Fenomenologia della tradizione e il mondo moderno e tecnico

Sono nato in un’epoca in cui si sentiva spesso parlare di un lemma ormai dimenticato: tradizione. Oddio, anche ai miei tempi (non troppo remoti) si assisteva alla disputa inconcludente fra tradizionalisti e progressisti, solo che a carte scoperte, gli stessi avanguardisti del moderno avevano dei punti fermi, dei loro riferimenti tradizionali. Eppure tradizione la trovo una parola bellissima, che non ha nulla da spartire col bigottismo morale, il bacchettonismo culturale, ciò che è retrivo, nemico della civiltà e del progresso. Essa si fa risalire al sostantivo latino traditio, derivato dal verbo traděre, ovvero dare, passare qualcosa a qualcuno, consegnare, affidare e anche trasmettere o tramandare.

Consegnare, affidare, trasmettere, tramandare, parole che non dovrebbero farci diffidare. Parole che abbiamo avuto in consegna, affidate, tramandate insieme al concetto profondo che in esse è racchiuso, affinché lo custodissimo. Già, custodire, altro concetto che non sappiamo più dove abiti, ingarbugliati come siamo dentro i meandri di una modernità frenetica, senza classe né talento e troppo presi ad apprendere ipnoticamente una neolingua globalista a vocazione anglofona (). Prigionieri di un totalitarismo eufemisticamente chiamato liberalismo, che attraverso le leggi di mercato e la logica consumistica… procede allo sterminio delle anime e delle culture.

La tradizione non è il passato… [essa] ha a che vedere col passato né più né meno di quanto ha a che vedere col presente e col futuro. Si situa al di là del tempo. Non si riferisce affatto a ciò che è antico… bensì a ciò che è permanente, a ciò che sta dentro.
(A. De Benoist, Le idee a posto)

Cosicché vorrei evitare equivoci maldestri e far sì che il discorso non si assimilasse, banalmente, alla più classica querelle des anciens et des modernes, il pensiero tradizionale contro quello della globalizzazione, della razionalità, dell’utilitarismo e della modernità fondata su specialismi tecnologici. Il giorno della Fine non ti servirà l’inglese cantava Battiato. Quindi sposterò l’asse su un certo tipo di cultura, che Marcello Veneziani ci notifica, ovvero quel complesso arcipelago di idee ed umori cui facciamo riferimento nel nostro procedere nei rapporti intellettuali, sociali e umani. La cultura non è pertanto uno scaffale di libri, asettico per quanto potenzialmente devastante di conoscenza, ma è attraverso quello scaffale che individuiamo il nostro tratto identitario, che segna e determina in seguito il complesso arcipelago di idee e umori cui facciamo riferimento nel quotidiano.

In senso tradizionale – ce lo suggerisce Michele Federico Sciacca – la cultura è primieramente paideia, ovvero educazione e tradizione nel senso più pieno delle sue accezioni: La tradizione è sempre contemporanea. Ascoltiamolo:
C’è da fare quello che hanno fatto i nostri padri, che non hanno accettato passivamente e stancamente ripetuto formule vecchie; hanno ripensato secondo il loro tempo.
Per cui consigliò di non affidare niente all’oblio,
opere valide, tramandate; sottratte alla dimenticanza, non al tempo, anzi solo ciò che è valido si affida al tempo; infatti sono elementi della tradizione e, in quanto tali oggetti formativi o di studio, opere vive, contemporanee e perciò produttive di altre opere, ricchezza che investita ne produce altra.
Non bisogna mettere in soffitta Platone e Aristotele, Agostino e Tommaso, Cartesio e Leibniz, Hegel e Rosmini, cioè il pensiero umano nel suo itinerario di approfondimento e sofferenza, piuttosto
raccogliamoci e pensiamo, ciascuno con la propria testa e come quei pensatori si sono sforzati di rinnovare e innovare la tradizione, rinnoviamola e innoviamola anche noi, ché la tradizione rinnovata, soltanto essa, è l’autentico progresso.

Sciacca operò sempre nel segno della prospettiva cristiana, ma in filosofia seppe cogliere l’allarme già lanciato da molti nomi della cultura europea, per questo combatté ogni forma di empirismo e di positivismo in quanto essi vedono l’ens e perdono di vista l’esse e l’ens senza l’esse è nulla, ammonisce col tono dell’invettiva. A questo punto è perfino pleonastico dirlo, ma la critica di Julius Evola alla civiltà occidentale è condotta dal mondo della tradizione, ed è emblematica l’opera del 1934 Rivolta contro il mondo moderno. Ma anche La dottrina del Risveglio, laddove bolla la civiltà moderna come quella che “del samsara ha fatto un vero e proprio culto”: una civiltà quindi, “votata al divenire” cui contrappone le civiltà tradizionali “fondate sull’essere” (Sandro Consolato, J.Evola e il Buddhismo).

Evola, ripercorrendo la cosmologia indù, fa ricorso ad un concetto metafisico, il kali-yuga, l’Età Oscura – ultima di quattro Età – corrispondente all’Età del Lupo delle tradizioni nordiche e all’esiodea Età del Ferro (Consolato) per definire il mondo moderno, il suo limite stesso. Quindi ci indica la differenza fra l’uomo della tradizione e gli altri, e ce lo dice in un passo di Rivolta: L’uomo tradizionale – spiega – non aveva la stessa esperienza del tempo subentrata nell’uomo moderno, egli aveva una sensazione sovratemporale della temporalità e in questa sensazione egli viveva ogni forma del suo mondo. Ma diversamente non aveva scritto Guénon, il quale ne La crisi del mondo moderno non esita a dire che fra lo spirito religioso, nel vero senso di questa parola e lo spirito moderno, non può che esserci antagonismo, precisando però, che vi è differenza fra il punto di vista metafisico, che è puramente intellettuale e quello religioso, che implica la presenza di un elemento sentimentale che influisce sulla stessa dottrina.

Ragion per cui l’Occidente moderno così come lo abbiamo preso in consegna, è limitato dal suo sentimentalismo e dal suo bisogno di azione che gli impediscono di raggiungere le attitudini intellettuali naturalmente familiari all’Oriente (Oriente e Occidente).

Alla fine quindi, sia Evola che Guénon guardano a Oriente, a forme metafisiche non europee, perché non riscontrano più elementi tradizionali al pensiero e alla cultura dell’Occidente, decaduto ad un convulso formulario di dottrine, dettate ora dall’individualismo esasperato, ora dallo scientismo, oggi dal rigor mortis della cultura che ha rinnegato se stessa per mano del parricida più spietato e impunito: l’uomo. Per un approccio “verticale” ai problemi attorno alle cose del mondo e al mondo stesso inteso come concetto: religione è, tradizione. Metafisica è, tradizione. Filosofia con la quale cerchiamo le domande prima ancora delle risposte è, tradizione. Per Evola e Guénon l’attività intellettuale degli individui è fondata sulla tradizione, la quale non è semplice conservazione o fede bigotta – come ci sovviene a più riprese Veneziani – bensì il nesso tra idee e realtà, tra eventi e soggetti di diversa portata. Essa [la tradizione] è la facoltà principale dell’uomo, cioè la capacità di annodare, stabilire o scoprire nessi, cogliere le relazioni spaziali e temporali e disvelare la sequenza di causa ed effetto […] il filo di Arianna che congiunge Logos a Religio.
Perché la tradizione ha la stessa radice di Logos, di Comunità, di Religione e di Destino: in tutti l’elemento cruciale è il legame (lègein) (Marcello Veneziani, Di padre in figlio). Ed è nuovamente Veneziani ad ammonirci, con le parole di Guénon stavolta, a non confondere la tradizione con la consuetudine, come purtroppo spesso accade a causa dell’ignoranza dell’uomo moderno nei riguardi di ciò che è tradizione nel vero senso della parola, perché dove la tradizione viene a mancare si tende a sostituirla, consciamente o non, con una specie di parodia (René Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale in Marcello Veneziani, Di padre in figlio).

Heidegger poi, avvicinava l’oblìo dell’essere alla spoliazione degli dèi (entgötterung con la possente lingua tedesca) sottolinea Alain De Benoist, il quale aggiunge, utilizzando Tacito come fonte, che i Germani chiamavano sacro il segreto dei loro boschi. Il bosco – che rimanda peraltro al concetto heideggeriano di lichtung, la radura, l’apertura, il lucore dell’essere – è il segreto della tradizione, l’identità perduta con la civilizzazione; con la negazione del segreto degli avi, della terra che ci ha partorito, della sacralità di quella terra, dei suoi boschi. La spoliazione degli dèi altro non è che l’oblìo dell’essere, il passaggio nefasto del pensiero occidentale dal discorso sull’essere a quello sull’ente. In breve: l’annichilimento della tradizione che traspare nei diversi livelli di interrogazione del mondo, non inteso come mero deposito di realtà utensili, ma come il luogo nel quale il tempo, a sua volta non inteso in senso matematico e lineare, si fa garante dell’esperienza dell’essere attraverso il divenire.
Heidegger è un filosofo della tradizione che intuì la differenza ontologica fra una filosofia dell’essere, legata a doppia mandata alla comprensione filosofica dei primi filosofi greci, ed una filosofia dell’ente, cui fa riferimento il pensiero occidentale dai presocratici in poi, tanto che a un certo punto del suo cammino teoretico, dopo “Essere e tempo”, inizia la sua “svolta”, la kehre, spostando il baricentro della sua ricerca dalla verità dell’esistenza, derivata dall’esserci (l’uomo), alla verità originaria dell’essere. O come direbbe ancora Michele Federico Sciacca, andando oltre gli entes particolari. Il senso profondo della tradizione – ribadisce – quello che direi metafisico-ontologico, è proprio questo: sentire, pensare, volere e agire nell’infinito dell’essere (M.F. Sciacca, Gli arieti contro la verticale).

Ma Heidegger non meno di Evola e Guénon, di Spengler e di Nietzsche è un acuto diagnosta del tramonto dell’Occidente, definito in Sentieri interrotti” come il momento in cui la notte del mondo va verso la sua mezzanotte: nessuna esperienza esoterica a differenza di Evola e Guenon, nessuna analisi socio-biologica come Spengler e nessuna affabulante “filosofia del martello” come Nietzsche. L’unica “trasgressione” estetizzante è nei confronti della poesia (“un amore comunque non corrisposto”, secondo Pietro Emanuele) con la quale cercherà il senso dell’essere, caduto nella storia. Ed è a quel punto che cercherà l’innocenza del sacro, perché, come ci indica Mircea Eliade,il sacro è saturo d’essere”. Quel sacro depauperato dal tempo storico lineare, dalla rivelazione ebraico-cristiana e dalla ragione, “il più omicida dei monoteismi”, per dirla con Gilbert Durand. Tutte queste esperienze che assistono alla caduta del sacro nella storia, alla riduzione dell’essere a ente, all’oblio della verità dell’essere, al retaggio biblico che influenza la metafisica occidentale, alla razionalizzazione della “temporalità segreta” dell’essere, rappresentano l’abbandono di un ‘pensiero meditante’, che in quanto tale, meditando su se stesso, avverte la propria prigionia in una regione che non riconosce più i cardini della tradizione, che della regione ontologica è la scaturigine e il sostrato.

La desacralizzazione e l’oblio dell’essere sono la punta massima di storicizzazione del mondo, che ha prodotto oggi la globalizzazione e il pensiero strumentale-mercantilistico, il tramonto della tradizione occidentale, complice la tecnica. Quella tecnica che è intesa da Spengler come tattica della vita, strumento di lotta e di affermazione riscontrabile anche negli animali, che è poi il “destino dell’uomo occidentale, cioè dell’uomo faustiano”. Però l’affermazione della volontà di potenza dell’uomo faustiano attraverso la tecnica, provoca una rottura fra l’uomo stesso e le leggi della natura, in modo che la “tattica”, diviene oltre che la potenza titanica dell’uomo, il suo limite più insidioso.
D’altronde Heidegger (Sentieri interrotti) commentava con una certa preveggenza:

[…] è invece l’essenza incompresa della tecnica che incominciò a minacciare i nostri padri e le loro cose.

La tecnica ad ogni modo non è invenzione recente, figlia prediletta della scienza e dei Lumi; relativamente recente è semmai la problematizzazione dei suoi esiti. Tant’è che gli antichi definivano con la parola téchne, da noi tradotta riduttivamente con “arte”, un insieme di abilità e le regole ad esse connesse, utili e indicative per l’attività umana:

Con la parola téchne i Greci indicavano ogni abilità, conseguita per mezzo di un’applicazione cosciente, che conferisse all’uomo un dominio sulle cose e sugli uomini,
spiegano G. Flores d’Arcais e L. Stefanini.

Anche se non in questi termini storicamente maturi, un filosofo di rottura per i suoi tempi, Karl Marx, attaccò la logica capitalistica e la tecnica disumanizzante, attraverso la quale l’uomo smette di essere uomo e diviene cosa fra le cose: la macchina, lo strumento, non mediano più, venendo meno al proprio compito che è quello, appunto, di mediare l’attività dell’operaio nei confronti dell’oggetto. Pertanto, a differenza dello strumento che l’operaio anima” grazie alla “propria attività e abilità, ora è la macchina che possiede abilità e forza al posto dell’operaio, riducendo l’attività di quest’ultimo ad “una semplice astrazione… regolata da tutte le parti dal movimento del macchinario. Tale situazione viene spiegata chiaramente da Adorno ed Horkheimer in “Dialettica dell’Illuminismo”, i quali presentano il loro libro come una genuina (e cruda) analisi della società tecnologica contemporanea, la quale, partendo dall’assunto di Bacone che intendeva estendere i confini dell’impero umano ad ogni possibilità, piuttosto che abolire miti ne crea altri e ben più insidiosi. In guisa che l’Illuminismo fa scadere il sapere da critica a tecnica, complici la ragione strumentale e il pensiero amministrativo.

Il problema della tecnica viene affrontato ancora da Heidegger, il quale dal punto di vista della speculazione filosofica è senz’altro più raffinato di Spengler. Egli affronta la tecnica dall’ottica del filosofo che assiste all’eclisse dell’essere e nel far ciò usa il termine “Ge-stell” per descrivere l’essenza della tecnica, laddove il prefisso Ge sta per “insieme” e il verbo stellen significa invece “porre”, quindi “totalità del porre tecnico” a detta di Giovanni Fornero. Ma la traduzione corrente è ancora duplice, ovvero “impianto” (come fa Volpi), o “im-posizione” (come fa Vattimo), nel senso che la natura viene ridotta a “fondo”, riserva di energia pronta per l’uso: Quell’appello pro-vocante che riunisce l’uomo nell’impiegare come fondo ciò che si disvela, noi lo chiameremo gestell, chiarisce in Saggi e discorsi del 1954.

L’illusione tutta faustiana che l’uomo producendo la tecnica ritrovi se stesso fa dire al filosofo tedesco che, in realtà, tuttavia, proprio se stesso l’uomo di oggi non incontra più in alcun luogo: non incontra più, cioè, la propria essenza.
In verità l’uomo ha dimenticato il problema centrale della sua esistenza, aggiunge Piero Di Giovanni (Etica, politica e metafisica, in: Heidegger e la filosofia pratica) che non è un problema semplicemente pratico o speculativo; l’uomo moderno misconosce e disconosce la comprensione dell’essere che costituisce la finitezza dell’esserci.

Massimo Fini (Il vizio oscuro dell’Occidente), spietato critico della civiltà occidentale ormai decaduta a poco più di una formuletta ad uso e consumo dei barbari accademici, ci parla per via indiretta della perdita (e della sua negazione) di ciò che è una società fondata su valori tradizionali:
L’uomo che vive nel migliore dei mondi possibili sconta poi una paurosa perdita di identità. L’omologazione è una conseguenza ovvia della globalizzazione e della mondializzazione che esigono e presuppongono una omogeneità; omogeneità di stili di vita, di consumi, di istituzioni […] legittimata da un pensiero totalitario che si ritiene portatore del Bene […] distruggendo culture, lingue, specificità, territori…

La tradizione segue un tracciato ideale che ruota intorno a capisaldi ben precisi, che qui abbiamo appena toccato. E come ci rammenta Adriano Romualdi:
Quel che separa il mondo tradizionale dal mondo moderno, è che, mentre quest’ultimo si fonda sui criteri dell’utile e del tempo, il primo si riferisce ai valori del sacro e dell’eternità.
E ancora Marcello Veneziani:
La tradizione è dunque una cultura nel senso più ampio dell’espressione. Non un’opera intellettuale, ma una visione del mondo e un’interpretazione del tempo, che permea una mentalità (o forma mentis) e anima una civiltà (Kultur).

 

Claudio Zarconeeno

 

Simone Weil, tra i più grandi filosofi del Novecento, fuori da un qualsivoglia sistema entro cui ripararsi, rigorosa cercatrice di Verità anche a scapito della Vita

Filosofa, sindacalista, insegnante, operaia, rivoluzionaria, soldato, idealista, anarchica, mistica, ebrea, cattolica, Simone Weil era tutto questo e molto altro ancora, e la sua vita, più delle sue opere, testimonia di una personalità sempre coerente, esplosiva, anticonformista. Nasce a Parigi nel febbraio del 1909 da una ricca famiglia ebrea. Un’anima sensibile quella della Weil, che a soli quattordici anni affronta una prima crisi esistenziale accompagnata da forti emicranie. Superata la crisi ai tempi del liceo, diviene allieva di La Senne e Alain – quest’ultimo rimase un esempio per l’attivismo politico – ottiene la laurea in filosofia nel 1931 all’Ecole Normale Superieure. E’ a questo punto che comincia la carriera vera e propria della Weil divenuta, subito dopo la “licence”, insegnante di filosofia nelle piccole città di provincia di quella Francia ancora scossa dalla guerra. Ad una vita di soli studi ed insegnamento, Simone Weil accosta con vocazione sempre più intensa la sua passione per il mondo sindacalista, rivoluzionario e anarchico, con una dose di ispirazione marxista.

Simone Weil: tra filosofia, mistica e politica

Ma di Marx, la giovane filosofa – radicata ad un’idea più mistica e spirituale – pur accettando la critica al capitalismo e allo sfruttamento della classe proletaria, non condivide il materialismo storico e il determinismo, la concezione di progresso, quella “necessarietà” ineludibile delle cose che fonda l’analisi marxista. Così, dopo un primo periodo di vicinanza con le lotte sindacali (la Weil arriverà a sconvolgere l’opinione pubblica di Le Puy distribuendo volantini di sciopero assieme ai movimenti operai), pur senza iscriversi a nessun partito, Simone abbandona l’insegnamento per dedicarsi pienamente all’esperienza della vita proletaria e nel 1934, per otto mesi lavora come manovale nelle officine Renault. L’alienazione del lavoratore, la monotonia, la frustrazione, lo sfruttamento del salariato inteso come “schiavitù pagata”, sono temi di cui l’esperienza diretta influenza la filosofa con grande intensità.

Lo sperimentare diventa perciò il mezzo principale per comprendere e migliorare un sistema sociale che non guarda negli occhi i più deboli. La volontà di stare dalla parte degli oppressi la porta in Spagna nel 1936, durante la guerra civile, dove si aggrega con i repubblicani che ritiene, nel mezzo del conflitto, la fazione dei “giusti”. Nel caos della guerra comprende, tuttavia, come nella violenza la giustizia tende inevitabilmente a sparire, ed è così che, ferita, torna in patria, attraversando prima l’Italia. Ad Assisi, nella cappella di Santa Maria degli Angeli, Simone Weil ha la sua prima esperienza mistica che la porta a stretto contatto con il Cristianesimo. La potenza esemplare della vita semplice ed umile di San Francesco danno un senso immediato alle sue esperienze. Le sue origini ebraiche, già da tempo rimesse in causa per l’impossibilità di concepire un Dio “degli eserciti”, “delle schiere di Israele”, un Dio che elegge un popolo a discapito di un altro, vengono così sorpassate dalla figura di Cristo, del Dio fatto uomo per l’uomo stesso, un Dio caritatevole e misericordioso che si incarna nel figlio inteso come bene puro, puro amore. La conversione della Weil però, non si ebbe che sul letto di morte, e la sua adesione al Cristianesimo fu sempre seguita da un netto distacco dalla Chiesa istituzionale, che alla religiosità mistica, spirituale e sacra, secondo lei, preferiva i dogmi. Solo sul letto di morte, prima dell’ultimo respiro, alla giovane età di 34 anni la Weil si convertì pienamente dopo essersi trasferita negli Stati Uniti per sfuggire alla minaccia nazista.

Simone Weil quindi, durante tutto l’arco di una vita senza simboli o partiti, è l’espressione dell’emancipazione della donna attraverso una riflessione femminile e in nessun caso femminista (la Weil addirittura si sentiva votata alla verginità, alla purezza: «Il concetto di purezza, con tutto ciò che la parola può implicare per un cristiano, si è impadronito di me a sedici anni, dopo che avevo attraversato, per qualche mese, le inquietudini sentimentali proprie dell’adolescenza. Tale concetto mi è apparso mentre contemplavo un paesaggio alpino e a poco a poco si è imposto a me in maniera irresistibile.). E’ la manifestazione di un pensiero libero che difende la causa dei più deboli a prescindere dal sesso. La sua opera si condensa tutta nella sua vita, in un evoluzione dialettica tra pensiero e azione, dove l’attaccamento alla mistica dell’evasione dall’immaginario collettivo del “noi”, o quello individuale dell’”Io”, può recuperare una concezione di abbandono – verso il prossimo – e disinteresse nell’impersonale, tanto da recuperare i valori del giusto, del bello, del buono e del vero.

“In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio. C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa.”

Comunista senza partito e cristiana fuori dalla Chiesa

Simone Weil è oggi celebrata con spettacoli teatrali, articoli di circostanza, elogi e commemorazioni, ma nessuno indaga a fondo il suo pensiero, il suo nome è sventolato in modo frequente ma superficiale; di lei si conosce l’etnia ebraica e si ricorda la grandiosa coerenza che la spinse a vivere di stenti tra gli operai, rinunciando alle cure che a loro erano precluse, e che alla fine la condusse alla morte; ma poco si sa e si scrive del suo pensiero, della sua opera e della sua stoica solitudine e della sua insofferenza rispetto ad ogni forma più o meno coercitiva di aggregazione, setta o partito (si definì infatti “comunista senza partito” e più tardi “cristiana fuori dalla Chiesa”).

La Weil vive una notorietà di facciata che cela un sostanziale oblio, è un’autrice che con le parole di Hegel potremmo definire “nota ma non conosciuta”, un po’ lo stesso destino che spetta a Pasolini. Se ci riflettiamo, però, è inevitabile: la nostra società oggi non può digerire nulla di Simone Weil.

Il suo pensiero attraversa il Novecento in tutte le sue declinazioni e contraddizioni, smuove le nostre coscienze intorpidite e scardina le certezze ed i pregiudizi più diffusi. Basta sfogliare alcune pagine de La Prima Radice -il suo testo fondamentale- per rimanere sbigottiti di fronte alla profondità dei pensieri, la coerenza delle posizioni, l’efficacia della scrittura, la quantità quasi inesauribile di spunti. L’opera è incentrata sul bisogno di radicamento che per la Weil è il più importante e misconosciuto dell’anima umana, e tra i più difficili da definire. Si è detto che ad esso non corrisponde un bisogno dialetticamente contrario. Il fatto è che il radicamento costituisce il terreno di coltura indispensabile per la soddisfazione degli altri bisogni, cosicché ad essi si oppone non un bisogno correlativo ma la sua negazione, la ‘malattia dello sradicamento’.
La Weil demolisce ad uno ad uno tutti i totem della modernità, che sono poi sopravvissuti e si sono imposti come orizzonte ineluttabile nella post-modernità. Nulla sfugge alla prosa impetuosa della pensatrice allieva di Alain: critica il pacifismo (“il pacifismo può essere dannoso solo perché fa confusione tra due sentimenti di ripugnanza. La ripugnanza ad uccidere e quella a morire. La prima onorevole, ma debolissima; la seconda, quasi inconfessabile, molto forte”), il laicismo militante, che incaponendosi contro la religione senza fanatismo apre le porte ad un fanatismo senza religione (“le tendenze idolatre del totalitarismo possono trovare un ostacolo soltanto in una vita spirituale autentica. Se si abituano i ragazzi a non pensare a Dio, essi diventeranno fascisti o comunisti per il bisogno di darsi a qualcosa”), la cultura accademica, autoreferenziale e avvitata su se stessa (“oggi i professori universitari insegnano a studenti per formare professori che a loro volta insegneranno a studenti per formare altri professori”).

La polemica contro lo scientismo e la considerazione di Hitler

Ma ciò che colpisce di quest’opera è l’ultima grandiosa polemica, quella contro lo scientismo, di cui fa parte la frase citata in apertura di articolo. Qui il pensiero della Weil giganteggia tra quelli del suo secolo, elimina dalla questione della scienza moderna la coltre di fumo che di solito la circonda e la fronteggia senza timori. Il discorso della filosofa è lineare ed implacabile: la scienza moderna ha corrotto l’ideale di scienza così come questa era intesa in età classica. Infatti, ai tempi dei greci la scienza perseguiva, in modo parallelo e non concorrenziale alla filosofia e all’arte, il Bene, che secondo la Weil è il principio che regola il mondo, l’Intelligenza, la Relazione, il Logos, la Giustizia, l’Amore. Tuttavia, con la “seconda parte del Rinascimento” e, più tardi, con la rivoluzione scientifica, avviene a suo giudizio un cambio di paradigma, sottaciuto ma nefasto: la scienza perde di vista il principio regolatore del cosmo, lo stupore aristotelico per l’armonia del mondo, la consapevolezza inebriante della sua sensatezza; ed incomincia ad intendere l’universo come una risultante di forze, contrapposte in modo frontale ed antagonistico. Se “gli antichi erano stati inebriati dall’idea che ogni forza della natura soggiacesse non già ad una forza più forte: ma all’amore”, la scienza moderna ribalta questo discorso: il mondo non è originato da un Senso a cui ogni cosa dolcemente obbedisce, ma è risultato casuale ed accidentale di forze che si affrontano.

La scienza, che fino in età classica perseguiva, come ogni disciplina umana, il Bene, in epoca moderna si pensa “al di fuori del bene e del male; specialmente al di fuori del bene”. Così la Chiesa e la filosofia, cioè la tradizione umanistica occidentale che pensa un mondo regolato dalla giustizia, la stessa giustizia a cui l’uomo anela, sono come marginalizzate, insolentite e via via estromesse di ogni prerogativa dalla scienza moderna, che predica un mondo regolato solo dalla forza.

Ma, osserva la Weil, allora è falso pensare che la scienza sia neutra: essa infatti suggerisce un ragionamento, malcelato ma invadente: se il cosmo è regolato da forze affrancate da ogni giustizia, perché non dovrebbe esserlo anche la società umana? Ed ecco che Simone Weil dice la verità che la modernità non sa dire né affrontare: ecco che mostra il macabro filo rosso che lega la scienza moderna e la politica della potenza, la morte della morale, perfino i totalitarismi.

Cita così la Weil dal Main Kanf di Adolf Hitler: «(l’uomo, nda) sentirà allora che in un mondo dove i pianeti ed i soli seguono traiettorie circolari, dove le lune girano attorno ai pianeti, dove la forza regna ovunque ed è la sola dominatrice della debolezza, costringendola a servire docilmente o a spezzarsi, l’uomo non può richiamarsi a leggi speciali». Ecco qui il ragionamento hitleriano: se nel cosmo, come mostra la scienza, non esiste giustizia ma solo forza, perché dovrebbe sussistere giustizia tra gli uomini? Perché l’uomo e la società dovrebbero fare eccezione nell’universo? Si vede qui espressa con grandiosa chiarezza la parentela misconosciuta tra scienza moderna e nazismo (ed oggi col turbo-capitalismo); la Weil mostra senza veli “la contraddizione”, prima di allora “avvertita solo confusamente”, tra “scienza e umanesimo”, tra trionfo incondizionato della forza ed aspirazione alla giustizia.

Oggi le cose da allora non sono migliorate, semmai sono peggiorate, hanno raggiunto livelli che la Weil non poteva neanche immaginare: la scienza ha acquisito una egemonia totale sulla conoscenza, ed oggi con l’ausilio della tecnica vuole mutare la vita ed il mondo, la società ed il senso comune; la politica si consegna alla scienza e diventa bio-politica.

Simone Weil non considerava Hitler più pazzo dei suoi contemporanei: fu solo più coerente (dice addirittura “coraggioso, di quella particolare specie di coraggio di cui Hitler era capace”), poiché fu il solo a portare il discorso della scienza alle sue estreme conseguenze, a percorrere la strada che la scienza indicava ma non seguiva. Gli scienziati, che predicavano un mondo senza giustizia, in cui trionfasse la forza, ma che poi restavano comodi nella loro società piccolo-borghese, che si accontentavano della loro piccola morale dopo aver stroncato sul nascere ogni anelito alla morale autentica, non erano migliori di Hitler, erano solo più ipocriti. Oggi quest’ipocrisia continua, e continuerà finché avremo la pretesa di fondare una società giusta accettando la menzogna di un cosmo ingiusto, di dare un senso alla vita accettando la superstizione dell’insensatezza dell’universo.

Finché non avremo il coraggio di affermare, con Simone Weil, che se l’uomo tende alla giustizia è già questa la prova indiscutibile che una Giustizia che lo precede, lo trascende e lo sovrasta esiste. Perché “se la giustizia è incancellabile nel cuore dell’uomo, vuol dire che essa ha, in questo mondo, una sua realtà. Allora la scienza ha torto”.

Un pensiero coerente e compatto che disturba diversi intellettuali e accademici

Simone Weil, come ha giustamente notato il critico Berardinelli, non ha confezionato trattati sistematici usufruendo di fondi di ricerca, e per questo dai filosofi di professione, abituati a rimasticare qualunque autore, spesso senza ragioni sufficienti, viene ritenuta a torto un pensatore non sistematico, teoreticamente inadeguato perché frammentario. Niente di meno vero. Simone Weil non ha costruito sistemi, edifici concettuali dentro cui ripararsi. La sua produzione è occasionale, profondamente motivata dagli eventi della sua vita e da quelli politici degli anni in cui è vissuta (il ventennio fra le due guerre mondiali). Ma i suoi articoli e saggi, i suoi diari e aforismi configurano un pensiero straordinariamente coeso e coerente, originale (parola a lei non gradita) nella sua cartesiana lucidità e in una eroica onestà esistenziale. La Weil non si sa come prenderla forse perché non rimanda alle culture dominanti nel Novecento o le respinge, tenendo insieme, non per moderatismo, ma per radicalismo, politica e religione, etica e gnoseologia: e quindi, soprattutto, non viene letta, esige molto dal lettore e disturba in particolare gli intellettuali e la loro categoria oggi prevalente, quella degli universitari.

Per la Weil, che ha raggiunto Dio mediante l’amore (quasi ossessivo) per la verità e non mediante la religione, quindi ispirazione religiosa, psicologia, politica e filosofia sono inseparabili. Amica e confidente di Padre Joseph-Marie Perrin, destinatario delle sue lettere, “Simone Weil ha convertito molti non cattolici, ha deconvertito molti cattolici” come ebbe ad affermare un teologo per testimoniare quale rivoluzionario valore abbia assunto, nel Novecento, un pensiero che si dipana in una piccola costellazione di “libri duri e puri come diamanti, dal lento ritmo incantatorio, dal francese sublime” (secondo le parole di Cristina Campo). Una costellazione al centro della quale si colloca Attesa di Dio, raccolta di scritti – composti fra l’autunno del 1941 e la primavera del 1942 – apparsa postuma nel 1949 per le cure di Joseph-Marie Perrin.

Simone Weil denunciò la scomparsa simultanea dell’ideale e del reale nel nichilismo, la perdita del senso concreto e del soprannaturale come malattia dell’Europa. Che coincide con la perdita del passato: «la perdita del passato è proprio la caduta nella servitù coloniale». Il passato è il deposito di tutti i tesori spirituali, «la perdita del passato equivale alla perdita del soprannaturale». Nel colonialismo inflitto ai popoli extraeuropei la Weil legge il destino del colonialismo afflitto di cui sarà vittima l’Europa. E il passato, una volta perso, «non lo si ritrova più». L’uomo con i propri sforzi costruisce parzialmente il suo avvenire, ma non può fabbricarsi il passato, può solo conservarlo. Privando i popoli della loro tradizione e di conseguenza della loro anima, scrive Simone Weil, la colonizzazione li riduce allo stato di materia umana. Le nazionalità in Europa, notava, saranno presto insidiate dalla frammentazione, dai localismi, dalle patrie regionali. La nazione si troverà schiacciata tra «scale molto più piccole e scale molto più grandi»: alludendo al locale e al globale che verranno.

Intuì l’Europa unita come luogo di riconoscimento delle identità diverse e delle tradizioni. L’Europa, per lei, è una specie di media proporzionale tra l’America e l’Oriente, anzi il perno. Noi europei ci troviamo nel mezzo, siamo letteralmente mediterranei. Solo l’equilibrio annulla la forza. Proiettate questi pensieri nel presente, nell’Europa che rifugge la propria identità e il proprio passato, che non riesce a comprendersi come luogo d’incontro tra Oriente e Occidente e non riesce a capire che la sua centralità, la sua regalità, è nella sua mediterraneità. Quell’intuizione metafisica è pure intuizione geopolitica e strategica. Maledetta apparve ai compagni rivoluzionari, quando preferiva Trotzkij all’ortodossia socialista e sindacalista (ma Simone era a sua volta criticata da Trotzkij); quando denunciava l’irrigidimento dogmatico e violento del comunismo, quando amava la verità sopra il partito e l’umanità sopra le leggi del progresso e della storia. Molesta si rivelò per i repubblicani anarco-marxisti quando li raggiunse in Spagna e cagionò più guai che sostegno ai combattenti. Simone giudicò con orrore i suoi stessi compagni antifascisti per le loro violenze gratuite contro preti e fascisti, anche innocenti. Non furono pochi, del resto, i repubblicani che andarono in Spagna per combattere contro il fascismo ma tornarono inorriditi dal comunismo: capitò anche a George Orwell che poi lo scrisse in Omaggio alla Catalogna e tra gli italiani a Randolfo Pacciardi, che tornò anticomunista. C’è un passo splendido che racconta la purezza dell’impegno rivoluzionario di Simone e la sua sete di martirio: «Mi sdraio supina, guardo le foglie, il cielo azzurro. Giornata bellissima. Se mi prendono, mi uccidono… Ma è giusto. I nostri hanno versato abbastanza sangue. Sono moralmente complice». Simone caricava su di sé le colpe della sua parte ed era pronta a scontarle sulla propria vita.

Simone Weil e gli Ebrei: giudizi al vetriolo

Al vetriolo sono stati i giudizi della Weil (ebrea) sugli Ebrei e sullo sradicamento che avrebbero prodotto nel mondo facendo impallidire le vaghe e paludate allusioni a cui è stato «impiccato» Martin Heidegger. Ne Il fardello dell’identità, troviamo giudizi tremendi. «La maledizione d’Israele – scrive – pesa sulla cristianità. Le atrocità, gli stermini di eretici e infedeli, era Israele. Il capitalismo, era Israele (e lo è ancora, in una certa misura). Il totalitarismo è Israele». E altrove precisa: «Gli ebrei, questo manipolo di sradicati, hanno causato lo sradicamento di tutto il globo terrestre… attraverso la menzogna del progresso. E l’Europa sradicata ha sradicato il resto del mondo con la conquista coloniale. Il capitalismo, il totalitarismo fanno parte di questa progressione nello sradicamento; gli antisemiti naturalmente propagano l’influenza giudaica. Gli ebrei sono il veleno dello sradicamento».

Secondo Simone Weil la mostruosità della religione ebraica fu la pretesa di coniugare divinità e potenza. Mentre in Cristo come in Dioniso, in Osiride come in Zeus, c’è la passione, nel Dio ebraico c’è l’ebbrezza della potenza. «Difficile immaginare un Jahvè supplicante». Da qui la tesi che la storia d’Israele sia storia di massacri e ferocia, la storia di un’idolatria che ha il proprio esito «nell’idea detestabile del popolo eletto». In realtà, arriva a scrivere la Weil, Israele è il popolo eletto soltanto in quanto scelto da Dio per la nascita e la crocifissione di Gesù: «un popolo eletto per essere il carnefice del Cristo».
Simone paragona Mosè a Maurras, il leader della destra francese, perché ambedue concepiscono la religione «come semplice strumento della grandezza patriottica». La Weil vede nell’ebraismo una miscela di fanatismo e di ateismo («un ebreo ateo è più ateo di tutti gli altri»), di religione come volontà di potenza, d’irreligione e culto del denaro. Simone Weil tiene a precisare che «niente certamente ho ereditato dalla religione ebraica» e aggiunge che «se c’è una tradizione religiosa che considero mio patrimonio, questa è senz’altro la tradizione cattolica. La tradizione cristiana, francese, ellenica, questa è la mia; la tradizione ebraica mi è estranea». Giudizi estremi ma d’altronde lei stessa era estrema ed intransigente, né si risparmiava nulla.

Nel 1978 uno scrittore ebreo, Paul Giniewski, scrisse un durissimo pamphlet contro la Weil, accusandola d’ignoranza, odio e malevolenza verso gli ebrei. Arrivò a sostenere che la Weil si mostra indifferente al genocidio del popolo ebraico e per cancellarlo propone una forma di assimilazione, anzi di «arianizzazione». L’obiettivo polemico è il già citato suo testo L’enracinement, curato da Camus, che in Italia pubblicò l’ebreo Olivetti con la curatela dell’ebreo Franco Fortini e col titolo La prima radice, dove Simone Weil difende la centralità delle radici e del dovere, dell’onore e dell’amor patrio, della fedeltà e della tradizione. Ma s’intravede in qualche suo passo quella polemica antigiudaica poi esplicitata in altri scritti, qui pubblicati, e in alcuni passi dei suoi Quaderni. C’è in Simone Weil il rigore assoluto della purezza e l’intransigenza di una cristallina aderenza alla Verità. Ma, come ogni purezza in nome della Verità Assoluta, c’è in lei un forte irrealismo che la spinge a pensare una specie di violenza metafisica nel nome del Bene. La vita è trascurabile cosa rispetto alla Verità, pare voler dire.

C’è però da dire che Simone Weil, morta nel ’43, non seppe la verità atroce dei lager né dei gulag. E non fu mai indulgente verso il nazismo. E poi di quell’assoluta purezza la prima martire fu lei stessa, che sacrificò la vita al rigore del suo amore sovrumano, che rischiò di tradursi in disumano. La Weil patì il risvolto atroce di una santità intransigente e di una bontà spietata verso di sé.

Georges Bataille, che non amava il pensiero di Simone, riconosceva però che pochissime persone gli avevano suscitato interesse come lei. «La sua innegabile bruttezza faceva spavento», ma nascondeva «una bellezza autentica». «Riusciva seducente per un’autorevolezza dolcissima, e molto semplice; era certamente un essere ammirevole, asessuato, con qualcosa di nefasto. Nera sempre, neri i vestiti, i capelli come ali di corvo, la carnagione bruna. Era senza dubbio molto buona, ma nutrita da un pessimismo impavido e un coraggio estremo attratto dall’impossibile, aveva ben poco umorismo». In fondo, nota Bataille, si inflisse la morte per eccesso di rigore e per la sua «asprezza geniale». Chissà se di quelle pagine scabrose, del resto già note in frammenti dispersi, mai raccolte tutte insieme, si preferirà ignorare l’esistenza per continuare l’esercizio d’ammirazione verso Simone Weil o se ne scaturirà via via una serpeggiante emarginazione. Simone Weil nel suo amore assoluto e spavaldo per la verità non ne sarebbe scalfita, tantomeno intimorita. Anzi probabilmente lei voleva “sembrare” in quel modo perché sentiva di esserlo.

 

Fonti: L’intellettuale dissidente, http://www.ilgiornale.it/news/cultura/simone-weil-bruttina-non-stagionata.html, Marcello Veneziani

 

Giovanni Gentile, filosofo della prassi e intellettuale scomodo

Il nostro tempo mette a tacere diversi autori scomodi, considerandoli inattuali, verso i quali nutriamo dei pregiudizi ideologici, ma il cui pensiero stimola il nostro intelletto e si rivela fonte di spunti interessanti. Perché non si studia o si studia poco e male uno dei più grandi intellettuali del Novecento, quale è stato Giovanni Gentile (Castelvetrano, 29 maggio 1875 – Firenze, 15 aprile 1944)? Perché il filosofo grazie al quale si spiega tutta la filosofia italiana del secolo scorso, a partire da Antonio Gramsci è stato condannato all’oblio? Uno dei motivi di questa damnatio memoriae è da ricondurre alla costituizione di mode anche in filosofia (gli autori che vanno di moda sono quelli che giustificano sempre il tempo in cui viviamo, con i loro misfatti ed iniquità), oltre che, ovviamente, all’appartenenza di Gentile al regime fascista.

Perché Giovanni Gentile è stato un pensatore importante? Prima di tutto a lui si deve la revisione del pensiero marxista (come già è avvenuto in Francia grazie a Sorel), criticandone il materialismo storico e dialettico, e fornendoci una lettura in chiave idealistica, mostrandoci un Marx non stereotipato, più vicino alle filosofie di Hegel piuttosto che a quelle del positivismo di Comte. L’opera di Gentile su Marx, La filosofia della prassi (1899) è il più grande testo su Marx mai apparso in Italia e segna un grande dibattito: se in Italia, per tutta la prima metà del Novecento, Marx viene letto come filosofo della prassi, lo si deve alla geniale interpretazione di Gentile. Lo stesso Marx di Gramsci è un “Marx attualista”, gentiliano. La revisione di Gentile inoltre, identifica in Marx un “idealista metafisico”.

Gentile identifica nel concetto di prassi il segreto metafisico di Marx, ovvero l’assunto per cui la realtà è sempre risultato storico di un fare: è Gegenstand e non Objekt, come recita la prima delle tesi su Feuerbach (tradotte da Gentile per la prima volta in italiano). La realtà quindi non è materia data a prescindere dal soggetto, ma esito di un porre, produzione, esito pratico dell’agire sociale: si ha il soggetto se si guarda all’azione nel suo sviluppo, e si ha l’oggetto se si guarda l’azione nel suo risultato. L’oggetto è il soggetto stesso che si è oggettivato. Marx chiama la propria filosofia della praxis “materialismo” perché la materia è la metafora che significa azione rivoluzionaria. Confrontandosi con il prassismo di Marx, Gentile ha dunque posto le basi per il codice attualistico e per la riforma della dialettica hegeliana.

Nato a Castelvetrano (Trapani) nel 1875, Giovanni Gentile si è formato presso l’università di Pisa, ha rivolto la sua attenzione soprattutto verso Kant, Rosmini, Gioberti, Hegel. Negli ultimi anni del secolo Gentile approfondisce, da un lato, Spaventa e, dall’altro, Marx, che esamina nel testo La filosofia di Marx (1899). Attraverso la nozione marxiana di prassi liberamente rivisitata e mediante la lettura di Vico e degli idealisti tedeschi, Gentile delinea la sua concezione della soggettività trascendentale intesa come “attività creatrice” che collega soggetto e oggetto in un fare che si manifesta nella storia. In questi anni Gentile stringe una forte amicizia con Benedetto Croce che durerà fino a quando la differenza tra lo storicismo crociano e l’attualismo gentiliano si farà troppo marcata. Nel 1903 Gentile delinea la propria posizione filosofica che prende il nome di attualismo e ch’egli svilupperà in una serie di saggi teorici fino al 1922; nel frattempo si dedica anche alla ricerca storico-filosofica con gli studi: Le origini della filosofia contemporanea in Italia (1903-1914), Dal Genovesi al Galluppi (1903), Il pensiero italiano del Rinascimento (1920), Studi vichiani (1915), Gino Capponi e la cultura italiana del secolo decimonono (1922). Nello stesso periodo il filosofo affronta anche le questioni della pedagogia: Sommario di pedagogia come scienza filosofica, La riforma dell’educazione; Educazione e scuola laica; Preliminari allo studio del fanciullo; e successivamente quelli estetici in Filosofia dell’arte.

Nel 1911 esce L’atto del pensare come atto puro, nel 1913 La riforma della dialettica hegeliana, nel 1916 Teoria generale dello Spirito come atto puro e dal ’17 al ’22, il Sommario di logica come teoria del conoscere. Nel dopoguerra Gentile tratta i problemi politici in Guerra e fede (1919) e diviene uno dei principali esponenti in campo intellettuale; viene infatti nominato ministro della Pubblica Istruzione ed elabora, nel 1923, un’importante e discussa riforma della scuola. Negli anni successivi si occupa quasi esclusivamente di organizzazione della cultura, è direttore dell’Enciclopedia Italiana e presidente della Accademia d’Italia. Dopo la crisi del 25 luglio 1943 si apre ad un ripensamento dal punto di vista sociale della sua filosofia che prende forma nell’opera Genesi e struttura della società (1946). Muore a Firenze nel 1944, barbaramente ucciso dai partigiani antifascisti.

Gentile ha appreso da Marx il considerare l’uomo come faber fortunae suae ed è proprio ne La filosofia di Marx che, discutendo il pensiero marxiano, Gentile sostiene che la storia è l’esito mai definitivo del fare umano.

La pedagogia per Giovanni Gentile si identifica con la filosofia. Di particolare importanza e attualità sono le tesi sul rapporto tra maestro e scolaro, caratterizzato da un dualismo che deve risolversi in unità attraverso la comune partecipazione alla vita dello spirito che, attraverso la cultura, va dall’educatore verso l’educando e lo riassorbe nell’universalità dell’atto spirituale. Nella vita della scuola il maestro occupa il posto centrale e in lui si esprime il modello formativo spirituale e culturale che deve essere d’esempio all’alunno.
La scuola (costosa, ma probabilmente tra le migliori che l’Italia abbia mai avuto) che emerge dalla dottrina pedagogica gentiliana è molto legata alla tradizione umanistico- letteraria ed è caratterizzata da un ordinamento gerarchico e centralistico. Una scuola aristocratica dunque, pensata per i migliori, e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo classico-umanistico per le classi dirigenti e in uno professionale per il popolo ed introducendo l’insegnamento religioso a livello primario. Bisogna sottolineare che Giovanni Gentile non giunse nella scuola italiana come riformatore al Ministero per meriti fascisti: quando Mussolini ottenne l’incarico di governo dal re volle subito dimostrare che il fascismo era disponibile ad accettare la collaborazione di tutti gli uomini di valore. Di Gentile, Mussolini non sapeva neppure il nome. Glielo propose per la pubblica istruzione il sindacalista Lanzillo, e il futuro dittatore si trovò davanti un Gentile intransigente che pose due condizioni al fine di accettare la proposta: che fossero ristabilite le pubbliche libertà e introdotto l’esame di Stato nelle scuole secondarie. Mussolini ovviamente promise.

Nonostante l’oblio a cui è stato sottoposto soprattutto dall’establishment culturale politicizzato italiano (soprattutto nelle scuole e nelle università), la caratura culturale, morale e civile di Giovanni Gentile rimane inalterata e viva (come dimostrano i numerosi studi a lui dedicati come quelli di Sasso, Romano, Mecacci e tanti altri), anzi cresce col passare degli anni ed anche tanti dei suoi critici di ieri e cominciano finalmente a rivedere le loro posizioni e a riconoscere il valore di un grandee dignitoso pensatore che non è mai andato come tanti altri, alla ricerca di alibi per evitare le conseguenze della propria scelta politica quando la situazione si faceva pericolosa, uno scomodo intellettuale che ha saputo riformare Hegel attraverso l’illuminante rilettura di Fichte tramite Marx: in questo modo l’identità hegeliana di pensiero ed essere diventa identità garantita dall’atto in atto del pensiero pensante. Come ha affermato Masullo, Gentile si confronta con tutti ma non fa mai i conti con Fichte: perché, in fondo, era per molti versi il suo alter ego, ossia l’autore che più gli assomigliava.

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