L’antifascismo dei cretini affogati nel ridicolo che tirano in ballo persino Dante

Abbiamo sempre avuto pazienza con i cretini non cattivi e con i cattivi ma intelligenti. Non riusciamo però ad averne con i cretini cattivi, magari in origine solo cretini poi incattiviti oppure solo cattivi poi rincretiniti. Ma sono cresciuti a dismisura e si sono aggravati. Sto parlando del nuovo antifascismo, collezione autunno-inverno, che si alimenta di fascistometri per misurare il grado di fascismo che è in ciascuno di noi e di istruzioni per (non) diventare fascisti, di Anpi posticce che sventolano l’antifascismo anche il 4 novembre, non più costituite da partigiani ma da militanti dell’odio perenne; e poi di mobilitazioni, manifestazioni e mascalzonate, veicolate da giornaloni, telegiornaloni, talk show e da tante figurine istituzionali. Come quel Figo che alterna dichiarazioni d’antifascismo a dichiarazioni surreali d’amore a proposito degli stupri e i massacri tossico-migranti. Per lui le violenze si combattono con l’amore, come dicevano i più sfigati figli dei fiori mezzo secolo fa. Lui ci arriva adesso, cinquant’anni dopo e a proposito di un fatto così terribile come uno stupro mortale a una ragazzina.

Sopportavamo il vecchio antifascismo parruccone, trombone, un po’ di maniera. Arrivavamo a sopportare perfino un antifascismo di risulta, violento, intollerante, estremista. Finché si tratta dei dementi agitati dei centri sociali, di qualche femminista in calore ideologico o con caldane fasciofobe, oppure di sparsi cretini del grillismo e del vecchio sinistrismo, ce ne facevamo una ragione. Ma sconforta quando vedi pure intellettuali, direttori, editori, giornalisti, testate che avevano qualche credibilità intellettuale o almeno professionale, che leggevi e stimavi, avere una regressione idiota nell’odio verso un presunto e rinato neofascismo (che in realtà rinasce ogni settimana da 73 anni, in base ai loro dolori reumatici, i loro indicatori e delatori).

Per non restare nel vago, mi riferisco a firme, filosofi, giornalisti, scrittori che esercitano il loro mestiere su la Repubblica, l’Espresso, i loro paraguru genere Saviano, per non dire nei talk show e nei tg rai, mediaset (solo un po’ meno), la 7 e sky. Probabilmente un combinato disposto ha dato loro alla testa: il fallimento inglorioso della sinistra su tutte le ruote, l’avanzata popolare di Salvini, il trionfo in tutto il mondo e non coi colpi di stato ma a suon di voti, di leader e movimenti opposti alla sinistra. E poi le prediche, le censure e le leggi opinionicide di Suor Boldrina e Frate Fiano, solo per citare due chierici precursori di questo antifascismo.

Ma devono aver raggiunto uno stato patologico così avanzato questi malati del morbo d’Antifascismo, se perfino il Corriere della sera, si è di recente ribellato alla deriva idiota dell’antifascismo con un equilibrato editoriale di Paolo Mieli, un frizzante corsivo di Gramellini, un incisivo affondo di Panebianco, e scritti di Battisti, della Tarquini. Poi, leggi Paolo Giordano in prima pagina del Corriere che prende sul serio i calendari di Mussolini (è la scemitudine dei numeri primi), leggi Aldo Grasso che nega le pagine di storia sociale del fascismo, carte del lavoro e garanzie per pensionati e donne, leggi l’inquisizione filosofica della Di Cesare, più menate varie di antirazzismo e antifascismo e ti accorgi che il Corriere gareggia con la Repubblica sullo stesso terreno.

L’antifascismo patologico è a uno stadio acuto se il 4 novembre Furio Colombo sul Fatto sbaglia ricorrenza e dedica il suo fondo all’apologia del 25 aprile. O se un giornalista de La Repubblica, Maurizio Crosetti, accecato da furiosa demenza, auspica il massacro a Piazzale Loreto di Salvini. Ma la demenza ha pure valore retroattivo nei secoli andati. Sono reduce dall’imbarazzante lettura di un libro dedicato a Dante di tale Chiara Mercuri, pubblicato da Laterza, in cui si presenta Dante come un precursore dei dem, uno che va in esilio perché dalla parte delle lotte proletarie e viene citato tra i grandi di tutti i tempi insieme a Saviano, senza un minimo senso del ridicolo.

Saranno stati i fascisti del suo tempo a condannarlo a morte e all’esilio, evidentemente. Quelli che una polpetta avvelenata di nome Michela Murgia vorrebbe misurare col suo fascistometro, lanciato come ultima moda ideologica magari da adottare anche nelle aule e nei media per schedare e discriminare chi non la pensa come te. Un formidabile misuratore non dell’altrui fascismo ma della propria demenza faziosa.

Ho sempre ritenuto che meriti rispetto chi fu antifascista col fascismo vivo e imperante, un antifascismo fiero e scontato sulla propria persona; quello postumo che infierisce contro i morti no. Ma quello posticcio, surreale e caricaturale dei nostri giorni, è un triplice insulto: al fascismo, all’antifascismo e all’intelligenza degli italiani. Come è un insulto quotidiano alla memoria di tutti i caduti, a partire dagli stessi ebrei, le ossessive, petulanti, rievocazioni del razzismo e dei campi di sterminio, lette come eventi in corso di replica.

Il delirio antifascista e antirazzista porta anche ad alcune intelligenze un tempo rispettabili, un obnubilamento mentale con esiti deprimenti e grotteschi. Il tutto si accompagna a un ritorno di odio patrio, di antiitalianità, che sembrava superato da alcuni decenni, e che invece rigurgita, identificando l’amor patrio col più aggressivo nazionalismo: il modo migliore per favorire davvero questo slittamento. Vogliono combattere il sovranismo ma questo è il modo migliore per aiutarlo a dilagare. Dopo una faticosa riconquista di un rapporto migliore con i temi nazionali nei decenni scorsi, grazie allo sforzo di Craxi e Spadolini, di Ciampi e anche di Napolitano, la sinistra residuale di oggi ha avuto una regressione feroce quanto insensata contro l’italianità, un conato di vomito antipatriottico per sancire che loro sono dalla parte dei migranti. Stranieri first. Ecco il 4 novembre celebrato dalla parte degli austriaci, dei disfattisti e dei disertori.

Se ragionassi in termini politici, o peggio elettorali, dovrei gioire perché assisti allo spettacolo di un suicidio dei radical, affogati nel ridicolo in una lotta contro gli italiani. Ma non sono mai contento quando un avversario si autodemolisce e si autoridicolizza in quel modo; non mi piace, per la democrazia, per la circolazione delle idee, per carità di patria vederli schiumare di odio e di rabbia, peggio degli haters che deprecano (“Buonisti un cazzo”, tuonava elegantemente la copertina de l’Espresso). E per il rispetto, non corrisposto, che continuo a nutrire per le persone nonostante i loro pregiudizi e le loro occlusioni mentali. Ricredetevi, riavetevi, ripensateci. Non riducete il prefisso dem ad abbreviativo di dementi. Non seppellitevi nel vostro ridicolo rancore, elevando l’imbecillità a crimine contro l’umanità.

Marcello Veneziani, Il Tempo.

Il ’68 cinquant’anni dopo, quell’anno, divenuto canone di vita e conformismo di massa, che ancora pesa

Il ’68 ha fatto i figli e perfino i nipoti. È andato al potere ed è diventato conformismo di massa, anzi, sostiene Marcello Veneziani, nel libro Rovesciare il ’68, canone di vita. Ha creato luoghi comuni e nuovi pregiudizi, codici ideologici, da rispettare implacabilmente per essere ammessi al proprio tempo, come il politically correct. Ma nel 2018, cinquant’anni dopo, i sessantottini cominciano a farsi settantottenni, ed è forse giunto il momento di fare i conti con la loro opera e la loro eredità. Questo viaggio nella “piccola preistoria” degli attuali pregiudizi è compiuto con spirito omeopatico da Veneziani: un veloce insieme di schizzi e frammenti, di flash e immagini, foto di gruppo e istantanee di pensiero. Uno zapping lampeggiante animato da un triplice progetto: descrivere in breve cosa fu il ’68, narrare cosa resta e quali sono le sue rovine oggi ingombranti e, infine, capovolgere il ’68 attraverso l’uso creativo e trasgressivo della tradizione.

“Jan Palach fu l’unico sessantottino che scontò la protesta sulla propria pelle. Gli altri incendiarono il mondo pensando a se stessi, lui incendiò se stesso pensando al mondo. Entrambi amarono la libertà in modo diverso. Lui affrontò i carri, gli altri la carriera”.
“Il ’68 fu un movimento di liberazione ma non di libertà. La liberazione implica il desiderio di emanciparsi anche dalla propria identità, dall’appartenenza a una famiglia, a un luogo, a una lingua, a una religione, a una civiltà, a ogni tradizione. La libertà piena, invece, implica la responsabilità e il dovere, persegue un fine, esige il rispetto degli altri, si coniuga con la tradizione, riconosce il merito personale e la realtà. L’opposto del ’68. È libertà per l’essere e non per disfarsi dell’essere”.
“Ci vorrebbe un Sexaginta octo per rilanciare il latino cancellato dal 68 e dintorni. Riaffiora il latino in Chiesa e la mente va a Cristina Campo e Jorge Luis Borges che difesero invano l’ordo missae; e poi torna nella mente la prima infanzia. Era l’ultima messa in latino nella cattedrale del mio paese, con un’offerta di venti lire per sedere nel coro, a fianco di mio padre. Ho ancora negli occhi, nel naso e nelle orecchie, la bellezza di questo rito, il profumo dell’incenso, il mistero di quelle parole. Ti sentivi connesso alla rete del Signore. Il prete si rivolgeva a Dio e non gli dava le spalle per compiacere i fedeli come se la messa fosse un’assemblea condominiale o un comizio per cercare consensi; le parole sussurrate e antiche, il mistero di quelle formule, i canti gregoriani, promanavano il sacro e avvicinavano al Signore. La messa non è una soap opera, non è necessario capire le parole; è un rito di comunione con Dio e non un foglio d’istruzioni per montare una lavatrice. Chi dice che il mistero di quelle parole serviva per sottomettere il volgo al dominio del clero non si rende conto di quanti linguaggi iniziatici e d esoterici è infarcito il gergo corrente, dalla tecnologia alla finanza, dai misteri criptati di un computer ai labirinti fiscali. La casta sacerdotale ha lasciato l’egemonia alla casta dei tecnici, burocrati e commercialisti. Ciascuna setta ha il suo latinorum”.

In sintesi l ’68 allargò il fossato tra le generazioni. Mentre i giovani abbattevano limiti e frontiere, innalzavano un muro tra il vecchio e il nuovo e tra i vecchi, detti allora matusa, e i giovani. Irruppe la politica in ogni ambito, anche nell’intimità e nel privato. S’inneggiò alla mutazione antropologica: cambiarono le facce, i vestiti, crebbero i capelli, le barbe, i toni di voce.
Ma tutto questo è solo superficie. Si ruppe il nesso tra diritti e doveri, tra piacere e fatica, tra desideri e sacrifici. Sorse la passione trasgressiva per l’illimitato, per l’inaccessibile. Un romanticismo puerile elettrizzò i giovani, la percezione di trovarsi all’alba di un nuovo mondo, dopo il boom economico e demografico, verso una svolta radicale.
L’immaginazione andò al potere. Fu quello il ’68 prevalente. Poi ci furono esiti minori, come l’estremismo politico che poi dette vita alla violenza e si spinse fino al terrorismo. O come l’opposto, l’ecopacifismo, che si alimentava però della stessa intolleranza e dello stesso spirito utopistico. O come l’abuso di droga. Crebbe pure il femminismo.
Il ’68 fu furiosamente antiborghese e anticapitalista ma di fatto servì alla borghesia per liberarsi delle ultime eredità cristiano-perbeniste, il senso dell’ordine e del decoro, il pudore e la buone maniere. E servì al capitalismo per liberarsi delle ultime resistenze al dominio assoluto del denaro, del profitto e del consumo. Il ’68 fu una spallata al mondo di ieri, verso la modernizzazione. Che la società non andasse al passo delle trasformazioni, era vero. La scuola e l’università, la famiglia e la società erano piene di contraddizioni, ipocrisie e anacronismi; ma quelle che uscirono poi dall’onda del ’68 furono peggio. Caos e demeritocrazia.
Il 68 parricida diventò infanticida, e dopo aver sognato la società senza padri, fondò la società senza figli. Il ’68 nacque collettivista, corale, orgiastico ma finì individualista, egocentrico, narcisista. Perché fu l’espansione illimitata del soggetto.
Le trasgressioni si fecero conformismo di massa, il lessico rivoluzionario si fece catechismo bigotto e dopo aver combattuto le ipocrisie del linguaggio borghese, si instaurarono le ipocrisie del linguaggio “corretto”. Anche il 68, come il Barocco, ebbe il suo rococò.
L’effervescenza di quegli anni non produsse opere creative degne di restare, ma un permanente atteggiamento da bambino perenne, capriccioso, imbronciato e incompreso, che attribuisce alla società le colpe personali e i limiti naturali.

La società fu meno repressa ma più sboccata, più aperta alle donne ma più sfasciata in famiglia, mise al centro i giovani ma a lungo andare non si rigenerò, non adottò ricambi, si fece la più vecchia del pianeta. Alla ragione preferì l’impulso, all’ordine il caos, alla storia l’evento immediato, alla cultura l’emozione, all’etica l’estetica.
Si selezionò di meno, i capaci e i meritevoli furono messi fuori gioco, crebbe al suo posto una società edonista, irresponsabile e giuliva, anche se intimamente depressa e disperata, piena di comfort e sconfortata. Declinarono le figure di riferimento, i docenti, i genitori, i sacerdoti, i militari, le forze dell’ordine, che caddero anzi nel discredito.

Questo lasciò il ’68 in Occidente, soprattutto in Italia. Qualche passo avanti, molti passi indietro, e in basso. La liberazione promessa creò più alienazione e più frustrazioni. La società si fece più infelice, perse l’ingenuità degli anni sessanta, senza guadagnare la maturità di una vita adulta e consapevole.

 

Fonte:

Rovesciare il ’68

Marco Pannella santificato

Marco Pannella si è spento lo scorso 19 maggio, all’età di 86 anni a Roma accompagnato dalla solita retorica che accompagna un defunto, come se la morte nobilitasse anche battaglie più discutibili ed esecrabili, spacciandole per civili, di quando era in vita. Senza dubbio Pannella è stato un grande protagonista della politica italiana, tuttavia secondo il filosofo Costanzo Preve, Pannella, insieme alla Bonino, non hanno rappresentato una forza politica, ma un elemento culturale di profonda corruzione civile e umana, avanguardia di un individualismo estremo e anomico. In effetti non risulta alcuna convinzione o idea in materia economia e in politica estera da parte di Marco Pannella; certo, il divorzio, la difesa del caso Tortora, la battaglia per avere carceri più umane sono condivisibili, ma ci si dovrebbe preoccupare anche delle vittime dei carnefici.

Pannella è stato paladino dei cosidetti diritti civili che hanno scardinato dalle radici la societa’ italiana, dimenticandosi dei diritti sociali, perché è più facile affossare, distruggere proporre una cultura della morte, piuttosto che nuove idee, elevarsi a Esseri Umani propugnatori di nuove opportunità, di vie d’uscita dalle situazioni più drammatiche della vita. Riportiamo un articolo dell’intellettuale Marcello Veneziani il quale, senza retorica, ci ricorda chi è stato davvero Marco Pannella, ormai in odore di beatificazione e che negli ultimi tempi pare fosse vicino a Papa Francesco, ma probabilmente solo perché attratto dal simile che scorgeva in Bergoglio, nel suo pauperismo e populismo.

 

“Questa volta ha fatto sul serio, anche se con l’aiuto di Qualcuno. Per più di mezzo secolo Marco Pannella ha giocato con la morte. Col digiuno a oltranza, con l’aborto, con la droga libera, con l’eutanasia. Ora che è morto sento di dover esprimere tre cose: il rispetto per una persona che muore, l’omaggio a un grande leader passato alla storia d’Italia e la convinzione che abbia contribuito – con la purezza radicale degli Impuri Dichiarati – a rendere peggiore l’umanità, la società e le leggi bioetiche di questo Paese.

Marco Pannella è stato un Predicatore Istrione che nel naufragio della politica italiana ha grandeggiato come un Mago Merlino. La sua aggressiva dolcezza, i suoi sorrisi feroci, la sua infrenabile oratoria, vittimista e protestataria… Da tempo i grandi temi etici, civili e incivili, che animano la politica italiana ed europea sono i temi che Pannella da decenni ha imposto all’attenzione della gente: l’aborto, la droga, l’eutanasia, il libero sesso, le unioni civili, l’omosessualità, i transgender, le separazioni, le manipolazioni genetiche, la pena di morte, il garantismo, l’animalismo, l’obiezione di coscienza, l’ingerenza della Chiesa, e via dicendo. Tanti anni fa il filosofo Augusto del Noce prevedeva il suicidio del comunismo e al suo posto la nascita di un partito radicale di massa. È esattamente quel che è avvenuto, con una sinistra che modula la sua battaglia etica sui temi civili indicati dai radicali di Pannella, magari riveduti e corrotti dal cinismo politico e dal politically correct. Se il partito radicale di massa è nato a sinistra – anche se trova simpatizzanti pure sul versante opposto – non è giusto tributare omaggio al suo precursore, il radicale Pannella? Portate in trionfo la sua salma, dal Colosseo ai Fori Imperiali. Non è stato lui a cogliere i frutti del sessantotto e a mutare la rivoluzione sociale ed economica, la lotta di classe, nella rivoluzione sessuale e dei costumi? Non è stato lui il capofila dell’Italia radical e individualista, libertina e permissiva?

Marco Pannella: l’antagonista numero 1 dell’Italia

Marco Pannella è stato l’antagonista principale dell’Italia e della sua tradizione; il vangelo radicale è molto più nichilista, irreligioso e laicista di quello comunista. Pannella fu la sintesi tra Savonarola e Pietro l’Aretino, profeta piangente di una società gaudente. Quasi tutte le sue campagne corteggiavano la morte. Pannella è stato lo shaker di Eros e Thanatos, liberalizzazione del sesso e della morte, ma con grande afflato ideale. Spacciatore di individualismo tra i collettivisti, marcotrafficante di un liberismo applicato alla vita, alla morte e al sesso, primo denigratore del Parlamento dove mandò gente come Cicciolina e latitanti come Toni Negri, Pannella attraversò e sfasciò i poli di destra e di sinistra. Gettò per decenni il suo cadavere virtuale sulla bilancia della politica italiana, si lamentò in continuazione e fece la vittima, salvo poi mettersi all’asta tra i poli. Riuscì a far avere alla radio radicale tanti soldi pubblici sia come servizio pubblico che come giornale di partito (ovvero, la Rai e l’Unità messe insieme..).

Tuttavia non si può negare che fosse l’ultimo dei grandi leader carismatici e l’ultimo dei grandi oratori e predicatori laici, se non blasfemi. Ha avuto interlocutori come Pasolini e Sciascia, solo per dirne un paio. Con la Bonino fu la coppia reale di quest’Italia che non fa figli, promuove gli aborti e le separazioni, liberalizza la droga, il sesso e l’eutanasia. E’ stato anche un vero garantista e ha combattuto anche giuste battaglie contro la giustizia faziosa, la discriminazione politica e la partitocrazia. Ricordo pure una sua splendida orazione a un congresso del vecchio Msi dove usò l’argomento più formidabile contro il partito d’Almirante: non lo accusò, come tutti, d’essere fascista ma di non essere all’altezza del fascismo, che a suo dire fu grande, seppur di una grandezza tragica, ed ebbe giganti come Rocco, Gentile, artisti, scrittori, ministri ed eroi. Il testacoda di Marco Pannella costrinse Almirante a dire che il fascismo è ancora qui, in questo partito; una dichiarazione di continuità vivente mentre cercava in quegli anni di storicizzare il fascismo. Nei dibattiti televisivi Pannella sapeva usare armi demagogiche, aggressioni verbali e anche astuzie da venditore di tappeti. Una volta con la Bonino saltarono un dibattito in Rai perché i due non volevano che tra gli interlocutori ci fossi anch’io che li avevo criticati apertamente, pubblicando le foto di aborti da loro praticati. Perché è permesso far vedere in tv i condannati alla pena di morte e non gli aborti?

Marco Giacinto passerà alla storia, ma una storia brutta, che non ci piace. Ha rappresentato al meglio il peggio degli italiani, ha dato dignità ideale alla divinità cinica ed egoista di Kazzimiei. La beffa finale è l’ossequio unanime a lui tributato da partiti e istituzioni, la simpatia del Papa e dei vecchi marpioni democristiani. Ma soprattutto la beffa di passare da profeta della trasgressione a Santo Patrono del peggior conformismo dei nostri tempi, quello bioetico e antifamilista, a colpi di omolatria e pedofobia. Chi oserebbe oggi contraddire i dogmi di Papa Pannella? Fece il miracolo di tramutare i peccati in virtù. Santo subito. Portatelo in processione sotto una campana di vetro, come le madonne e i padri pii. San Marco Giacinto, patrono di un’Italia radicale e sradicata, conformista nella trasgressione, bigotta nel turpiloquio”.

Di Marcello Veneziani http://www.marcelloveneziani.com/pannella-santificato.html

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