Agostino John Sinadino, poeta geniale e sconosciuto

Gian Pietro Lucini, nel suo Ragion poetica e programma del verso libero. Grammatica, ricordi e confidenze per servire alla storia delle lettere contemporanee del 1908, dedica qualche pagina  ad un poeta suo contemporaneo, tanto sconosciuto al tempo quanto oggi. Il suo nome è Agostino John Sinadino, per quanto i suoi scritti compaiano firmati anche come Agostino Giovanni Sinadinò e Agostino John Sinadinò.

Lucini, nelle sue pagine, ne stende una biografia alquanto romanzata e ne elogia  il lavoro in versi, indicandolo come uno degli esempi più felici di libertà e rinnovamento dei canoni stilistici. Queste pagine luciniane sono state per lungo tempo una delle poche tracce del passaggio di Sinadino su questa terra. Si tratta, infatti, di un personaggio sfuggente, la cui opera risulta introvabile sin dalle prime copie, di cui mancano, salvo un caso, ristampe dalle prime edizioni.

Tutto ciò ha contribuito ad adombrare enormemente la fama del poeta, tanto che ancora oggi è sconosciuto non tanto alla massa dei lettori di cultura media, ma anche a una vasta fetta di “addetti ai lavori”. Certo, il mondo della letteratura straripa di poeti dimenticati dalla storia, vuoi per inconsistenza dei versi, vuoi perché troppo legati alle contingenze in cui scrivevano.

Non tutti i tentativi di recupero aggiungono qualcosa al panorama globale della storia della letteratura, rischiando di diventare semplici esercizi di erudizione. Quello di Sinadino, però, è un caso assai particolare, controverso, che merita almeno un poco della nostra attenzione.

Nato al Cairo il 15 febbraio del 1876, Agostino è figlio di un importante banchiere greco, Ioannis Constantin Sinadino, e di una musicista italiana, Carolina Casati. Ioannis era una personalità molto importante nel mondo della finanza, tanto da intrattenere rapporti lavorativi e di amicizia con la famiglia reale d’Egitto.

Per questo, Agostino riceve la sua formazione culturale ad Alessandria d’Egitto, esattamente come altri grandi della letteratura novecentesca nostrana (Marinetti, Ungaretti e Pea). Sin da subito, però, è abituato a viaggiare: Agostino vive la sua giovinezza spostandosi continuamente dall’Egitto all’Italia, con sparute tappe in Grecia, seguendo gli interessi del padre e le esigenze familiari. Questo continuo viaggiare, la formazione ricevuta in una città come Alessandria e la famiglia particolare fanno sì che Agostino riceva una formazione estremamente cosmopolita, testimoniata anche dalle lingue da lui conosciute: oltre all’italiano e il greco, Sinadino parla fluentemente pure il francese e l’inglese, le lingue più diffuse in quel momento in Europa – la prima nel mondo culturale, la seconda nel mondo commerciale, per quanto fosse già da tempo di moda tra gli intellettuali.

Alla morte del padre, avvenuta nel 1890, Agostino si aggiunge, in suo onore, il secondo nome “John”, usando l’inglese, probabilmente, in onore della già citata moda anglofona del tempo. A seguito del tragico evento, la famiglia si stabilisce definitivamente a Milano, luogo di origine della madre, ma Agostino non vuole proprio saperne di mettere radici: nel 1895 torna ad Alessandria, dove si lega ad associazioni culturali del luogo; negli anni successivi, sarà un continuo spostarsi tra Alessandria d’Egitto, Milano e Lugano.

È questo anche un periodo di particolare fervore creativo: nel 1898 pubblica la sua prima silloge ad Alessandria, ovvero Le presenze invisibili, due anni più tardi, La donna dagli specchi a Milano e pure Melodie a Lugano. Sempre a Lugano, nel 1901, Sinadino pubblica il poema intitolato Solennità: La festa. Su quest’ultima opera, è necessario soffermarsi, anche per fornire una panoramica generale dello stile e della poetica di Sinadino.

La festa è considerata dai pochi studiosi di Sinadino l’opera più importante, nonché quella su cui si è creata la “leggenda” di Sinadino. Stampata in cento copie numerate, in carta di lusso (esattamente come tutte le opere di Sinadino), distribuita a pochi “meritevoli” – tra i quali probabilmente Lucini – La festa divenne introvabile già pochi mesi dopo la sua stampa.

Per lunghissimo tempo, l’unica prova dell’esistenza di questo poema ha risieduto nelle note del già citato saggio di Lucini; nei rari ambienti di studio dedicati a Sinadino, La festa, che avrebbe dovuto costituire un esempio importante di sperimentalismo stilistico e linguistico pre-futurista, divenne quasi un oggetto mitologico; qualcuno cominciò pure a sospettare che si trattasse di un’invenzione dello stesso Lucini. Questo, almeno, fin quando nel 2001 – ovvero un secolo esatto dalla sua data di pubblicazione – non è stata recuperata una delle cento copie della Festa.

Sotto l’influenza dell’ultimo Mallarmé, Sinadino crea un poema altamente sperimentale, dove le norme tipografiche – ovvero l’uso di caratteri uniformi, dell’uso uniforme dell’inchiostro nero -, le divisioni tra generi letterari – ovvero tra prosa e poesia – decadono completamente, lasciando piena libertà creativa all’esteta massimo, il poeta. Non è un caso che tutto il prodotto sia riconducibile a Sinadino: non solo il contenuto, ma tutto il volume. È sempre Sinadino, infatti, a scegliere il tipo e il formato della carta, le miscele e il colore degli inchiostri, il tipo di rilegatura, come se tutti questi dettagli fossero parte integrante della sua opera. D’altronde, il poema inizia proprio coi seguenti versi:

«Ogni aspetto della vita – geometricamente – concorre ad una sola Forma, solenne essenziale immutabile:

il libro

Lì dòrmono, inclusi, genitàbili, i germi;

Pane pàlpita, il

Fuoco

la Teogonìa;

le diamantine leggi e la mutévole materia del Mondo: assunte.»

Il libro, dunque, diventa parte integrante di un enorme processo creativo che cerca di inglobare tutta la vita. Di più, il libro diventa strumento per ordinare e cristallizzare «ogni aspetto della vita» in una forma specifica, vitale, fiammeggiante e totale a tal punto da “assumere” in sé tanto le «diamantine leggi» quanto la «mutévole materia».

Con questo, dunque, si spiega l’uso abituale di Sinadino, non solo con questo poema, di pubblicare i suoi lavori in poche copie numerate, in edizioni estremamente curate e lussuose da lui curate sin nei minimi dettagli, fuori dai circuiti delle case editrici del tempo.

 

Nicolò Bindi

Il teatro in Italia nel primo ‘900: da Marinetti a Chiariello

In Italia le forme ottocentesche del Teatro verista, il Teatro dialettale e il dramma borghese agli inizi del novecento, vengono messe in discussione e soppiantate da altri generi teatrali. I primi ad operare in questo contesto sono gli avanguardisti del movimento futurista di Filippo Tommaso Marinetti.
Tre sono i manifesti dedicati al teatro.

Tre sono i manifesti che i futuristi hanno dedicato al teatro. Il primo approccio alle questioni teatrali è costituito dal Manifesto dei drammaturghi futuristi del 1911, nel quale l’intero sistema del “mercato culturale” dell’epoca viene criticato per aver trasformato il prodotto artistico in merce. Un’arte che per essere venduta, si basa su luoghi comuni, lusingando e accrescendo la pigrizia del pubblico.
Il manifesto, al contrario, teorizza un teatro che induce a riflettere e ad avere un atteggiamento critico nei confronti di ciò che viene rappresentato. I procedimenti stilistici impiegati sono la deformazione, lo straniamento e la gestualità esagerata con lo scopo di stimolare reazioni ed impedire l’adesione passiva degli spettatori. I futuristi, in particolare, propugnano il disprezzo del pubblico: i fruitori non devono essere accontentati ma scossi con proposte estreme. Il manifesto arriva ad ostentare la voluttà di essere fischiati, perché nulla più dell’insuccesso garantisce la riuscita della provocazione.

Famose in questo senso sono le “serate futuriste” in cui i membri del movimento espongono testi poetici, declamano manifesti, presentano brani musicali e quadri futuristi. Le serate, per il loro intento provocatorio spesso si concludevano con diverbi, scontri fisici e risse tra i partecipanti e gli avanguardisti.

L’innovazione più grande consiste nel proporre una scrittura drammaturgica originale che riflettesse la vita moderna, «esasperata dalle velocità terrestri, marine ed aeree e dominata dal vapore e dall’elettricità» lontana dunque dall’esaltazione di eroi, dagli stereotipi come le storie d’amore travagliate, l’adulterio e racconti pietosi e commoventi tipici delle forme teatrali passate.

Con il manifesto Il Teatro di varietà del 1913 Marinetti individua nel Teatro di varietà la forma di spettacolo più vicina alle tendenze futuriste, ritenendolo «il più igienico fra tutti gli spettacoli, pel suo dinamismo di forma e di colore (movimento simultaneo di giocolieri, ballerine, ginnasti, cavallerizzi multicolori, cicloni spiralici di danzatori trottolanti sulle punte dei piedi). Col suo ritmo di danza celere e trascinante, trae per forza le anime più lente dal loro torpore e impone loro di correre e di saltare».

Due anni dopo nel 1915 esce l’altro manifesto Teatro futurista sintetico in cui si propone una forma di teatro «sintetico», «atecnico» (al contrario della scrittura drammatica del teatro borghese, naturalista e tecnica), «dinamico» e «simultaneo» («cioè nato dall’improvvisazione, dalla fulminea intuizione, dall’attualità suggestionante e rivelatrice»), «autonomo», cioè svincolato dalla tradizione, «alogico» e «irreale». Nascondo così le sintesi futuriste: azioni teatrali sintetiche cioè brevi <<stringere in pochi minuti, in poche parole e in pochi gesti innumerevoli situazioni, sensibilità, idee, sensazioni, fatti e simboli>>.

Il Teatro grottesco

L’altra tipologia di teatro nata in opposizione al dramma borghese e alle forme teatrali tradizionali è il Teatro del grottesco. Di poco successivo al teatro futurista, si sviluppa nel periodo della prima guerra mondiale fino agli anni venti. Il termine grottesco appare per la prima volta nel 1916 come sottotitolo del dramma la Maschera e il volto di Luigi Chiariello. Il dramma avvia una tendenza tutta nuova e da l’impulso per quello che sarà poi definito teatro del grottesco. Il tema centrale di questo genere è il costante conflitto tra l’apparire ed l’essere: tra quello che siamo o crediamo di essere e come invece appariamo agli altri e le innumerevoli maschere che l’uomo deve indossare per essere accettato dalla società.

Molti esponenti della letteratura novecentesca aderiscono al teatro grottesco. Il più noto è senza dubbio Luigi Pirandello con i testi Così è (se vi pare) (1917), Il piacere dell’onestà (1917), La patente (1918), Il giuoco delle parti (1918). Altro nome di rilievo è Pier Maria Rosso San Secondo. Siciliano e amico di Pirandello che porta in scena innumerevoli opere grottesche Marionette che passione, Tre vestiti che ballano, La bella addormentata.

L’esperienza del grottesco coinvolge anche Massimo Bontempelli con il capolavoro Minnie la Candida. Questi drammi sono accomunati dalle stesse tematiche: vengono rappresentate, discusse, parodiate la bassezza e l’inautentica dei rapporti sociali.

Tutte queste nuove forme teatrali non solo hanno disgregato le strutture teatrali tradizionali, ma hanno gettato le premesse su cui si fonderanno gli sperimentalismi della seconda metà del novecento, grazie ai quali il teatro conoscerà un periodo davvero fortunato.

Fonti: Luperini: La scrittura e l’interpretazione
Baldi-Giusso: La letteratura

 

‘Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943’, il primo libro d’artista delle storia, in mostra fino ad oggi a Milano

Fino ad oggi,  25 giugno, a Milano, sarà possibile visitare una mostra davvero particolare: ci riferiamo a Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943, collocata negli spazi espositivi della Fondazione Prada (Largo Isarco, 2). Zang Tumb Tuuum è stato il primo “libro d’artista” della storia, espressione di quelle parole in libertà che divennero manifesto del movimento futurista. La ricerca di Germano Celant, curatore dell’esposizione, parte dal poema visivo di Marinetti, personaggio chiave tanto per la letteratura quanto per la storia dell’arte, per esplorare il sistema della cultura italiana tra le due guerre mondiali.

Sono diverse le peculiarità che rendono questo progetto degno di menzione. Prima di tutto, l’intento di Celant è stato quello di mettere in discussione il setting espositivo comune – il cosiddetto white box, costituito dalla parete monocroma e asettica – per collocare invece le opere in uno spazio storico comunicativo. Dallo studio di documenti e fotografie storiche (immagini di cronaca, fotografie, pubblicazioni, lettere, riviste, articoli), reso possibile da una proficua collaborazione con archivi, fondazioni, musei, biblioteche e raccolte private, sono state selezionate le testimonianze più significative della produzione artistica e culturale del periodo, per poi contestualizzarle nei luoghi in cui sono state realizzate, esposte e fruite. Attraverso il rendering fotografico si è voluto tentare di ricreare in mostra, con la presenza delle opere originali, le situazioni storiche: il percorso di visita propone quindi venti ricostruzioni di sale istituzionali, studi e gallerie, costituite dall’ingrandimento in scala reale delle immagini d’epoca. Qui vengono (ri)collocate le opere d’arte, come testimonianza e, al contempo, come risorsa di studio.
Lo spazio attorno ai quadri e alle sculture è valorizzato dalla presenza di tracce informative: fotografie, disegni, modelli, cartoni preparatori. L’obiettivo, come scrive Celant, è quello di attivare la visione, l’interpretazione e la conoscenza degli aspetti sociali e pratici delle vicende dell’arte italiana nel periodo preso in considerazione.

Il focus sta nella critica alla decontestualizzazione espositiva, che comporta un dialogo unidirezionale tra le opere in stile “l’art pour l’art”, cui si oppone invece la ricollocazione dell’artefatto nel suo sistema d’uso. L’approccio è assai distante dalle pratiche curatoriali correnti, in certi casi comunque molto evocative: la mostra romana Time Is Out of Joint (diretta da Cristiana Collu, situata alla Galleria Nazionale) per esempio, intende sondare un concetto di tempo non lineare, accostando con estrema libertà ed elasticità artisti come Balla, Klimt, Fontana e Giacometti, per approdare a un approccio sincronico all’opera d’arte. La mostra di Celant è invece più simile a una sequenza cinematografica, in cui ogni oggetto della scenografia riflette fedelmente un’epoca e si fa vettore di una visione del mondo: una vera e propria esperienza immersiva per lo spettatore, che assiste alla fedele ricostruzione della storia delle arti durante la parabola del Ventennio fascista.

La temperie culturale dell’epoca è caratterizzata da un rapporto d’interdipendenza tra ricerca artistica, dinamiche sociali e attività politica. Il regime mussoliniano manifesta il proprio potere attraverso le parate, i gesti, le uniformi, le musiche; enfatizza i propri valori ricorrendo ai nuovi media, dalla radio al cinema; fa un uso propagandistico delle grandi esposizioni. Cura la scenografia urbana, impregnando l’architettura di spirito arcaico; attraverso l’affresco e la decorazione murale istruisce il pubblico rispetto all’utilità sociale del nuovo pensiero. Punta quindi sulla spettacolarizzazione dell’arte e sull’estetizzazione della politica, raccogliendo consensi. All’interno della mostra ritroviamo più di cinquecento lavori: dai dipinti di Depero, Balla, Morandi, Sironi, Carrà, Casorati e de Chirico ai marmi di Wildt e le sculture di Martini, ma non solo. Oltre allo Stato Maggiore delle arti visive del tempo viene dato spazio ai piani architettonici e urbanistici – e quindi ad artisti come Portaluppi e Terragni – ma anche alla grafica pubblicitaria e alla progettazione d’interni. L’esposizione ripercorre la dialettica tra singoli autori e gruppi come futurismo e astrattismo, anche attraverso la riproposizione di materiale tratto da riviste come “Valori Plastici” e “Corrente”: ne emerge un panorama di eclettismo e pluralismo in cui convivono avanguardia e “ritorno all’ordine”, sperimentazione e propaganda.

Il futurismo risulta uno dei movimenti artistici più legati all’ideologia dominante. Gli artisti inscritti in questa corrente intravedono nel fascismo i medesimi valori anticlericali e nazionalistici (espressi nel Manifesto del Partito Politico Futurista Italiano), e anzi per molti storici è proprio il fronte rivoluzionario artistico a ispirare quello politico. Benedetto Croce sostiene che:
Veramente per chi abbia senso delle connessioni storiche, l’origine ideale del fascismo si ritrova nel futurismo: in quella risolutezza a

scendere in piazza, a imporre il proprio sentire, a turare la bocca ai dissidenti, a non temere tumulti e parapiglia, in quella sete del nuovo, in quell’ardore a rompere ogni tradizione, in quella esaltazione della giovinezza, che fu propria del futurismo.

Anche Prezzolini sottolinea questa origine ideale in un articolo intitolato Fascismo e futurismo (1923):

Evidentemente nel Fascismo c’è stato del Futurismo e lo dico senza alcuna intenzione. Il futurismo ha rispecchiato fedelmente certi bisogni contemporanei e certo ambiente milanese. Il culto della velocità, l’amore per le soluzioni violente, il disprezzo per le masse e nello stesso tempo l’appello fascinatore alle medesime, la tendenza al dominio ipnotico delle folle, l’esaltazione di un sentimento nazionale esclusivista, l’antipatia per la burocrazia, sono tutte tendenze sentimentali passate senza tara nel fascismo dal futurismo.

Il rapporto tra futurismo e potere conoscerà comunque, durante il Ventennio, fasi altalenanti, e rimane ancora oggi un tema piuttosto discusso.

Filippo Tommaso Marinetti (il cui rapporto con Mussolini è di certo forte, nonostante le occasionali tensioni) potrebbe rappresentare l’emblema di questa fase culturale, ed è infatti proprio alla sua figura che è dedicata la prima sala dell’esposizione. Come fondatore del futurismo, Marinetti si dedicò alla promozione del movimento e dei suoi artisti in Italia e all’estero; per questo si è scelto di riportare due suoi significativi ritratti firmati da Fortunato Depero e Rougena Zátková negli anni Venti come prime testimonianze pittoriche, nella cornice di una fotografia, datata 1931, che immortala l’artista nel suo studio. La discrepanza temporale rappresenta un’eccezione, una licenza alle parole in libertà: da qui in poi le opere esposte sono scandite dalla data delle fotografie-guida che le mostrano nei contesti d’epoca. Il percorso continua quindi con la ricostruzione dei grandi appuntamenti espositivi del tempo, dalla prima Biennale “futurista” veneziana del ’26 alla Mostra del Decennale della Rivoluzione Fascista, organizzata nel ’32 al Palazzo delle Esposizioni a Roma. A quell’evento è dedicata la monumentale installazione del Deposito, dove su otto altissimi schermi scorrono gli ingrandimenti delle foto delle sale, ognuna assegnata a un artista o a un architetto. Non mancano poi esempi di importanti rassegne internazionali – come Das Junge Italien, tenutasi a Berlino nel 1921, o Fantastic Art Dada and Surrealism, realizzata per il MoMA nel 1936 – e riproduzioni delle più influenti gallerie private, come la Casa d’Arte Bragaglia e la Galleria del Cavallino. L’epilogo, datato 1943, lo troviamo nella sala del Podium, con i bozzetti per l’ultimo, grande “ruggito” urbanistico del regime: l’E42, pensato per celebrare il ventennale della Rivoluzione fascista con l’Eur (Esposizione Universale di Roma). Di fronte, come contraltare, le voci degli artisti dissidenti – rappresentate dalla serie satirica Dux di Mino Maccari, fascista pentito – e le macabre immagini della guerra.

Non mancano, tra le sale, focus tematici dedicati a personalità-chiave per la cultura del ’900: si tratta sia di personaggi che aderiscono al partito, come Luigi Pirandello e Margherita Sarfatti, sia di intellettuali d’opposizione, come Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Carlo Levi e Alberto Moravia. Anche in campo artistico non mancano le figure di “artisti ribelli” al culto del duce e alla retorica monumentale: pensiamo al gruppo europeista dei Sei di Torino o alla Scuola romana di stampo espressionista. Si può affermare che, a livello teorico, il regime non sposò né rigettò ufficialmente l’opera di alcun artista, movimento o tendenza, mantenendo un atteggiamento di relativa tolleranza nei confronti di tutte le proposte estetiche. Operò a livello politico, soprattutto dopo gli anni Trenta, censurando i pensatori che si opponevano in modo esplicito all’azione mussoliniana.

Tra il 1918 e il 1943, anche in seno a un regime autoritario, fiorisce in Italia una stagione artistica e architettonica di prim’ordine, che è giusto tornare a studiare ed esporre. Ma come si può esporre del materiale inevitabilmente connotato in senso ideologico? La riflessione è quanto mai attuale, considerando le ultime polemiche riguardanti la conservazione dei monumenti fascisti ancora presenti nella penisola. Celant suggerisce e sperimenta con successo la via della contestualizzazione, per cui la comprensione dell’opera d’arte avviene nella piena consapevolezza della sua genesi, fatto che – paradossalmente – depura la visione da anacronistici giudizi morali.

 

Maria Ceraso

Il potere curativo della risata che lasci l’amaro in bocca secondo Aldo Palazzeschi

In tempi in cui si ride sempre meno e sempre più per buffonate senza senso, è proprio il caso di riscoprire il potere curativo di una risata che lasci l’amaro in bocca: la lezione di Aldo Palazzeschi. Più di duemila anni fa Orazio asseriva che a raggiungere il punctum è il poeta in grado di unire l’utile al dilettevole parimenti ammonendo e divertendo il lettore. E se è innegabile che un messaggio, debitamente distorto dalla lente dell’ironia, possa acquistar forza, è altrettanto vero che rinunciare a quell’aria pedante e seriosa cui siamo comunemente assuefatti (quasi fosse una patente d’autorevolezza) comporta spesso il rischio di non esser presi sul serio. Aldo Palazzeschi quel punto oraziano l’ha raggiunto, ne ha fatto una professione di vita ed un testamento spirituale.

È rimasto sempre fedele a sé stesso e al personaggio che ha saputo cucirsi addosso, quello del saltimbanco scanzonato e irriverente capace di attraversare gran parte del Novecento facendosi beffe delle rigide classificazioni accademiche, sdegnando persino l’etichetta di avanguardia (i cui labili confini gli sono sempre stati stretti). Il rapporto con Marinetti, che aveva subito accordato protezione allo sconosciuto autore di raccolte poetiche stampate da Cesare Blanc, pigro felino domestico con la passione dei versi, fu certamente fruttuoso se gli diede la possibilità, con L’Incendiario, Il codice di Perelà ed Il Controdolore, di mettere in mostra tutte le sue peculiarità rispetto al coevo ambiente culturale.
Ma gli anni della militanza futurista furono per Palazzeschi soprattutto banco di prova su cui affinare la tecnica, sperimentare ad oltranza e trasgredire i moduli espressivi convenzionali. Da allora non avrebbe più smesso di scrivere, diviso tra prosa e versi, stigmatizzando vizi e virtù di un secolo, denunciando l’insensatezza della guerra, sottolineando il comico che a ben guardare si nasconde anche nel tragico, ma sempre col sorriso sulle labbra.

D’altronde, recita un passo de Il Controdolore,

Se credete che sia profondo ciò che comunemente s’intende per serio siete dei superficiali.

Ebbene sì, perché ridere per Palazzeschi vuol dire soprattutto riflettere, o meglio ancora approfondire gli strani casi della vita e della condizione umana. La risata come un’arma bifronte: da una parte liberatoria fonte di benessere, anche se a scatenarla è il nonsenso, la battuta di spirito o il semplice lazzo, dall’altra specchio del paradosso, della sproporzione tra aspettativa e realtà, del tragicomico che non di rado s’accompagna all’esistenza. Un esempio? Il codice di Perelà. Protagonista è un uomo leggero, talmente leggero da risultare inconsistente, in pratica di fumo. Dopo aver vissuto per ben trentatré anni nella cappa d’un camino, discende dal suo antro fuligginoso e si avventura per le strade del regno di sua maestà Torlindao. Alterne vicende lo condurranno dapprima ad ottenere il gravoso incarico di redigere un nuovo codice di leggi per lo Stato, infine al processo e persino alla condanna perché la sua leggerezza, in un mondo così pesante, è un pericolo che non può essere tollerato. La storia di per sé dà molto da pensare e c’è chi l’ha comparata a quella di Cristo, forte di analogie che Palazzeschi volutamente ostenta, ma mai chiarisce.
Tralasciandone il senso complessivo, avvolto da una nube di fumo che ancora persiste dividendo la critica, sono i tanti incontri di Perelà con gli uomini a denunciare, tra riso e amarezza, i paradossi e le illusioni di cui si nutrono. Ecco, dunque, sfilargli davanti in lenta processione caricature e bozzetti d’umanità: dal poeta che si compiace della sua arte, ottenere il vuoto, al critico condannato a dargli la precedenza nonostante conosca già tutto quello che l’altro scriverà, dal filosofo che è tale per aver detto della propria specie tutto il male possibile, al medico la cui scienza sta nel dire e nel non dire, dalle frivole dame dell’alta società con le loro manie, al pazzo volontario che solo in manicomio è libero di essere ciò che vuole.

Personaggi comici, a prima vista, la cui statura cambia al mutare della prospettiva, perché nell’opera di Palazzeschi serio e faceto si compenetrano, si scambiano le parti, s’invertono i ruoli come in un gioco. Il tutto inserito in una ricerca espressiva che, almeno nella prima parte, si segnala per l’originalità con cui distrugge il paradigma passatista, sostituisce alla narrazione convenzionale il frammento, adotta la forma dialogo nel vivace scambio di battute tra personaggi che solcano la pagina come la scena d’un palcoscenico. Il mondo del fantastico e del surreale diventa teatro di vicende paradossali, ma paradossalmente polisemiche proiezioni dell’uomo contemporaneo.
Oggi, ad esclusione della qualità di un certo tipo di satira cui s’assiste sempre più di rado, si ride soprattutto per difetto e per approssimazione, sul frivolo e sul vuoto di contenuti. Palazzeschi offre una lezione di vita quanto mai attuale a metà strada tra la burla ed il monito: lasciatelo divertire, il poeta, unitevi a lui, ma abbiate il coraggio di approfondire! Potreste sentir nascere sulla lingua un retrogusto amarognolo: non disdegnatelo.

 

L’intellettuale dissidente

Riflessioni sull’utilità dell’invenzione storica: contemplare il passato per riflettere sul futuro tra ucronia e utopia

Cosa sarebbe successo se i Patti Lateranensi non fossero stati sottoscritti? E se la morte prematura di Benito Mussolini avesse portato alla guida del governo un Dino Grandi? E se invece fosse toccato a Galeazzo Ciano, ambizioso genero del Duce? E se quest’ultimo avesse dato avvio a una politica filo-americana, magari sposando una Rockefeller, pilotando il Paese verso un’economica liberal-capitalista? E se Filippo Tommaso Marinetti avesse scritto un fantasioso romanzo storico, consegnato direttamente al Duce, influenzando la sua politica?
Nell’epoca in cui la nostra attenzione è incatenata all’attimo presente, osserviamo incoscienti le inebrianti fluttuazioni cui sono soggette le storie e gli eventi, a volte in modo del tutto fittizio ed irreale, nel tentativo – quasi sempre riuscito – di confondere lo spettatore ed impedirgli di maturare una propria, salda convinzione. E se iniziassimo ad inventare le narrazioni che più desideriamo, a scapito dei fatti genuini, stanchi del circo mediatico – facendoci beffe di giornali, TV e del sistema scolastico? Contemplare il passato porta inevitabilmente a riflettere sul futuro – un tempo che contiene le nostre speranze e le paure di ciò che potrebbe accadere; infatti, mentre non abbiamo alcun controllo sugli eventi trascorsi, il futuro sembra terreno fertile per congetture di ogni tipo. Le speculazioni sull’avvenire ci consentono di correggere le storture e di esaminare i disastri che non riusciamo a superare nel presente: la finzione funge da rifugio finale e ideale. Il filosofo Charles Renouvier scelse la parola ucronia come titolo del suo romanzo del 1876, dalla radice greca, avente come significato senza tempo; stava seguendo il modello stabilito qualche secolo prima da sir Thomas More, la cui Utopia, termine di uguale derivazione, significa non-luogo. Se l’utopia, dunque, è un luogo che non esiste in questo mondo, l’ucronia è un tempo – inteso come concatenazione di eventi – mai accaduto; se l’utopia è posta nell’oltre-mondo, l’ucronia sviluppa una trama alternativa, considerando cosa sarebbe successo al mutare di determinati eventi-chiave. Tale speculazione, tuttavia, non deve ridursi a pura frivolezza, poiché il contrasto con ciò che realmente è accaduto può approfondire la nostra comprensione del momento attuale. Non si tratta di esercizi per intellettuali perditempo, è da rilevarne il notevole contenuto filosofico e pedagogico: nell’utopia, da Platone al Rinascimento, si disegna una città ideale come modello per la condotta virtuosa del cittadino nella sua vita concreta; nell’ucronia, si ricorda che la storia è il teatro del sempre possibile, a scapito di ogni “storicismo” paralizzante.

La storia alternativa è un campo estremamente vasto. Alcuni tra giornalisti, studiosi e romanzieri, hanno provato a raccontare, in un volume intitolato Fantafascismi, curato da Gianfranco de Turris, appena pubblicato per Bietti, le differenti svolte che la storia d’Italia, fra il 1921 e il 1945, avrebbe potuto intraprendere se alcuni episodi (non) si fossero verificati ovvero se gli accadimenti avessero seguito un indirizzo diverso. Giacinto Reale, ad esempio, prova a rimescolare le carte in quel fatidico 28 ottobre 1922: mentre le colonne fasciste muovono alla volta della Capitale, per dare inizio alla storica “marcia”, Benito Mussolini attende a distanza, negli uffici del Popolo d’Italia a Milano, assieme al fratello Arnaldo, pronto a partire non appena la situazione volgerà in favore del movimento.
Ad un certo punto, si vede costretto a scendere in strada per sedare un dissidio tra i suoi uomini e le guardie reali; ed è qui che la cronaca imbocca un’altra via: egli rimane coinvolto in una sparatoria, ferito gravemente; si decide, in segreto, dopo aver riportato il corpo all’interno dell’edificio, di trasportarlo in Svizzera, per operare la rimozione del proiettile; ma proprio mentre costeggia il lago di Como, nei pressi di Dongo, l’ambulanza si ribalta e Mussolini viene scaraventato fuori, morendo sul colpo. Allora, diffusasi la notizia, il re decide di firmare lo stato d’assedio e incaricare l’anziano Giovanni Giolitti per la formazione di un nuovo governo cui faranno parte anche esponenti fascisti, mentre – per ironia della sorte – la celebrazione del funerale di colui che sarebbe dovuto diventare il Duce del Fascismo avrà luogo in Milano a Piazzale Loreto.

Suggestivo e visionario il racconto di Dalmazio Frau, con protagonista Armando Brasini, immaginato come architetto ufficiale del regime in luogo di Marcello Piacentini; la nuova Roma da lui disegnata, invece del freddo e monumentale stile del Piacentini, appare così fascinosa da far esclamare ad un giornalista venuto dall’America:

Intuisco in un solo istante che ogni edificio, ogni piazza, ogni chiesa, ogni monumento, obelisco voluto da Armando Brasini altro non è se non uno dei magici punti sulla terra che servono a convogliare le influenze sottili che permeano il cosmo. Un’immensa, grandiosa magia che fa di Roma il Centro dell’Universo.

E ancora: quale svolta avrebbe avuto la politica italiana se il 9 giugno 1936, al posto di Galeazzo Ciano, ambizioso genero del Duce, fosse divenuto ministro degli affari esteri il conte Giovanni Capasso Torre di Caprara?

Realizzato da Vito Tripi come favolosa raccolta di appunti tratti dal diario dello stesso ministro, di note provenienti dal Ministero della Cultura Popolare e di articoli pubblicati su giornali italiani ed esteri, il racconto delinea l’azione della nuova politica italiana la quale, dopo aver sostenuto lo sforzo dei franchisti nella guerra civile spagnola, riesce a portare un governo amico in Francia, poiché il presidente della Repubblica Albert Lebrun, nel timore che si potesse verificare una crisi come quella spagnola, scioglie le camere senza indire nuove elezioni, nominando un Comitato di Salute Pubblica con a capo l’eroe di Verdun, il maresciallo Philippe Petain. Assieme a queste due nazioni, e con il Portogallo, il Principato di Monaco, la Repubblica di San Marino, la Romania e la Bulgaria, la Grecia e l’Ungheria, il Duce si porrà a capo di una “Lega Latina” (poi “Lega Europea”) – alleanza sia difensiva che offensiva – la quale, con l’appoggio del Regno Unito di Gran Bretagna, affronterà la Germania nazionalsocialista, l’Unione Sovietica e la Jugoslavia, uscendo vincitrice dalla seconda guerra mondiale, con il regime fascista in trionfo per i decenni a venire.

Scrivere storie alternative è come camminare sopra un filo sottile, mentre si è bendati, attraversando un uragano. Si tende a credere, a questo punto, che gran parte della storia sia contingente, che gli eventi e le narrazioni siano inclini a divergere, ma che – in ogni caso – un destino non manifesto farà da raccordo alla molteplicità delle ipotesi; perché ciò che rende buona la fantasia storica è quel senso di autenticità, la percezione che gli avvenimenti, dopotutto, siano radicati nella realtà e dunque, se le cose fossero andate diversamente in un punto critico, ciò che ne sarebbe conseguito avrebbe assunto il carattere di inevitabilità. Certo, la storia ha i suoi aspetti deterministici; ma le possibilità insite in molti frangenti screditano l’enfasi sul meccanicismo e sottolineano l’elemento del caso e la rivendicazione della libertà individuale, compromessa dai sistemi sia idealistici che positivistici.

 

Gabriele Sabetta- L’intellettuale dissidente

Paolo Buzzi: l’ultimo futurista

Il nome di Paolo Buzzi (Milano, 15 febbraio 1874 – Milano, 18 febbraio 1956), figura tra i primi “manifesti” di Marinetti e potremmo tranquillamente inserirlo nella tradizione del filone lombardo che ha iniziato con la Scapigliatura e termina con il Futurismo, assumendo una fisionomia nuova: ottimista e fiduciosa nel progresso.

Nato in una famiglia borghese ma con origini legate alle antiche corporazioni familiari, Buzzi si inserisce in una temperie culturale  che vede da una parte, gli scapigliati contro quell’etica tipicamente borghese, dall’altra l’ azione del primo socialismo e l’energetismo marinettiamo che vuole dare una voce politica alla civiltà moderna delle macchine.

Paolo Buzzi è un uomo serio, ottimista e con tendenze celebratorie che si ritrovano in tutta la sua opera, dalle “Rapsodie leopardiane” di stampo classicista alle liriche di “Aeroplani” di tendenza futurista, opere caratterizzate da immagini barocche , simboliste, decadenti e dannunziane. I versi di Buzzi sono evocativi, descrittivi o narrativi, liberi o chiusi; i suoi discorsi, come ricorda Giovanni Titta Rosa in Vita letteraria del Novecento, <<più che su argomenti d’arte o di poesia, volgevano di preferenza sulle questioni pratiche, sociali, assistenziali, umanitarie o benefiche della sua carica; una preferenza che pareva ostentata, ma era invece naturale, perchè attingeva aquella serietà di fondo, comune alle sue funzioni di amministratore e alla sua “professione” di poeta>>.

Il poeta lombardo si è imposto nel panorama letterario italiano con lo scandalo provocato negli ambienti ufficiali dalla sua Ode ad Asinari di Bernezzo, il generale colpito da severi provvedimenti per aver tenuto un discorso interventista ai suoi soldati. L’ode portò all’ arresto di Marinetti e dei suoi seguaci.  Tra le liriche più orignali ed interessanti di Buzzi figurano: Versi liberi (1913), che al programma dell’anarchico ed egotista Lucini del verso libero andava sostituendo la marinettiana parola in libertà, e L’elisse e la spirale (1915).

Nella prosa il romanzo L’esilio (1905) narra la storia della crisi spirituale della borghesia milanese, crisi che si sviluppa in direzione futurista con La danza della iena (1920) e La luminaria azzurra (1917) in bilico tra i mitologia futurista della città e della velocità e ansia di un racconto che vuole essere contemporaneamente epico, eroico e storico.

Con Bel canto (1916), Paolo Buzzi intende celebrare le virtù tradizionali accostandosi ad un tipo di poesia civile e oratoria, proseguita nei Carmi degli augusti e dei consolari (1920), dove il poeta esalta le grandi figure del Risorgimento, una su tutte quella di Garibaldi.

Buzzi non si fa mancare nulla collabora anche alla fondazione di Roma futurista, alla formazione dei Fasci politici futuristi e  fonda nel 1920 il giornale Testa di ferro, il quale, naturalmente, si propone di integrare  temi futuristi con quelli eroici e lirici fondendole col mito dell’eroismo guerriero. La sua attività letteraria è prolifica e  prosegue con molte opere in versi e in prosa, tra le quali i Canti per le chiese vuote (1930), Echi del labirinto  (1931), Canto quotidiano (1933) .

Il poeta svolge anche un’intensa attività teatrale: dalle Sei sintesi sceniche  (1917), a Stornellata del 1932, versi liberi, da Il volto della vergine (1936), a La principessa lontana (1938) e a La caccia al lupo dello stesso anno, musicati da Camussi.

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