l’apparizione del munaciello (ovviamente anch’esso falso/vero) inseguito dal narratore a Marechiaro nei tunnel allagati tra le rovine classiche e gli scogli, ricevendone in premio una sorta di breviario esistenziale: Capuano e la perseveranza, Capuano e la libertà, Capuano e l’indignazione, Capuano che affronta a brutto muso l’adepto… “O tiene ‘nu poco e curaggio?”. Succede proprio così: il coraggio -in questo film universale nonostante o forse a causa delle metafore ossessive e i miti personali- l’acquisisce in extremis proprio l’autore infischiandosene delle pennellate potenzialmente (politicamente) scorrette su donne, desiderio e sesso e cercando sempre e solo di non disunirsi come recita l’ultimo strillo del mentore prima di tuffarsi in mare aperto.

Sì, il mare. Perché la realtà sarà pure scadente ma non lo è il karma di Paolo/Fabietto ricalcato sul capitano della conradiana “Linea d’ombra”, quella che separa la giovinezza dall’ingresso nella maturità e la catartica coscienza di sé.

 

E’ STATA LA MANO DI DIO

 

‘Maradona, l’albatros che danza’, dello scrittore Ivano Mugnaini

Questo pezzo non parla di Maradona. Parla del sogno e parla della realtà, della bellezza del calcio generato da lui. 

Dopo il memorabile goal all’Inghilterra ai Mondiali del 1986 un commentatore argentino definì Maradona “aquilone cósmico”. Un altro cronista esclamò una mezza dozzina di volte “un poema de goal!”

Se si accosta Maradona alla poesia, mi viene in mente l’Albatros di Baudelaire: “Il Poeta principe delle nubi / sta con l’uragano e ride degli arcieri/ esule in terra […] con le sue ali di gigante”.

Maradona è stato un albatros che rideva e sorrideva. Dissimile, in questo, da un altro albatros, Fausto Coppi. Anch’egli atleta fuori dall’ordinario, per doti fisiche e talento. Il ciclista piemontese era malinconico e possente come una salita da compiere da solo, là, davanti a tutti, con una maglietta bianca e azzurra, un cielo che guarda muto, un destino che chiama a sé, anzitempo.

Maradona era un albatros che sorride. Di gioia, di esuberanza di vita. Quando era nel suo elemento naturale, il campo di calcio, con un pallone tra i piedi danzava, sorrideva, cadeva, si rialzava e danzava ancora.

Volava, sul campo, Maradona. I suoi compagni di squadra e gli avversari dicevano che quando ti correva accanto sentivi un fruscio, un alito di vento, un pensiero felice. Entrambi imprendibili.

In varie interviste Maradona ha affermato che dentro il campo c’è la felicità.

“Los dolores se van. La vida se va”. Se ne va quella parte della vita che è frustrazione, pena, pesantezza. Resta il privilegio, la leggerezza del gioco.

Maradona voleva dare la felicità. Lo ha ripetuto decine di volte. Lo ha detto riferendosi ai tifosi dell’Argentina. Lo ha detto ai tifosi del Napoli. Voleva farli felici. Voleva realizzare quello che neppure gli dei sono mai riusciti a fare: rendere felici gli uomini. 

E lui rispondeva ai giornalisti che gli chiedevano come si sentisse a essere considerato un dio, con un sorriso agrodolce che nascondeva chissà quali pensieri: “Io credo che sono cose differenti”. 

Maradona ha voluto rendere felice una città che ha subito e vissuto umiliazioni per secoli.

Napoli era la città perfetta per Maradona. Lo specchio della sua vera identità, il luogo del mondo in cui la passione ha la sincerità di uno scugnizzo, la sua stessa sete di vita, di gioco, di passione.

Napoli era la città più sbagliata al mondo per Maradona. La perfezione assoluta di quell’amore eccessivo, sconfinato, lo avrebbe presto o tardi soffocato di egoismo, di idolatrie, di bocche di sanguisughe della privacy e dello spazio individuale. 

Voleva fuggire. Non glielo hanno consentito. E lui, in quel clima, con il corpo e la mente già minati dalle dipendenze, con un presidente che gli parlava a stento, è riuscito a regalare alla gente il secondo scudetto. 

Maradona era il ragazzo nato povero, nella periferia della periferia. Pensavano di poterlo comprare con i Rolex d’oro e le Ferrari. Per eccesso di amore o semplicemente per cercare di controllarlo, legandone le ali, come una preda. La camorra lo ha corteggiato per poter esibire il trofeo dei trofei. Per lanciare un messaggio: se controlliamo lui possiamo controllare tutto e tutti.

Maradona era forte ed era bambino. Entrambe le cose alla massima potenza. Il contrasto tra questi due estremi ha avuto un effetto lacerante. Nello spezzone di un documentario a lui dedicato si vede Maradona che gioca con la figlia. Ad un certo momento il suo riso è identico a quello di lei. Ha la stessa voce e gli stessi occhi del bambino che giocava a pallone sul campo polveroso di Villa Fiorito.

L’albatros vola e cammina. Ferisce le sua stessa carne nella sproporzione, nel dissidio tra il volo e la realtà. 

Come Ayrton Senna. Entrambi felici e disperatamente persi dentro una passione unica, assoluta, divorante. Per Senna era la velocità, per Maradona il pallone. Quello da cui da ragazzo non si staccava mai. Neppure a letto, neppure quando dormiva.

Cosa sia un “mito” non si sa. Non si sa definire, non se ne conoscono le cause e le manifestazioni. Ma una cosa è certa: essere un mito non è facile. Lo ha scoperto a sua spese Marilyn Monroe, se ne è reso conto suo malgrado James Dean, ed Elvis, e con loro tutti gli altri. Quelli chiamati a sperimentare sullo propria pelle e sulla propria carne il divario tra l’amore assoluto per il loro “demone”, quello che hanno reso perfetto, e la vita, quella fuori del set, dello stadio, dello studio televisivo, del teatro dove si recita e dove si vive il sogno. La vita, come ogni donna che si sente tradita, non te lo perdona, ti avvelena. Ti strappa anzitempo dal tuo amatissimo demone e da tutti coloro che amando la tua stessa ossessione hanno amato te.

Essere un uomo, e sentire nella testa e sulle ossa la pressione di migliaia di occhi e menti. Reclamano e pretendono la tua attenzione, vogliono che realizzi il loro sogno, vogliono che tu sia quello che loro vogliono. A tutto questo, nessuno può reggere a lungo.

Maradona ad un certo momento ha sbagliato. Certo. Per l’eccesso della pressione sulle pareti del cervello e dei pensieri. O semplicemente ha sbagliato per un errore, umanissimo. Ha sbagliato. Ma chi voleva trovare un santo o un dio su un campo di calcio ha cercato in un luogo inadeguato. Maradona, visto in alcune foto da bambino, avevo un sguardo da indio. Forse qualche goccia di sangue indio scorreva nelle sue vene. Così come in quelle di Carlos Monzon. 

Monzon sfogava il marchio di un’atavica emarginazione con pugni assestati con una forza gelida, chirurgicamente feroci. Benvenuti lo sa bene. Ne ha un ricordo indelebile.

Maradona ha avuto il dono e il privilegio di sfogare e riscattare quel marchio danzando.  Sul terreno di gioco la rabbia diventava sorriso.

Life is life. Una canzone degli Opus del 1985. Il 19 aprile del 1989 sul campo di Monaco di Baviera, Maradona, con gli scarpini slacciati, danza, assieme al compagno di squadra Antonio Careca, al ritmo di quelle note. Ed è un’esuberanza spontanea che diventa simbolica in modo assolutamente naturale. Life is life, la vita è la vita. Come a dire la vita non si comprende. Non c’è niente da capire. Basta rispondere con le scarpe slacciate alla voglia di giocare e di stare bene, e di vincere, magari assieme ad un amico brasiliano.

Monzon si è riscattato a suon di pugni. Maradona a suon di sorrisi.

Perfino nell’intervista concessa negli anni più bui ad un noto giornalista argentino, quella in cui piange, grasso, irriconoscibile, reduce dalla clinica psichiatrica, con la commozione che gli riga la faccia di lacrime, trovo il modo di sorridere. Il giornalista gli dice “Hai sempre lottato, ce la farai anche stavolta”. E lui risponde “Stavolta sono KO”. Ma perfino lì sorride. 

Magari pensava al campo. A tutto quello che gli aveva dato e che aveva avuto.

Perché il campo di calcio è uno dei rarissimi luoghi al mondo dove sussiste la possibilità del merito e della giustizia.  Immaginiamo un potentissimo presidente padre-padrone che voglia imporre a tutti i costi il proprio figlio, o il nipote o il cognato. Ordina all’allenatore di farlo giocare e l’allenatore cede. Il raccomandato scende in campo. Al primo liscio una risata collettiva. Al primo passaggio sbagliato una salva di fischi. Al terzo errore marchiano viene giù lo stadio. Su un campo di calcio non si può barare. Gioca chi sa e quasi sempre vince il migliore. Sì, almeno su un campo di calcio gioca e vince il migliore. Per questo motivo amo ancora l’idea del calcio. Non amo il calcio di oggi, i prospetti e i profili, la freddezza del cambio di maglia. Non amo la trasformazione in azienda. Mi manca la passione e la rabbia di rivalsa: Riva, Boninsegna, Domenghini e mille altri.

 

Il racconto completo qui LIFE IS LIFE – L’albatros che danza – Ivano Mugnaini

Per chi suona la sinistra. Renzi che si crede Maradona recluta Hemingway e Picasso per le primarie

Militante PD: Forza signori, forza, qui c’è la vera sinistra, ripeto, fresca di giornata, la vera sinistra signori, accorrete prima che finisca! Venghino signori, venghino! Ernest Hemingway si avvicina, incuriosito dalla scritta sopra il banchetto: Lingotto fiere, per chi suona la sinistra. Gli ricorda ovviamente il titolo del suo capolavoro, Per chi suona la campana. Decide di provare a entrare: Mi scusi, cosa succede qua dentro?

Militante PD: Lei chi è?
Hemingway: Io? Ernest Hemingway, lo scrittore, credo che abbiate ripreso il titolo del mio libro.
Militante PD: Come no! Vuole una tessera della sinistra?
Hemingway: Dipende che sinistra siete.
Militante PD: Aspetti guardo cosa è rimasto. Abbiamo queste – e l’assistente si passa tra le mani una tessera con scritto Pd, una con scritto Campo progressista, una con Sinistra italiana, una con Possibile, una con Articolo 1 – Movimento democratici e progressisti, poi di nuovo Pd, però è la sinistra burocratica di Orlando, e ancora Pd, però quella populista-rancorosa di Emiliano.
Hemingway è un po’ spaesato: Scusate, ma la sinistra non è una sola?
Il Militante PD ride: Ma lei da dove viene? Mica siamo in America, dove c’è il Partito democratico e basta: lì state uniti per vincere, qui ci dividiamo per vincere tutti…
Hemingway: … una poltrona in Parlamento.
Militante PD: Certo! Comunque le posso consigliare la sinistra di Renzi, la provi, ottima, moderna, veloce, mai concreta, praticamente si scioglie in bocca, le sembrerà di non sentirla.
Hemingway ci pensa un attimo: Sono un po’ perplesso.
Militante PD: Non sarà mica un gufo?
Hemingway: Come?
L’assistente lo capisce subito, non è un renziano, e corre dentro. Hemingway lo vede ritornare con Renzi.
Matteo Renzi: Carissimo Ernest come stai? Sono Matteo. Let’s call me Matthew!
Hemingway: Ma quello è Moby Dick!
Renzi: Esatto, la balena bianca, come la Democrazia cristiana che voglio rifare, non ti sembra grandioso? Entra, altri grandi ti hanno preceduto.
Hemingway decide di entrare, più per curiosità, che per convinzione.
Renzi: Ti vedo perplesso, non trattarmi come le tue mogli, mi raccomando!
Hemingway: In che senso?
Renzi: So che ne hai cambiate 4, non vorrei che avessi dubbi pure sul PD.
Hemingway: Resisterò stoicamente, come i miei personaggi.
Renzi: Bravo Ernest, anch’io mi sono sempre immedesimato in Robert Jordan, il tuo eroe di Per chi suona la campana, che si sacrifica per la causa. Anch’io sai avevo detto che lasciavo la politica, ma il Paese che farebbe senza di me? Io, come Jordan, rimango e lotto per gli altri, fosse per me mica rivorrei sedermi a Palazzo Chigi, ma gente come me deve eroicamente sacrificarsi.
Hemingway: Immagino quanto sia pesante per te, tutto quel potere, quei soldi, quel narcisismo.
Renzi: Esatto – non capisce l’ironia Renzi – abbiamo bisogno di intellettuali che ci capiscano.
Hemingway: Ci? Chi?
Renzi: Noi, noi Renzi.
Hemingway: Noi popolo renziano.
Renzi: No, no, noi Renzi, plurale magistratis.
Hemingway: Maiestatis vorrà dire?
Renzi: Perdoni il lapsus, sa vicende familiari.
Hemingway: Comunque chi sono questi intellettuali?
Renzi: Certamente, vieni che ti presento Pablo. – e lo porta dietro le quinte del Lingotto, dove un uomo è intento a portare un quadro nel camerino di Renzi – Segui lui, è il mio programmista, Pablo.
Hemingway segue quell’uomo chiamandolo: Pablo!

Quello si gira… E’ Picasso! Pablo Picasso!
Hemingway: Pablo, ma che ci fai qui?
Pablo Picasso: Sto portando il programma del Pd al segretario uscente.
Hemingway: Ma questo è un quadro!
Picasso: Sì, puro cubismo.
Hemingway lo osserva: Ma non si capisce nulla.
Picasso: Esatto… è il programma del PD.

Intanto dal palco si sente la voce di Graziano Delrio, ministro dei trasporti e delle infrastrutture, dire: E adesso salutiamo “el politico de oro” Diego Armando Maradona!

Renzi entra trionfale con la maglia del Napoli e un pallone ai piedi. Sia Hemingway che Picasso, ormai spostatisi sugli spalti, si girano…
Picasso: Si è dimenticato il programma! Ce l’ho qui il quadro!
Hemingway: L’ha chiamato Diego Armando Maradona e non se n’è accorto nessuno!

Picasso però sembra entusiasmarsi e urla: Passa! Passa!
Tutta la platea intanto urla Diego, Diego verso Renzi e questi, dando sfoggio di sé, tira una pallonata fortissima verso il pubblico… Il pallone prende in pieno il quadro di Picasso e trapassandolo colpisce in pieno la faccia del pittore scaraventandolo all’indietro.

Hemingway: Pablo! Il programma!
Ma la folla non se ne accorge neppure.

Hemingway trascina via il ferito, ma lascia stare il programma, cioè il quadro, perché Picasso prima di svenire gli dice: Lascia stare il quadro, tanto il programma di Renzi… è Renzi e basta, e la squadra di Renzi è sempre solo Renzi. Diego la palla la passava, era un leader ma non era egocentrico.

Mughini offende ancora Napoli: la saccenza dell’ignoranza di un meridionale rinnegato

L’intellettuale da bar Giampiero Mughini offende il popolo napoletano gratuitamente e nel contesto di una trasmissione calcistica. Gravi ed inopportune sono le sue affermazioni verso la città di Napoli.

Nonostante non sia la prima volta che Mughini esprime varie opinioni opinabili ed a volte non corrispondenti alla verità storica delle tematiche sulle quali viene chiesto un suo parere, Mughini viene sistematicamente invitato in trasmissioni radio e televisive che trattano vari argomenti: dalla politica, allo sport ed altro.

Mughininel corso di Tiki Taka,  aveva commentato il ritorno a Napoli di Maradona con queste parole:

”Pieno di rispetto per la passione popolare nei confronti di un campione [Maradona] e per un momento dell’identità calcistica di questa città [Napoli], che purtroppo, a parte quella calcistica, non ne ha talmente tante altre”.

Lo scrittore Angelo Forgione ha commentato attraverso il suo blog: “per l’intellettuale all’italiana che ha rinnegato pubblicamente le sue origini meridionali (catanesi), Napoli non avrebbe altre identità oltre quella calcistica.

Intellettuale da bar dello sport, appunto, che solo in un salotto sportivo, peraltro milanese, può consentirsi, senza contraddittorio alcuno, di cancellare almeno le identità napoletane della musica, del cibo e della bellezza paesaggistica, cioè quanto fa buona immagine dell’Italia all’estero, tanto per gradire.

Qualcuno dovrebbe insegnare a Mughini la storia di Napoli, così che possa rendersi conto che è dai tempi della Neapolis greco-romana la città più identitaria d’Italia per storia, cultura e tradizione, l’unica capace di imporre la sua identità greca a Romani e Longobardi, l’unica a resistere a romanizzazione e Invasioni barbariche del mondo antico, e oggi l’unica ad aver resistito a piemontesizzazione e americanizzazione.

Qualcuno spieghi a Mughini che è libero di rimpiangere pubblicamente di essere nato al mare siciliano invece che a Parigi, e di scegliere, come ha fatto, la Juventus per sentirsi uomo di gran lignaggio – perché i natali non li puoi scegliere ma la squadra di calcio sì, e se sei uomo con disturbi di identità e personalità è facile che, da siciliano insoddisfatto, scegli quella vincente – ma non per questo può consentirsi di distribuire cultura sociologica senza averne.

Qualcuno dica a Mughini che Napoli preserva la sua identità da più di due millenni, ed è sempre stata così diversa da perfezionare svariati filoni culturali, alcuni dei quali capaci di farsi universali e non solo nazionali. Ne ha passate tante, ma davvero tante, più di tutte, eppure è sempre sopravvissuta, imponendosi agli occhi del mondo.

Proprio come Maradona. Ecco perché Diego e Napoli si riconoscono per affinità, si scelgono e si attraggono. Ma questo, un intellettuale da bar dello sport non può arrivare a capirlo. Figurarsi il resto. Si rassegni però Mughini, perché il Calcio, nel mondo e nella leggenda, si dice «Maradona», e quando si dice «Maradona» si dice «Napoli», non «Juventus». Disgraziata boria”.

Maradona non è stato certamente un uomo impeccabile ed esemplare, è stato un uomo vittima di se stesso, ma ha pagato per i suoi errori, in prima persona, ma certamente lui sarà ricordato e apprezzato per sempre; di Mughini, quando passerà a miglior (o peggior) vita non si ricorderà nessuno. Nessuno avrà nostalgia di questo triste e patetico individuo, appartenente ad una generazione di falliti, di ribelli “pentiti” che non ha lasciato nulla, se non un deserto di ideologie e soldi rubati, pappati dagli attuali 60-70enni che mari prendono pure per il sedere i giovani idealisti e di buona volontà di oggi, che vogliono cambiare le cose. Maradona perlomeno ci ha divertiti sia dentro che fuori dal campo, sputtanando il potere calcistico rappresentato da Sir Blatter (condannato insieme al compago merende Platini a otto anni di squalifica per fondi illecita all’Uefa), parlando di mafia. Anche per questo è stato fatto fuori. Ma forse se El pibe de oro avesse militato nella Juventus (rifiutò una super offerta dell’avvocato Agnelli perché si sentiva legato al Napoli e a Napoli), l’abominevole Mughini non avrebbe avuto nulla da eccepire. Se poi c’è una tifoseria per la quale l’importante è vincere ad ogni costo e con ogni mezzo (ricordiamo li striscione di alcuni juventini ai tempi di calciopoli, “Il fine giustifica i mezzi”), è proprio quella juventina.

Come ha acutamente scritto qualche commentatore di Youtube, “pensare che Mughini abbia rappresentato uno dei maestri della sinistra “alternativa” degli anni ’70 è quasi una cartina al tornasole del fallimento non di una generazione ma di un intero pensiero, così “radicale” e “altro” che si è squagliato al suono di qualche moneta tintinnante. E’ una storia squallida di miseri venduti che hanno mandato tanti ragazzi allo sbaraglio ideologico e non solo. E che ha steso un lenzuolo di decenni di conformismo. L’unica speranza è che il tempo se li porti via tutti, uno per uno. Pensare e affermare che la lotta di classe sia un concetto superato solo perché hai deciso di fare il lacchè del capitale-cialtrone (per di più ben pagato) meriterebbe una sanzione corporale. E anche su questo sarebbe da tornare ai fondamentali”. Addio Mughini a te e alla tua sfacciataggine e dialettica vuota adatta ai pollai televisivi, che ti permette ancora di restare a galla, in becere trasmissioni televisive dove difendi personaggetti come Luciano Moggi e dove, imperterrito, dimostri che il tuo obiettivo non sono la discussione ed il confronto, ma il creare una sorta di commedia dell’arte televisiva dove tu interpreti un personaggio  totalmente bidimensionale e senza alcun spessore. Una caricatura di te stesso.

 

Fonte:

http://www.europacalcio.it/forgione-su-mughini-intellettuale-da-bar-meridionale-rinnegato-qualcuno-gli-insegni-la-storia-132100

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