‘Gli spiriti dell’isola’ di Martin McDonagh, un film unico nel cinema contemporaneo, tra nero e grottesco

Anni Venti, al largo della costa d’Irlanda. Tra abbondanti pinte di Guinness e sentori di bacon e porridge, “Gli spiriti dell’isola da teatro dell’assurdo si trasforma in tragedia. I volti degli abitanti di Inisherin assomigliano a totem ancestrali, le loro espressioni alle brume del cielo e i loro sentimenti ai fuochi di torba mentre i marosi s’infrangono sulle falesie e gli strapiombi delle montagne fanno da quinta ai paesaggi spazzati dal vento. Il film, che piaccia o respinga, non ha equivalenti nel cinema contemporaneo e anche se avete cercato invano il nome di Inisherin sulle mappe (il luogo è inventato) è escluso che lo possiate dimenticare.

Premiato a Venezia e ai Golden Globes (sempre per il miglior attore e la sceneggiatura) e candidato a nove Oscar (con ottime possibilità di vittoria), il film di Martin McDonagh racconta lo strano legame tra il giovane e ingenuo Pádraic e l’anziano Colm con la passione per la musica.

Pádraic (Farrell, vincitore della Coppa Volpi per il migliore attore all’ultima Mostra di Venezia) scopre un giorno che Colm (Gleeson), con cui da sempre condivide pub e amicizia, ha deciso che non lo sopporta più, non ha più tempo da perdere con lui e non vuole nemmeno rivolgergli più la parola. Un soggetto nero e grottesco messo in scena con stile minimalistico, illuminato dalla fotografia tersa di Ben Davis, incalzato dalla musica lancinante di Carter Burwell e calibrato sulle incarnazioni “in sottrazione” dei due protagonisti votati a un oscuro conflitto che dopo un disperato ultimatum devasterà le vite di entrambi. Solo Siobhan (Condon), la sorella di Pádraic, ha la forza di capire che si può fuggire, che esiste qualcosa al di là del mare, che il tempo non è quello scandito dai lugubri presagi della stregona. Colm e Pádraic sono tutt’altro che colti, ma ognuno difende una posizione in fin dei conti plausibile: dovremmo vivere per l’arte e la posterità come ha appena scoperto il primo o per i piccoli piaceri quotidiani e l’amore di chi ci è caro come rivendica sbalordito il secondo? Oppure tutto nasce dalla depressione di uomini esentati dal protocollo sociale cosiddetto civilizzato e costretti a interrogarsi sul senso da dare alla propria vita e su cosa fare in attesa della morte?

Questo sottofondo teorico innerva la messinscena degli Spiriti dell’isola, in cui i profili dei personaggi sono spesso ritagliati negli stipiti di porte e finestre o inquadrati nei sentieri stretti tra i muri di pietra; mentre, quando la tensione all’improvviso e solo per pochi istanti si placa, le carrellate non possono che seguire le peregrinazioni dei protagonisti spostandoli come pedine di un gioco di ruolo che ha come punti di riferimento le case, la chiesa, il pub o le spiagge. “Gli spiriti dell’isola” esprime il proprio pessimismo soprattutto per via figurativa, ma il giudizio, se qualcuno ne avvertisse la necessità, è affidato a una metafora di tagliente ironia: il futuro in quest’eremo selvaggio si chiama stagnazione perpetua. Ci si può cogliere anche un climax fordiano (“Un uomo tranquillo” ambientato nel villaggio irlandese di Innisfree) perché i dialoghi mimano la basica ruvidezza dei sentimenti e le dispute sono volentieri risolte con primitiva violenza.

Martin McDonagh, ex ragazzo prodigio del teatro britannico già autore di due grandi film come “In Bruges” e “Tre manifesti a Ebbing”, non cede alla tentazione di romanticizzare la sua ballata né di riciclare le atmosfere gotiche di “Cime tempestose”; piuttosto è importante osservare che il titolo originale de Gli spiriti dell’isola,The Banshees of Inisherin” si riferisce alle banshee, i maligni spiriti femminili dell’aldilà della mitologia celtica e che da uno spunto così estremo e paradossale scaturisce una sensata riflessione sulla fragilità della condizione umana e l’insensatezza di tutte le guerre. Senza distoglierlo dalla suspense o impartirgli prediche, il film offre, infatti, allo spettatore una sottile serie di indizi a cominciare dagli echi delle esplosioni che arrivano dalla terraferma dove all’epoca davvero infuriò la breve ma sanguinosa Guerra civile irlandese.

Le bestie –pecore, mucche, cani, cavalli- che vivono in simbiosi con la comunità appaiono non a caso ben più amichevoli e innocenti degli iconici comprimari (il poliziotto, l’oste, il prete, lo scemo del villaggio) condannati a sbattere in perpetuo contro i muri di una prigione a cielo aperto. E le banshees stanno a guardare.

 

Gli spiriti dell’isola

‘Tre manifesti a Ebbing, Missouri’, il thriller, venato di humour nero, capolavoro dell’inglese Martin McDonagh

l film ideale non esiste perché davanti a uno schermo siamo tutti diversi. Invece la sceneggiatura ideale forse sì e in tal caso assomiglierebbe certo a quella di Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Tralasciando la messe di premi importanti che ha ottenuto e continuerà a ottenere, questo torbido thriller venato di humour nero che sarebbe meglio vedere nella versione originale sottotitolata riesce, infatti, a scolpire l’indimenticabile ritratto di una donna che sopravvive, pensa e lotta in una landa selvaggia come un moderno cowboy rendendola il fulcro narrativo di un gruppo di personaggi altrettanto spiazzanti e perturbanti.

Il controllo stilistico, l’intelligenza psicologica e la libertà morale con cui il quarantasettenne commediografo, sceneggiatore e regista inglese di origini irlandesi Martin McDonagh mette in scena la sua ballata di dolori, odi e vendette nello spazio tanto realistico quanto metaforico di una sperduta cittadina dell’America profonda hanno, di fatto, pochi riscontri nel cinema (non solo) americano d’oggi tanto che i capidopera di Lynch, Tarantino e Coen potranno d’ora in poi sembrare al massimo affini piuttosto che modelli originali ricalcati. Anche perché –come succede ormai di rado sia nei prodotti d’autore, sia in quelli d’evasione- la propulsione drammaturgica è garantita dal continuo mescolarsi delle situazioni estreme con il mordente di caratteri in grado di evolversi, specchiarsi e persino ribaltarsi senza l’ossessione di doverne spremere significati, soluzioni, messaggi uniformi o peggio edificanti.

In Tre manifesti a Ebbing, esacerbata dall’atroce assassinio della figlia, umiliata e offesa dall’ex marito e convinta dell’inefficienza della polizia locale, l’indomita Mildred infagottata in una tuta blu e con in testa una bandana è disposta –proprio come i pistoleri western marchiati a vita da una colpa- ad usare le maniere forti contro chiunque si opponga al suo desiderio di giustizia. Per lei pari sono, per esempio, il tollerante sceriffo Willoughby (Harrelson) malato terminale e lo sbirro razzista plagiato dalla madre megera Dixon (Rockwell): nessuno come la McDormand avrebbe potuto incarnare con sfumature più svarianti questa nemica di tutti e innanzitutto di se stessa, capace di rendere l’atmosfera epica anche solo con una frase simile a una coltellata o un guizzo incoercibile del volto pietrificato dalla disperazione e dalla rabbia. Ogni colpo di scena, ogni gesto inconsulto, così, sembrano mirati a illudere lo spettatore prospettandogli quantomeno una catarsi; ma ogni volta il film riprende a picchiare duro all’ombra dei tre cartelloni su cui sono vergate come col sangue le richieste di Mildred, le uniche che hanno avuto il fegato di prendere di petto i segreti di una sorta di Twin Peaks traboccante di ostilità primigenie. In questo film formidabile nemmeno il finale cede d’un passo risparmiandoci la solita illusione di potere indicare la via giusta per l’umana redenzione.

TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI
Regia: Martin McDonagh
Con: Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, John Hawkes, Abbie Cornish
Genere: commedia noir. Gran Bretagna/Usa 2017

 

Tre manifesti a Ebbing, Missouri

 

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