Marino Moretti, la poesia domestica e la letteratura del quotidiano

Marino Moretti, il poeta che affermava ‘’di non aver nulla da dire’’, ma che scrisse più di 70 libri.  Il poeta umile della letteratura domestica, colui che trasferiva la sua estrema modestia anche nella poesia. Celebre la raccolta Poesie scritte col lapis, ovvero, frammenti e versi potenzialmente cancellabili proprio perché non perfetti. Moretti nasce il 18 Luglio 1885 a Cesenatico.

Nel 1902 si trasferisce a Firenze per motivi di studio ma, ben presto, abbandona la vita studentesca per frequentare la scuola di recitazione dove ha modo di conoscere un altro grande nome della letteratura, Aldo Palazzeschi, di cui diviene amico fraterno. Intanto, entra in contatto con altri esponenti del movimento crepuscolare: Govoni, Corazzini, Gozzano. Dichiaratosi, apertamente, contro il fascismo il poeta firma anche il Manifesto antifascista di Benedetto Croce, pur conducendo una vita schiva e solitaria, e non partecipando attivamente alla politica.

La poetica del quotidiano e gli influssi di Giovanni Pascoli

La poesia di Moretti si ispira alle atmosfere proprie del Pascoli; un’evidenza che si concretizza, in particolar modo, nella raccolta Fraternità del 1905 in cui gli affetti domestici sono protagonisti.  Dedicata al fratello scomparso, il centro di questa raccolta è proprio il legame con la madre;  ma soprattutto si evidenzia il tema del nido in quanto casa, immagine ricorrente nella produzione pasco liana, contrapposto al mondo circostante. Seguono i poemetti della raccolta Serenata delle Zanzare, in cui ironicamente il poeta delinea la mentalità piccolo-borghese, con toni sarcastici. Moretti è il precursore della corrente letteraria del crepuscolarismo; quel tipo di letteratura che celebra le nostalgie quotidiane, le periferie, i giardini desolati, la malinconia provinciale; così come l’incedere del tempo nei cicli stagionali, o le figure vicine all’infanzia: le maestre, la scuola, il tempo andato.

Uno dei suoi componimenti legati al mondo scolastico è Le prime tristezze; l’indimenticabile poesia in cui Moretti sottolinea il rapporto fra infanzia e mondo quotidiano. In  Marino Moretti, si ritrovano principalmente versi in cui il rivolgersi al passato è continuo: i ricordi infantili sono spesso legati agli ambienti scolastici, proprio come racconta ne Le prime tristezze , o nei versi de La signora Lalla dedicata a una sua maestra.  La sua produzione letteraria non aspira a nessun lirismo, solo alla mera realtà delle cose che si presentano e sfuggono, insieme al tempo. Il lapis, a tal proposito, è caduco, impalpabile, effimero; così come la sua poetica che nulla ha a che fare con la magnificenza dei versi illustri come quelli di Dante Leopardi, o dello stesso Pascoli da cui Moretti trae principalmente  ispirazione da una sua famosa raccolta: I Canti di Castelvecchio.

Il rapporto fra l’infanzia e la dimensione del quotidiano riflesso nella poesia di Moretti

La poetica di Moretti non ha pretesa, non ha alcuna ambizione né vuole esser ricordata o divenire mitica; narra solo le porzioni di vita vissuta, la giovinezza sbiadita, i personaggi e i luoghi a cui nessuno presta attenzione ma che popolano il quotidiano. Questo tipo di poesia è poi la stessa poetica che si rifletterà in tutto il movimento letterario del Crepuscolarismo, per altro parola coniata dallo stesso Moretti che appare per la prima volta in Poesie scritte col lapis. In questa raccolta è proprio la noia quotidiana a far da protagonista; un tedio rassegnato, venato di insoddisfazioni e repressioni che si rispecchiano nei grigiori degli ambienti di provincia, nelle domeniche lunghe e malinconiche; un altro dei temi dominanti della poesia morettiana è proprio la domenica, emblema del giorno nostalgico, che ricorre spesso in molti componimenti. Nel componimento La domenica delle recluse, Moretti scrive:

Oggi, che noia, che malinconia, 
che desiderio di tornare indietro ! 

Ma il cuore dice con dolente metro, 

come presso all’altare: Così sia.

Il linguaggio è spesso reiterato, uniforme e monotono; l’anima del poeta pare trovare ristoro solo nella regressione al mondo infantile. I banchi di scuola, le maestre e i compagni sono elementi consolatori e tragici, al contempo; se da un lato leniscono l’inquietudine di Moretti, dall’altro gli ricordano momenti svaniti di una spensieratezza perduta.

Tuttavia, le poesie, non sono mai lamentose o insofferenti; spesso, sono pervase da momenti ironici e toni indispettiti e pungenti. Solo nel 1916, nella raccolta Il giardino dei frutti, si intravede un motivo poetico di insofferenza, come la scarsa propensione al Leopardi o l’amore tumultuoso per Carolina Invernizio.

Intanto scoppia la Prima Guerra Mondiale e, pur non essendo ritenuto idoneo al servizio militare, si arruola come infermiere. A questo periodo appartengono i romanzi; una prosa ambientata, per lo più, nel mondo piccolo borghese in cui Moretti non disdegna di sottolinearne i difetti. Dopo aver scritto numerose novelle, ritorna poi alla poesia nel 1969 con quattro raccolte: L’ultima estate (1969), tre anni e un giorno (1971), Le poverazze (1973) e Diario senza le date (1974). Lo stile qui appare più semplice, moderno e immediato intriso da vivida ironia.

Il provincialismo lessicale e delicato nel linguaggio poetico

Il tema della provincia è affrontato da Moretti a diversi livelli di approfondimento; non solo nelle tematiche, anche il lessico si riflette in un linguaggio semplice e immediato. Quello che descrive il poeta di Cesenatico è un provincialismo sonnacchioso, uggioso, fatto di ore vuote e lunghe, di gente che attende treni alla stazione o di signorine appassite che vagano fra i viali silenziosi e i giardini dipinti delle piccole città, ornati in base alle stagioni di riferimento. Emblematica è la poesia Il giardino della stazione:

E noi si va chi sa dove,
poveri illusi, si va
in cerca di felicità,
verso città sempre nuove,

verso l’ignoto e la sera!
Invece lì nel giardino
veduto dal finestrino
c’è tutta la primavera!

Due strofe presenti nella parte centrale della poesia che, tuttavia, sottolineano l’intero universo morettiano; la malinconia, la ricerca di una felicità senza vie da percorrere, mentre nel passato e nelle piccole strade che sono appartenute ai giorni dell’infanzia c’è tutta la felicità che si tenta di rincorrere, per tutta la vita, una volta trascorsa l’età dorata.

Il linguaggio utilizzato è spesso molto simile al parlato: la semplicità del lessico si evince dai termini di uso quotidiano che, il poeta, spesso usa nelle sue opere fino a giungere a una sorta di cantilena quasi infantile composta da ripetizioni. L’usus scribendi del Moretti persiste nell’utilizzo di aggettivi per descrivere la noia del quotidiano, ma anche diminuitivi o termini legati al mondo dell’infanzia,  quindi alla scuola o alla vita familiare che rimandano ancora una volta al Pascoli:

Vanno, vanno col loro
lumino mezzo verde,
come in soffio d’oro…
«Lucciola, lucciola, vien da me! ».
Oh, non aprire il pugno
per afferrarle… Guai!
Esse, bimbo, non sai?
son le fate di giugno…
«Lucciola, lucciola, vien da me! ».
Bimbo, che ne faresti
d’un lumino cosi
lieve? Immagino, si,
che me lo spegneresti…
«Lucciola, lucciola, vien da me! ».
Lucciole! Col lumino
loro, il lumino verde,
a qualcun che si perde
ti insegnano il cammino:
sono le nostre stelle,
le stelle della Terra,
o tu che ami la guerra,
fanciulletto ribelle.
«Lucciola, lucciola, vien da me!

In questa poesia dal titolo Lucciole si riscontra il tipico linguaggio di Moretti: la ripetizione, i diminuitivi, l’abbondanza del sostantivo per descrivere il momento ma, soprattutto, la beltà dell’infanzia. Seppur Moretti sia spesso legato alla antologie di un tempo e relegato al mondo infantile, la sua è una poesia introspettiva, malinconica e, soprattutto, dettaglia: il regredire al mondo dell’infanzia permette di conoscersi e di auto-riconoscersi nel tempo storico della realtà.

Anna degli Elefanti, la “cantilena” di Moretti

Marino Moretti, poeta e romanziere crespuscolare, probabilmente il più integrale manierista, che ha condotto un’esistenza solitaria tra esalatazioni e vittimismo, è stato senza dubbio uno degli scrittori più costanti e prolifici che il ‘900 abbia mai avuto. Ci troviamo di fronte ad uno scrittore che conosce il proprio mestiere con una sicurezza ormai consumata, fino alla monotonia che rappresenta però il suo limite. Lo riconosce lui stesso, e infatti nella prefazione al romanzo Anna degli Elefanti (1937) allude al costante amore per i poveri, che lo hanno portato incolume fino alla presente monotonia artistica. E quando si parla di monotonia in Moretti, bisogna far riferimento non tanto alle vite dimesse dei protagonisti delle sue opere, quanto alla costanza di una cantilena che è una sola cosa con la sua voce  di narratore.

Ed ecco comparire il c’era una volta (la cantilena) più volte iterato nei romanzi di Moretti. Tale cantilena ci fa pensare ad un Pascoli in prosa: quella timidezza, quella sciatteria, come se Moretti avesse timore di nominare le cose, di definirle, di essere esplicito. Lo scrittore romagnolo infatti si limita a fare delle allusioni in maniera infantile e leziosa. Quella sorta di tira e molla, di mostrarsi per poi nascondersi costituiscono una poetica della frase, come ha giustamente notato Debenedetti, che tuttavia ha dei pregi, sebbene rappresenti sempre una cantilena:

“La sua Annuccia le stava molto a cuore, come no? Ma era come se non osasse chiedere troppe cose belle per lei”.

In questa frase senza presa, vi si trova il la dell’intera cantilena morettiana. La stessa Anna è la personificazione di questa cantilena, la quale si mette a raccontare se stessa. Anna è una bambina non bella e, come se non  bastasse ha anche un particolare sgradevole che le ha inflitto il suo romanziere, ma il quale viene accennato una volta sola, senza più tornarvi:

Annuccia aveva l’impressione di essere un pò come un’erba che puzza. perché un giorno suo padre aveva detto abbastanza distintamente alla mamma: <<Questa bambina non ha un buon odore>>.

Delle tante cose che una bambina può fare, si ha l’impressione di conoscere solo quelle che Anna non fa, e man mano che la piccola cresce diventa una prigioniera, prima di tutto di sua madre (il padre è andato ad esplorare l’India). poi di un’istitutrice tedesca, poi del marito, il paterno marchese Momolo. Anna diventa una donna sensitiva ma incapace di stringersi in un pensiero. Tuttavia Anna riesce a trasferire sul registro umano un frammento di storia letteraria; lei rinuncia alla gioia del proprio corpo di donna, modulando la propria vicenda sulla cantilena, non sulla profondità della vita. Il matrimonio con il marchese è bianco e dopo la morte del marito, Anna è una vedova signorina, e  se qualcuno dovesse trovare inconcepibile il rifiuto in una donna, per il quale un matrimonio resta inconsumato, allora è necessario che cerchi la ragione nell’identificazione di Anna con l’intima esperienza dei crepuscolari: le inibizioni e le impossibilità di Anna fanno un solo blocco con la Poesia Crepuscolare.

La storia di Anna potrebbe essere definita una specie di piccola educazione sentimentale se non fosse per il resoconto di una dolorosa educazione sessuale e Moretti rende la tematica sessuale, il torbido, una fonte da cui possa sgorgare l’imprevisto, nascondendosi maliziosamente, fingendo cautela dove non può osare la castità, dando spazio all’insinuazione. Si viene così agli elefanti che lo scrittore ha inserito anche nel titolo: da bambina, Anna non dimostra un particolare interesse per le bambole e dopo diversi tentativi, i genitori scoprono che solo un elefante di pezza riesce a catturare l’attenzione della piccola. (Lo stesso machese Momolo poi regalerà ad Anna un vero elefante, che ucciderà, ironia della sorte, l’uomo). Non si tratta di un capriccio, di una semplice attrazione infantile, ma di qualcosa di recondito che lo stesso Moretti ci rivela:

“La particolarità della proboscide eccita la fantasia degli artisti. Sai, Anna, che questa fu la prima cosa che mi dissero di te? Le piacciono gli…”

In tempo di psiconanalisi non ci vuole molto per giungere alla conclusione che Anna è prima di tutto prigioniera delle sue inibizioni. E sono proprio le continue allusioni, le interferenze le associazioni spontanee a rendere il romanzo troppo “rilassato”.

Così, dopo la morte del marito, la donna dà la caccia all’amore, diviene preda di altri scopi, data la sua ricchezza, fin quando non si innamora e riesce a concedersi a Ramon, un avventuriero che dopo la seconda notte le porta via i gioielli. Anna vuole rintracciare Ramon a tutti i costi e ci riesce: una sera, in un cinema di Milano dove si proietta, guardacaso, un film della jungla pieno di elefanti, Anna vede l’uomo e gli si siede accanto. Ma Ramon, quando si fa luce in sala, abbassa gli occhi sul giornale. Nel Varietà si esibisce un elefante barbiere, l’uomo si alza e va sul palcoscenico per sottoporsi all’esperimento, ma viene rapito da un elefante. Anna esce dal cinema come pazza e si dirige verso la periferia: un autocarro la travolge e la uccide.

La fine violenta di Anna dimostra come la donna ad un certo punto della sua vita, abbia sovrapposto al suo naturale destino una funzione di ambasciatrice altrui. Non rimane quindi che far calare il buio, come se Moretti abbia voluto rimuovere dalla propria mente un brutto sogno una volta per tutte.

 

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