Hannah Arendt e Martin Heidegger: l’intenso legame sentimentale tra i più grandi pensatori del ‘900

Hannah, la riconciliazione è qualcosa che nasconde in sé una ricchezza che noi dobbiamo diffondere fino alla svolta in cui il mondo oltrepassa lo spirito della vendetta. Così scrive Martin Heidegger da Messkirch ad Hannah Arendt, il 6 maggio del 1950. Ci sono voluti oltre vent’anni di silenzio perché il filo spezzato di quell’antico affetto si riannodasse su iniziativa di Hannah stessa. Il carteggio epistolare fra i due amanti, conosciutisi all’università di Marburg nel 1925, quando un trentaseienne professore, sposato e con due figli, restò incantato dall’intelligenza di un’allieva diciannovenne, molto restituisce di quello che fu una relazione nata sul canovaccio di un amore irrealizzabile, tanto distanti apparivano fra loro.

Tuttavia le lettere ci mostrano come sia accaduto per i due amanti d’oltrepassare questo impossibile, vivendosi un affetto diventato storia nella Storia, la cui traccia è riuscita a sopravvivere alla Storia stessa e alle sue colpe.

E forse è proprio questo ad aver salvato un rapporto tra due intelligenze travagliate dal finire nel pattume delle miserie umane e resta intatta per il lettore la sfida di oltrepassare la freddezza del dato di fatto che fa di Heidegger soltanto un filosofo sostenitore del regime nazista e di Hannah Arendt una filosofa ebrea in fuga. Oltre il mero dato, infatti, diventa possibile scoprire che due come loro, dicevamo distanti anni luce da ogni punto di vista, siano riusciti ad accogliersi reciprocamente.

Il carteggio: un viaggio nell’affettività di Hannah Arendt e Martin Heidegger

La prima parte del carteggio, datato 1925/1932, è un viaggio nella sfera dell’affettività di un uomo e una donna che si intreccia inevitabilmente con la speculazione filosofica. Un viaggio nell’intimità con tutte le conseguenze del caso per chi legge e cioè scoprirsi a spiare in punta di piedi, come intrusi non invitati, quella condivisione di pudori che appare così lontano da un tempo che sembra aver dimenticato la bellezza di un amore vissuto come attesa dell’altro.

Quando la bufera sibila intorno alla baita, trascorro una pausa di tranquillità sognando l’immagine di una fanciulla che con l’impermeabile, il cappello calcato fin sopra i grandi occhi quieti, entrò per la prima volta nel mio studio e, timida e riservata, diede una breve risposta a tutte le domande- ed è allora che riporto l’immagine agli ultimi giorni del semestre – e solo allora capisco che la vita è storia.

Scrive Heidegger alla diciannovenne Hannah il 1 maggio 1925:

Carissima! L’amore sarebbe ancora grande fede, che sorge con esso nell’anima, se non gli rimanesse che questo da tenere in serbo, da aspettare e custodire? Questo aspettare l’amato -è la cosa più meravigliosa- perché in esso l’amato rappresenta proprio il “presente”. Con questa fede, lascia che io abiti il luogo più intimo e puro della tua anima.

E ancora in una lettera di pochi giorni dopo:
E cosa possiamo fare, se non unicamente – aprirci l’un l’altro –e lasciar essere ciò che è. (…) Sereni di essere ciò che siamo. E tuttavia ciascuno vorrebbe “dire” all’altro e aprirsi; ma potremmo dire soltanto che il mondo non è più il mio e il tuo – ma è diventato il “nostro” e che quanto facciamo e cerchiamo di raggiungere non appartiene a me o a te, ma a noi.
(…)

Ti ringrazio per le tue lettere – perché mi hai accolto nel tuo amore- mia carissima. Sai che questa è la cosa più difficile che un uomo debba sopportare? Per tutto il resto ci sono vie, aiuti, confini e comprensione- soltanto qui tutto significa: essere innamorato= essere sospinto all’esistenza più autentica.

L’intimità secondo Heidegger

Trapela con una spietata chiarezza cosa sia intimità per Heidegger: viversi per ciò che si è, senza quell’ansia di caricare la relazione di aspettative di perfezione che inquinano la promessa di un mutuo donarsi. E’ tutto già perfetto, perché quel noi ha come perimetro e sostanza una sola immagine: quella dell’amata per ciò che già è e non per ciò che ci si aspetta che sia.

Molto spesso in queste lettere Heidegger ripete una frase attribuita a Sant’Agostino: Voglio che tu sia ciò che sei. Non di più, non di meno e una profonda gratitudine le verga: qualcosa di straordinario sta accadendo e cioè la possibilità, che sembra avere del miracoloso, di stare accanto all’amata mentre si dischiude, con le incertezze della giovane età, alla vita.

Non è soltanto un sentimento, è una fede incrollabile che affonda le radici non in un ideale, ma nella solidità di ciò che lei è già e di tutto quello che è la sua storia. Soltanto questa fede, promette Heidegger, resiste alle intemperie del destino, che non mancheranno. Il perché della felicità è, dunque, questo: Che l’amore c’è, che può esserci. Cioè che ha la forza invincibile di un’esperienza, senza limitarsi ad essere mera promessa.

L’amore tra Hannah Arendt e Martin Heidegger e l’incalzare della Storia

Non è facile per Hannah amare il suo professore; avere a che fare con la sua solitudine creatrice, che impone lunghe assenze per dedicarsi anima e corpo alla speculazione. Esperienza grandiosa e infame allo stesso tempo interrompere i rapporti in questi momenti, come lui stesso ammette -scusandosi- nelle lettere. Ma Hannah Arendt ha la sua vita da vivere e l’incalzare degli eventi, nella Germania nazista, la porterà a prendere commiato dal suo professore, con il quale i rapporti erano rimasti anche dopo il primo matrimonio di lei, fallimentare, con Günther Anders, mentre lui aveva proseguito con la sua vita di marito e padre di due figli.

L’ultima lettera del primo periodo data nell’inverno del 1932/33 quando Hannah chiede ragione delle “dicerie” sull’antisemitismo di Martin:

Le dicerie che ti inquietano sono calunnie, del tutto simili ad altre esperienze che mi sono toccate negli ultimi anni. Che difficilmente io abbia potuto escludere gli ebrei dagli inviti di istituto risulta dalla circostanza che negli ultimi quattro semestri non ho avuto nessun invito in istituto. Che poi io non saluti gli ebrei è una calunnia così maligna che me la ricorderò per il futuro.

Le accuse di antisemitismo ad Heidegger

Ci si immagina tutta l’inquietudine che ha portato la Arendt a chiedere lumi; trapela il sentore di una ferita aperta dal si dice, dal raccogliere voci sparse che stridono con quello che lei sa di Martin. Il carteggio riprende soltanto nel 1950. Hannah ormai vive e lavora in America ed è lei a mettersi in contatto per prima con Heidegger, il quale comincia la lettera che segna la ripresa dei rapporti, con queste parole:

Cara Hannah, sono lieto di avere l’occasione di proseguire adesso, in un periodo più tardo della vita, il nostro iniziale incontro come qualcosa che rimane.” E quello che rimane, scriverà più tardi Hannah in una lettera del 1967, “è dove si può dire: inizio e fine sono sempre ancora la stessa cosa.

Non se lo scriveranno mai esplicitamente cosa è rimasto di quel primo incontro. Sappiamo soltanto, attraverso le considerazioni filosofiche nelle lettere, che non di relazione si è trattato, ma di una vera e propria appartenenza.

Nel silenzio di ciò che non è scritto, azzardiamo che forse la memoria di quell’antico pudore, di quella grazia nell’essersi reciprocamente donati offrendosi l’un l’altro senza riserve, deve aver lasciato traccia come un’impronta pesante scolpita nella roccia degli eventi se è riuscita a resistere a dubbi, parole non dette e macerie di un odio che ha fatto scorrere troppo sangue.

La Hannah Arendt che ricuce i rapporti è una donna radicalmente diversa. Come scrive lei stessa in una lettera, dopo aver incontrato Martin, stavolta con la moglie Elfride, di cui possiamo immaginare – e non dobbiamo fare neppure un eccessivo sforzo, perché nelle lettere è accennato – il disappunto nel sapere quanto sia stata importante per il suo Martin:

Non mi sono mai sentita una donna tedesca, e ho smesso da molto tempo di sentirmi una donna ebrea. Mi sento quello che sono in realtà, una donna che viene da lontano.

Scriverà Heidegger più in là, quasi sfogandosi:

Per quali inferni deve ancora passare l’uomo, prima di riuscire a capire che non è lui a produrre se stesso?

Sanno entrambi che è lungo ogni sentiero che passa per la prossimità, come scrive il maturo professore in una poesia posta in calce ad una lettera alla Arendt.

E in effetti, si coglie appieno questa difficoltà: farsi vicini, almeno nel loro caso, ha avuto il drammatico significato dell’esperienza di una lunga e dolorosa lontananza. Chiaramente il tenore delle lettere, dal 1950 fino al sopraggiungere della morte della Arendt nel 1975, è diverso, così come sono diversi entrambi.

Adesso sono solo due filosofi di chiara fama e due persone che a fatica si stanno riprendendo dalla Storia a scriversi e nello scambio cordiale di pensieri e incoraggiamento reciproco per il proprio lavoro, sembra sopito quel quieto e profondo amarsi giovanile, pur rimasto custodito in qualche anfratto della memoria. Nonostante le parole scritte, il non detto è il protagonista assoluto di questa relazione nella maturità e per certi versi non sembra assurdo ritenere che lo sia stato anche nel primo periodo. Il non detto è il linguaggio del pudore (e della poesia, scrive Hannah Arendt in una lettera del 1967 a Martin, riprendendo Klopstock).

Cosa succeda dentro questo silenzio simbolico, regno assoluto dell’inesprimibile dove la parola – debole e parziale- non è ammessa a cittadinanza e il rischio di non riconoscersi resta alto, è difficile, appunto, dirlo.

 

Livia di Vona

‘L’operaio, il trattato filosofico e metafisico di Jünger. L’operaio come forma sovraindividuale, lontano da qualsiasi ideologia, prima che divenisse categoria sociale

L’operaio affronta i temi centrali del dibattito che la cosiddetta “letteratura della crisi” sviluppa nel periodo tra le due guerre mondiali che concerne la critica della civiltà occidentale, nel contesto culturale di grave crisi dell’Europa. L’operaio di Ernst Jünger, edito nel 1932, costituisce uno dei documenti più rappresentativi della “letteratura della crisi”, vale a dire di quel dibattito ricco e articolato, sviluppatosi nel periodo tra le due guerre mondiali, che concerne la critica della civiltà occidentale, nel contesto culturale di grave crisi dell’Europa. L’operaio affronta i temi centrali di quel dibattito, quali la conclusione di una civiltà e la sua lettura come crisi dell’idea stessa di Zivilisation, intesa come insieme delle norme e dei comportamenti di carattere convenzionale e contrattualistico, la dissoluzione dello stato borghese e dei valori che lo rappresentano, il significato e il ruolo del nichilismo in questo processo di disfacimento, la tecnica e la sua funzione spersonalizzante nei confronti dell’individuo, con i connessi sviluppi antiumanistici e antilluministici, la concezione della storia come destino. Intento di questo lavoro è capire Jünger, e segnatamente L’operaio, da un punto di vista rigorosamente scientifico, individuandone i fondamenti filosofici, ricostruendone struttura e argomentazioni, mettendone in luce la profonda unità tematica. La chiave che consentirà di realizzare questo compito è la metafisica, un termine al quale l’autore, dopo aver condannato al non senso ogni nostalgia filosofica, toglie a priori qualsiasi possibilità d’uso tradizionale – ove, secondo la definizione classica, essa costituisce la scienza prima, ovvero la scienza che ha come proprio oggetto l’oggetto comune a tutte le altre scienze e come proprio principio un principio che condiziona la validità di tutti gli altri -, ma anche qualsiasi connotato genericamente moderno.

Cosa Jünger precisamente intenda utilizzando il termine “metafisica”, è Martin Heidegger – il filosofo tedesco che fin dagli anni Trenta più e meglio lesse e commentò L’operaio – a rivelarcelo. Proprio parlando di quest’opera di Jünger egli scrive che: «(…) essa rimane un’opera che ha la sua patria nella metafisica. In conformità a quest’ultima tutto l’ente, mutevole e mosso, mobile e mobilitato, è rappresentato a partire da un “essere che è in quiete», e questo anche là dove, come in Hegel e in Nietzsche, l’ “essere” (la realtà del reale) è pensato come puro divenire e assoluta mobilità. La forma è “potenza metafisica”. Possiamo quindi individuare in Heidegger il padre di una corrente interpretativa del pensiero jüngeriano che vede nella Gestalt un concetto che designa l’essere “teorizzato” nella sua differenza con l’ente, cioè che designa la trascendenza o la metafisica come tale. L’“essere in quiete” di cui parla il filosofo di Messkirch è, dunque, la forma  scaturente dal “solco dell’essere”, orizzonte indistinto, ineffabile e atemporale, ed essa stessa immobile, eterna, ma non chiusa in se stessa poiché si dispiega nello spazio e nel tempo attraverso il tipo (argomento principale del capitolo secondo), manifestazione vivente della forma e, come la forma, sovraindividuale.

Si delinea, così, un’impalcatura ontologica gerarchicamente articolata che vede al primo livello, per così dire, il piano indistinto dell’essere e, a quelli immediatamente successivi, la forma e il tipo. In questo quadro ontologico l’operaio è una delle forme attraverso cui, in un determinato arco temporale, l’indistinto si rivela; non indica un singolo individuo né una classe sociale come la intendiamo noi oggi: è, in qualità di forma, un’entità metafisica, e dunque sovraindividuale; né, tantomeno, è un “prodotto” della storia: è imposto dalla forma al magma energetico che costituisce quello che Jünger chiama l’elementare (capitolo terzo), e proprio questa imposizione gli conferisce una valenza destinale: è tramite l’operaio, infatti, che l’uomo partecipa al destino metastorico della sua epoca; l’epoca del dominio della tecnica (i cui contenuti saranno sviluppati nel quarto e ultimo capitolo dell’opera). Alla tecnica è riconosciuto un valore positivo, conferitole proprio dall’“anima” metafisica che la contraddistingue. E’ ancora Heidegger che coglie perfettamente questo aspetto, quando scrive: «Vero è ciò che corrisponde all’essenza della tecnica. Questo rapporto essenziale non è mai raggiunto nell’operare tecnico immediato, cioè nel carattere di volta in volta speciale del lavoro. Esso consiste nella relazione col carattere totale del lavoro. (…) Qual è la determinazione dell’essenza della tecnica che ne risulta? È il simbolo della forma del lavoratore». “Tecnico” non sarà colui che svolge una mansione particolare, attenendosi semplicemente ad un compito pratico, ma chi riconoscerà nel lavoro, di volta in volta, il suo carattere di totalità. La totalità è il “movimento” della forma predominante – quella dell’operaio e, dunque, del lavoro – e la sua tendenza a penetrare in ogni spazio vitale, pratico o teoretico.

Sfogliando L’operaio dunque si ha la sensazione che temi di varia natura siano talmente e finemente interconnessi che appaia assai arduo procedere ad una de-composizione funzionale alla comprensione dei presupposti. Ad una lettura più attenta si “vede” invece perfettamente ciò che, nell’intento dell’acuto “sismografo”, si cela sotto la multiforme matassa.
Secondo Jünger esisterebbe un “solco” ineffabile definito di sovente eterno e immobile, di cui ogni forma (Gestalt) sarebbe il modo temporale. La Forma è una irradiazione (Strahlung) dell’Indistinto eterno ed immoto, è il modo tramite cui l’essenza numinosa della forma si fa tempo; la forma è un tutto che non si riduce alla somma delle sue parti. Ciò fa pensare che l’essenza della Gestalt non nasca e non muoia con gli elementi che ne garantiscono l’epifania, anche se il rapporto tra la forma e il suo evento è pressoché necessario. L’uomo non ha la possibilità di rappresentare la forma nella sua essenza, non la può cioè porre davanti a sé come un oggetto materiale o spirituale per poi misurarla razionalmente. Essa, in sé, è come l’Uno di Plotino. Ma l’uomo può “avvicinarsi” alla forma vivendola, cioè incarnandola. Vivere la forma significa dis-porsi alla sovraindividualità che è la modalità grazie a cui la forma si appresta a dominare globalmente. L’uomo travalica la propria individualità facendo spazio al dipanarsi della forma, tras-formandosi in Tipo. La Forma si manifesta infatti nel tipo. Essa è il sigillo, dice Jünger, rispetto al tipo che è l’impronta.

Se la forma nelle sue vestigia mortali è una declinazione dell’eternità, il tipo dovrebbe quindi essere considerato come la guisa temporale della forma. Esso infatti, in un certo senso, attualizza il Destino della Forma. Tale Destino, come suggerito dal titolo de L’operaio, è il Dominio della Forma. Un Dominio che, lo si diceva, non è parziale, che cioè non si espande in un solo piano della realtà, ma a livello del pensare, del sentire e del volere oltre che nello spazio tramite la tecnica e la distruzione che essa comporta. Nello scritto del 1963 Typus, Name, Gestalt si legge che “Tipo” è più di “individuo” nella stessa misura in cui è meno di “forma”.

La tecnica è “la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo”. L’operaio è così quella Forma che mobilita il mondo tramite la tecnica. Heidegger commenta che allora la tecnica coincide con la mobilitazione -totale- del mondo attuata dalla forma dell’operaio. Alain de Benoist, rifacendosi al saggio del 1930 intitolato Die Totale Mobilmachung, fa presente come ”mobilitare”, nel gergo di Jünger, non significhi solo mettere in movimento, ma vorrebbe indicare anche “essere pronto, rendere pronto”. La mobiltazione va da un lato di pari passo con la distruzione e si realizza nello spazio con la tecnica bellica (18); da un altro lato, già nella sua opera di demolizione, prepara il terreno per la parusia di una nuova Figura e innesca il meccanismo necessario affinché il nuovo Dominio della Forma si realizzi. Come si diceva, il tipo umano è altro dall’individuo. Ora, l’uomo si fa tipo tramite la tecnica, la quale incide sull’essenza dell’uomo grazie alla messa in moto di radicali processi spersonalizzanti che aprono l’individuo alla uni-formità e dunque alla sovra-individualità. L’uomo che inizialmente crede di perseguire tramite la tecnica (strumento da lui inteso in senso neutrale) la felicità (la tecnica si propaga facilmente e velocemente e ingenera l’illusione che tramite essa si possa superare il dolore), poi diventa parte del dispositivo che accende.
La spersonalizzazione che la tecnica introdurrebbe prelude al totale oltrepassamento del modo che sino a quel momento, secondo Jünger, si aveva di interpretare la libertà intesa come “misura il cui metro campione venga fissato dall’esistenza individuale del singolo”. L’uomo è parte di un processo dove perdono di importanza le qualità e la vita del singolo, dove, come si diceva, risulta fondamentale rendere il mondo funzionante per lavorarlo in vista della produzione, cioè della mobilitazione. Il lavoro, mezzo che la forma utilizza per piegare a sé il mondo, si propaga in ogni settore della vita.

Jünger non condivide il presupposto che starebbe alla base del modello economico proposto dalla società liberal-capitalista, secondo cui la felicità e il benessere di una nazione si ottiene tramite la soddisfazione economica degli individui (atomi) che compongono la stessa società.
L’idea per la quale soddisfare i propri esclusivi interessi conduca alla felicità della nazione, è fermamente rifiutata da Jünger. Egli ritiene che l’interesse privato debba essere garantito nell’alveo degli interessi sovraindividuali dell’organismo comunitario. Fondare una ideologia che a partire dalla metafisica, tramite l’interpretazione altrettanto metafisica della tecnica, attacchi nei fondamenti l’individuo e la sua idea di libertà, significa chiaramente avere come bersaglio il liberalismo che sull’individuo e sulla tutela dei suoi diritti basa la propria dottrina. I rivoluzionari conservatori si sentivano “vitalisti” proprio nel senso che aderivano nichilisticamente alle contraddizioni della realtà, specialmente laddove queste conducevano alla demolizione dell’apparato politico ed ideologico delle classi dominanti.

 

 

Exit mobile version