‘Caro dottore che mi curi i nervi…’ Alcune poesie di Maria Turtura

Maria Turtura (1930-1972) fu un medico bolognese, sorella della sindacalista Donatella, prima donna nel 1980 a far parte della segreteria generale della Cgil. La poetessa si suicidò dopo essere stata lasciata dal marito. Pubblicò “Qualcosa deve venire” (Rebellato, 1966) e “I cancelli della mattina” (Argalia, 1970). Unico critico letterario ad averla considerata è stato il grande Franco Fortini in “Poeti del Novecento”, che ha definito la sua poesia “significativa” e di lei ha scritto che era una voce “severa e profonda”.

 

 

Caro dottore che mi curi i nervi

voglio dirti in questi giorni com’è andata

affinché tu ti possa regolare

per quello che mi serve in questi giorni:

ho dei sintomi al cuore

nella parte che nessuno vede:

sapessi che disastro, dottore!

Il mattino lavoro

il pomeriggio lavoro

e di sera ho la netta sensazione

di essere un guscio vuoto in un cartoccio.

Ho altri mali che non dico

perché la lista è molto piena

e non posso far tardi soprattutto

ho quel mal di cuore

nella parte che nessuno vede:

ti consiglio di ascoltarmi, dottore.

 

 

Questi occhi che hai

non dimenticati

con dentro un’ombra

di mare del Nord tempestoso

che cosa guardano stasera

nel tuo freddo paese, amico,

mentre io mi ricordo

di una luce sul lago e di una

esile speranza, così esile

come solo può essere

un amore al principio.

 

 

 

Alberi di neve che non vedi

respiro corto della terra e voci

da luoghi ignorati

mentre suonano passi sul tuo capo

e la notte si prepara anche per gli altri.

Io non trovo più Dio, bambino cieco,

nel celeste sospeso dei tuoi occhi

nelle cose che indovini con parole ardite:

“Questo luogo è chiuso da mura”.

Io so che fuori non sono centauri

né terre di lunga corsa.

Altre mura

chiudono altri luoghi.

Ogni recluso ha un orologio

che batte sbagliato i quarti.

Questo è tutto, e qualcosa

deve venire

a distruggere i muri

e all’ora giusta confondere i luoghi,

a cancellare gli ordini di Dio

perché valga la pena di vedere.

 

 

 

(Di lei che ama un mio amico sposato

e ha una malattia difficile da guarire,

di lei in ogni caso

padrona di sé stessa):

cara amica, io ti ho visto

su un ponte di primavera

tu eri là guardando in avanti

con uno sguardo che pareva azzurro,

dicendo parole di quieta meraviglia

e muovendo le tue esili mani.

 

 

 

 

 

La sua bontà capovolta

il rifiuto delle cose assolute

per un mondo di treni

e di letti da rifare,

il suo vestito, ai piedi

di uno da non confondere con altri.

Sempre lei, che di mattina

si prepara con cura

a un altro giorno di silenzio.

 

 

 

 

 

Si oscura l’aria sul tuo prato, Anna,

e con lenti giri

cala il falco.

Una notte di pioggia è in cammino

per accordare il tuo respiro al calmo

frusciare dell’acqua.

 

 

Stasera un cielo di inchiostro veleggiava sulle case

e la città muta guardava dalle finestre di maggio.

Un caldo vento mi spingeva innanzi

traendo il suono sospeso di un telaio.

Io venni alla tua casa

per un discorso che mi urgeva

nato da quelle immagini.

Tu sorridevi alla porta.

 

 

 

Alle undici Gesù è risorto.

Sulla Certosa il sole era alto.

Poiché non ho pregato: – Prendi per mano mio padre

e portalo con te a fare un giro nel cielo –

il babbo è rimasto dietro la sua pietra

e Gesù se n’è andato per conto suo.

Prima che scomparisse gli ho gridato:

– Fai morire quelli che uccidono i Viet! –

 

 

 

 

La luce è calata di una luce

e ora pare sera

ma l’uomo dai capelli bianchi

alto sullo sfondo dei vetri

deve avere in sua mano

il segreto finire del giorno.

 

 

 

L’ora di notte mi porta

alla piazza delle Sette Chiese

dai silenziosi cipressi.

Un inverno di piccoli passi

si irraggia verso il punto che tardi

chiamai la casa, luogo che nulla

dice agli altri, breve

inverno stellare, dove l’anima

tende a riavvolgersi.

 

 

 

 

Per aver visto il suo nome

su tre cose che gli altri

dicono belle, io vorrei

bere pazzamente e battermi

con la mia sfortuna fino a perdere,

fino a far sangue,

tanto mi sottrasse la donna

che si mise nella sua ombra

ed era in niente

migliore di me.

 

 

 

 

Si sono accese insieme nell’acqua

due luci; il giardino ha rumori;

con veste bianca e chino il capo

due donne dall’infermeria

mentre geme un autunno

di muri e di alberi

inseguiti dal vento.

 

 

Se avessi avuto un cappotto

con un colletto di pelliccia

forse non mi avresti lasciato.

Se un fischio arguto

avesse accompagnato i miei discorsi

ti saresti così confuso

da ritenermi importante.

Invece non sapevo fischiare

e avendo mal di gola

parlavo piano, per via di quel colletto

di pelliccia che non possedevo.

 

 

 

 

Quando il bambino

avrà finito di battere sul suo tamburo

comincerà la danza

delle zanzare,

suonerà qualcuno alla porta

o mi sentirò così triste

di qualcosa che ora non conosco.

 

 

 

 

Nel silenzio della campagna

a un tratto

chiamava una voce.

Veniva da una siepe oscura

presso gli alberi di confine,

mi gridava di ritornare.

Io cammino così

sotto le nuvole bianche

per raggiungere un sogno

di mezzogiorno.

 

 

 

Non disturbate questa

bellezza degli amanti giovani

che guardano solo dentro i loro occhi

e vivono come i rami degli alberi

strettamente confusi

alteri e senza presagi

della terra che tiene le loro radici.

 

 

 

 

Come le lettere bianche

sulla tenda azzurra del macellaio

come quest’aria di paese

così confidenziale e nuova

i miei pensieri.

 

 

Noi ci amammo poveramente.

Solo una luce di fanali

una tiepida pioggia

nella città di notte, e poco altro

ci diedero per amarci. Ma noi fummo

per il distacco e il ricordo

per la gioia di ritrovarci

sempre grati a noi stessi

di non esserci persi

nelle strade e nei porti

che mai vedemmo.

 

 

Davide Morelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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