“L’ultimo Libro”, il romanzo apocalittico di Giancarlo Biserna

Giancarlo Biserna presenta un avvincente romanzo apocalittico a sfondo teologico in cui l’umanità, già stremata dalla pandemia di Covid19 e da una lunga guerra, deve fare i conti con un nuovo virus, dalla natura ineffabile e forse sovrumana. È il momento di scegliere da che parte stare: da quella della scienza o da quella della fede, ovvero dalla parte dei vaccini e delle guerre oppure dalla parte di San Pellegrino Laziosi, Santo forlivese di serie B, e di Padre David Maria Turoldo.

Casa Editrice: Il Cerchio

Collana: C’est la vie

Genere: Romanzo apocalittico

Pagine: 324

 

 

«Non aveva alternative, sapeva che per gran parte degli esseri umani non c’era più scampo, non erano più in grado di ritornare alla fede in Dio con le proprie forze, occorreva che un “Uno” al loro posto giocasse la partita a scacchi fondamentale per la salvezza e che “questo Uno” la vincesse per loro. L’Abate poteva farlo perché Dio glielo aveva concesso, ma sapeva che se avesse perso per l’umanità ci sarebbe stato solo pianto e stridore di denti. Questo era il prezzo della vera ed unica libertà dell’uomo, quella della “milleunesima possibilità”»

 

“L’Ultimo Libro” di Giancarlo Biserna è un romanzo di genere apocalittico profondamente attuale, perché parla dell’epoca post Covid19 spostandosi di oltre cinque anni nel futuro, e concentrandosi soprattutto sulle conseguenze etiche e morali della pandemia. Il mondo purtroppo non ha imparato nulla da tanta sofferenza: sia il letale virus che la sanguinosa guerra nell’est Europa hanno solo esacerbato i difetti degli esseri umani; tutta la corruzione, la violenza, l’intolleranza e l’odio diventano quindi terreno fertile per la proliferazione di un nuovo morbo, dall’origine ignota e forse soprannaturale, e le cui modalità di contagio sono in principio di difficile comprensione. Questo virus, veicolato da minuscoli insetti chiamati Zalek, scuote il mondo dalle fondamenta e fa emergere un’esigenza pressante di cambiamento radicale: la malattia, infatti, sembra colpire solo chi compie il male.

È quindi giunto il momento di rispolverare la coscienza, di riabbracciare i veri valori cristiani alla luce di questi tempi post tutto; c’è però un potere occulto, l’Ordine Massonico Mondiale, che nega la fede e vuole annientare il Cristianesimo e tutti coloro che vi si affidano. Uomini potenti ne fanno parte e, riuniti ad Asumar, un luogo a picco sul mare nel punto più lontano della Sicilia rispetto al Continente, tramano la distruzione della fede cristiana grazie alla scienza, all’intelligenza artificiale e alla “cancel culture”. Il loro primo obiettivo è Padre Peter Crowell, Abate del Monastero di Monte Manto, considerato il fondante e vero avamposto della resistenza del Cristianesimo. Ed è proprio a Monte Manto che inizia l’avventura straordinaria del protagonista, Amos, ignaro di essere coinvolto nell’ultima, grande guerra, e di esserne uno dei condottieri principali insieme all’enigmatica Alba, una donna fuori dal comune. Sarà una battaglia ideologica, combattuta tra scienza e fede, tra vaccini terreni e vaccini spirituali, dove Amos, benché imperfetto e peccatore come tutti gli uomini, diverrà una sorta di figura messianica, un ponte tra il divino e l’umano.

Con una scrittura raffinata e a tratti criptica, tra citazioni letterarie e testi sacri, l’autore presenta un romanzo nel romanzo: Amos stava infatti già scrivendo un’altra opera dal titolo, appunto, “L’Ultimo Libro”, alcuni stralci della quale entreranno d’obbligo e di diritto nel vero, nuovo, definitivo Romanzo.

 

SINOSSI DELL’OPERA. Il romanzo “L’Ultimo Libro” è di genere apocalittico, ambientato nella post pandemia dove il mondo è alle prese con un nuovo virus di tipo spirituale trasmesso da insetti che colpiscono il male in quanto il genere umano dopo l’esperienza del Covid19, anziché migliorare, è regredito. Per guarire o per non essere infettati ci sono due strade opposte, il vaccino terreno (scienza) od il vaccino spirituale (fede). Bisogna scegliere subito: O di qua o di là. I fatti si svolgono tra Forlì ed un Monastero dell’Alta Toscana (Monte Manto) e gravitano su due personaggi, Amos ed Alba che, fra intrighi, misteri e passione, sono chiamati a lavorare per un nuovo Cristianesimo in grado di unire il meglio della fede con il meglio della ragione. Ma da soli la donna e l’uomo non ce la possono fare perché un Ordine Mondiale Massonico, ormai è quasi padrone del mondo. Solo un Ritorno, prima della Venuta degli Ultimi Giorni, è l’unica via rimasta per risvegliarci e per salvare il Cristianesimo. Il finale propone, partendo da un Custode pro tempore della Chiesa, la salvezza attraverso una nuova Regola di San Benedetto.

 

BIOGRAFIA DELL’AUTORE. Giancarlo Biserna (Forlì, 1947) ha lavorato in banca per trentasette anni esercitando vari ruoli, e poi nel sindacato bancari dove ha occupato incarichi anche di rilievo nazionale. Ha iniziato l’attività politica nel 1990 con la Primavera Palermitana di Leoluca Orlando e poi è stato tra i promotori del percorso Mani Pulite in Italia insieme ad Antonio Di Pietro. L’ultimo ruolo politico significativo è stato quello di Vicesindaco di Forlì. “L’Ultimo Libro” è il suo primo romanzo.

 

 

Contatti

https://it-it.facebook.com/people/Giancarlo-Biserna/100008477746117/

http://www.ilcerchio.it/

 

Link di vendita online

https://ilcerchio.it/l-ultimo-libro.html

https://www.ibs.it/ultimo-libro-libro-giancarlo-biserna/e/9788884746399?lgw_code=1122-B9788884746399&gclid=Cj0KCQjw39uYBhCLARIsAD_SzMSsdUOrDek1iz_nrB9evTGFLWzVGl7c3HK1-l9w2tOzh8odlipypKgaAjXMEALw_wcB

 

Trilussa, poeta vernacolare e iniziato alla Massoneria

Trilussa, pseudonimo di Carlo Alberto Salustri (1871 – 1950) fu, nella sua vita, poeta ed iniziato.

Trilussa è una delle figure più rocambolesche che si possano incontrare in un’indagine che scandagli i cammini paralleli di Letteratura e Massoneria. Il poeta romano, infatti, fu un massone che mai ricevette iniziazione massonica. Ciò rende ammaliante l’intera costellazione delle sue vicende. Mai compiacente osservatore delle cose italiane, aveva sempre offerto un loro ritratto ironico. Emblematica la sferzata al regime fascista (senza mai, però, sfociare nell’invettiva).

Nonostante l’atteggiamento sui generis – sempre al di sopra delle parti, e fedele solamente a Donna Poesia – il Paese lo vede di buon occhio e lo nomina senatore, senza che questi, però, perda il suo approccio distaccatamente ironico nei riguardi della vita. L’approccio della mente superiore, che vive e vede il mondo, ma mai perde la consapevolezza della caducità delle cose. La poesia in vernacolo, poi, consentiva margini più ampi alla satira, rispetto a quella in lingua. Col registro di cui fece uso, Trilussa immortalò nel migliore dei modi un mondo che viveva, pulsava.

Non trova, nelle istituzioni umane le doti etiche che dovrebbero essere patrimonio comune, ricordando, con tale critica universale, lo spirito massonico, al di là degl’ironici sonetti Li frammassoni de jeri e Li frammassoni d’oggi, in cui non si scaglia contro l’essenza dell’Istituzione ma contro gli uomini che ne fanno parte. Talvolta, questa tensione Trilussa all’universalità, che sfocia nel riconoscimento e nell’aspirazione all’uguaglianza, tracima dalle piccole cose quotidiane alle questioni di peso più considerevole e tragico, come la guerra. Nel 1915, in Fra cent’anni, Salustri, riguardo alla Grande Guerra, ammonisce, riferendosi ai soldati morti, tutti ugualmente straziati dal combattimento:

“E diranno fra loro: – Solo adesso

ciavemo per lo meno la speranza

de godesse la pace e l’uguajanza

che cianno predicato tanto spesso!”.

Il pessimismo di Trilussa

Al momento della morte, dunque, tutti diventeranno uguali, accomunati da quella grande “Livella” ch’è il Tristo Mietitore. Ed il discorso sulla caducità delle cose, sulla vita che altro non è che un gioco fatuo, viene chiuso nella deliziosa, e amara, La bolla de sapone:

“Lo sai ched’è la Bolla de Sapone?

L’astuccio trasparente d’un sospiro”.

Un ‘pessimismo’, quello di Trilussa che non è affatto distruttivo ma, anzi, diviene una presa di coscienza della vicenda umana, di un pánta rêi che non è mai chiuso nichilismo, ma cela la speranza del riscatto finale dell’Uomo. Una speranza covata anche dalla Massoneria, che spinge i suoi iniziati a non smettere mai di lavorare e studiare “per il bene e il progresso dell’Umanità”. Non si può certamente affermare la distanza di Trilussa dall’Ordine, neppure prendendo in considerazione l’ironia dei sonetti dedicati alla Libera Muratoria “di ieri e di oggi”, in cui più che un’aggressione all’Istituzione emerge l’amarezza per l’azione fascista. Mentre la satira dei sonetti massonici va a colpire gli uomini e non il pensiero massonico, negli scritti contro il Fascismo, vi è uno scagliarsi più contro il pensiero che non alle persone: come dimenticare il geniale attacco al “dittatore” in Nummeri ?

Del 1911 è il primo sonetto de Li frammassoni de jeri, in cui Trilussa denuncia il fatto che i massoni non seguono più i lavori come dovrebbero, e che ad assistere alle attività del Tempio non è rimasto che il Grande Architetto, mettendo in mostra l’inadeguatezza della struttura umana e giammai l’Istituzione:

“Pe’ questo so’ chiamati muratori

e er loro Dio lo chiameno Architetto…

Ma poco più j’assiste a li lavori”.

Il secondo sonetto, del 1912, vede il poeta romano evidenziare l’ambizione personale dei singoli che sopraffa il sentimento che dovrebbe animare i massoni. Tuttavia, quasi li giustifica, non vedendoci chissà quale male nel “moderno” pensiero. Proprio l’aggettivo “moderno”, che fa da contraltare ad “antico”, serve a ribadire, a mostrare che, se vi è il germe di cambiamento, esso è tra gli uomini:

“è un modo de pensà tutto moderno

e in questo nun ce trovo ‘sto gran male.

 

Se er frammassone cià li tre puntini,

er prete cià er treppizzi, e m’hai da ammette

che armeno in questo qui je s’avvicini”.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la caduta del Fascismo e la liberazione è tutto un fiorire e rifiorire di attività anche artistiche e culturali. Anche le porte del Tempio si riaprono, ed i Lavori tra le Colonne riprendono con convinzione.

È a questo punto che Trilussa cede alle sollecitazioni degli amici massoni, e chiede l’affiliazione che viene quindi accettata, ma che, purtroppo, non verrà mai messa in pratica ritualmente a causa della morte del poeta. Vi sono tutti gli elementi per pensare che la sua sia stata una richiesta ben cosciente, e sostenuta da una buona cultura in fatto di cose massoniche, e dalla sicurezza della buona fede di chi lo invitò.

Nonostante la mancanza dell’ultima mossa (l’iniziazione), Trilussa, vero e sincero uomo libero per definizione, che di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza aveva costellato la sua vita e la sua opera, non può non essere considerato, dunque, un Figlio della Vedova, un vero e proprio ‘iniziato’.

 

Calvino e quel suo Barone rampante-‘Iniziato’

Il Barone rampante e l’aspetto massonico. Scrivere di Italo Calvino (1923 ˗ 1985) è sempre una fatica ingrata. L’estasi delle sue pagine è inversamente proporzionale alla difficoltà del misurarsi col suo genio inarrivabile. Quale scrittore non sogna la sua agilità stilistica, e la sua capacità di aggettivazione accurata e mai pedante? Quale uomo di lettere non brama la sua maestria nell’essere ostico in proposizioni semplici, e facilmente godibile in periodi quasi interminabili? Questa, la sua caratteristica più gustosa: una padronanza invidiabile della parola scritta, grazie alla quale l’autore si misurava col foglio bianco, intagliando fini ghirigori di alto pregio, in una resa tale da far apparire l’impresa quasi facile. Prolifico ed estroso, Calvino ha costellato la letteratura italiana di capolavori di indiscutibile fama, pregni di simboli ed insegnamenti iniziatici affatto trascurabili.

Figlio e nipote di massoni (Libero Muratore era stato suo nonno, Giovanni Bernardo; e la stessa strada la percorsero suo padre, Mario, e suo zio Quirino), Calvino ebbe modo di assorbire l’insegnamento iniziatico di una Massoneria che più volte trasparì dai suoi scritti. Uno dei casi più espliciti, e comunque uno dei più particolari, è il romanzo del 1957: Il barone rampante.

Il Barone rampante: una storia di ribellione tra fantasia e elementi massonici

Parte integrante della trilogia I nostri antenati, insieme con Il visconte dimezzato (del ’52) e Il cavaliere inesistente (del ’59), il romanzo tratta la bislacca esistenza di Cosimo Piovasco di Rondò, giovane barone appartenente ad una nobile famiglia decaduta. La scena è narrata dal suo fratello minore, Biagio, che descrive la rigida famiglia, il paese immaginario della storia (Ombrosa), e tutte le vicende, con accuratezza e generosità di particolari. Tutto comincia quando, con un gesto di ribellione all’inflessibile autorità del padre,  Cosimo (detto anche “Mino”) rifiuta di mangiare un piatto di lumache, allontanandosi, piccato, dal desco paterno, per sparire in cima agli alberi del vasto giardino di casa, e per non rimettere mai più piede a terra. Durante la sua intera vita tra i rami, Mino non si fa mancare alcuna esperienza, ed anzi, la sua esistenza è densa d’avventure d’ogni sorta. S’innamorerà di Ursula, vivrà tra duelli, battute di caccia, beffe, e peripezie, serbando, per la vecchiaia una fine scenografica.

Nella vita del protagonista del Barone rampante (ed in quella del narratore), non manca l’elemento massonico. Ci confida, infatti, Biagio, iniziando il Capitolo XXV, e ragionando delle questioni segrete del fratello:

“Io non so se a quell’epoca già fosse stata fondata a Ombrosa una Loggia di Franchi Muratori: venni iniziato alla Massoneria [. . . ] dopo la campagna napoleonica [. . . ] e non so dire perciò quali siano stati i primi rapporti di mio fratello con la Loggia”.

Da questo punto, il narratore del Barone rampante vola con la memoria ad un particolare episodio: due spagnoli, giunti ad Ombrosa, incrociano la loro strada con quella di Cosimo. Ne nasce un diverbio. Uno dei due sfodera la spada, sfidando a duello il protagonista, e raggiungendolo sugli alberi. Nella foga dell’attimo, Mino apre la sfida al grido massonico di “A Gloria del Grande Architetto dell’Universo”. Il ‘terreno’ dello scontro è scomodo, ma i due tirano di spada senza problemi, e senza reverenza. Dopo un tiro mancino dello spagnolo, a spuntarla è comunque il barone di Rondò, che raggiunge l’avversario al ventre, facendolo rovinare al suolo. Il particolare del motto massonico non sfugge a Biagio, che archivia il discorso asserendo: “Da quel giorno mio fratello ebbe fama generale di frammassone”.

Il capitolo continua con una gustosa digressione sulla fantasiosa Massoneria di Ombrosa, fatta di rituali particolari, e di riunioni tenute all’aperto, celate nel bosco, alla luce di fiaccole e candele, e simboli affatto ortodossi. Una società segreta nella quale Cosimo, secondo le supposizioni di Biagio, sembra quasi inciampare per puro caso:

“È possibile che la Massoneria esistesse già da tempo, all’insaputa di Cosimo, ed egli casualmente una notte, muovendosi per gli alberi del bosco, scoprisse in una radura una riunione d’uomini con strani paramenti [. . . ] e poi intervenisse [. . .] con qualche uscita concertante [. . .] e i Massoni, riconosciuta la sua dottrina, lo facessero entrare nella Loggia, con cariche speciali [. . .]”.

Il narratore tenta, così, di darsi una spiegazione riguardo agli ‘atteggiamenti’ ed alle pieghe poco ortodossi della Massoneria di Ombrosa, il cui fondatore pareva essere un leggendario Maestro detto “Picchio Muratore”, la cui simbologia includeva elementi ch’erano chiari richiami agli alberi (come le pigne e le civette), il cui rituale d’iniziazione prevedeva la salita su un albero e la discesa (bende agli occhi) tramite delle corde appositamente congegnate.

La semplicità della narrazione di Calvino

Semplicità disarmate, dunque, quella con cui Calvino, nel Barone rampante, mette il lettore comune a tu per tu con l’Istituzione Massonica. La semplicità della padronanza, della sicurezza, della confidenza con l’argomento e con l’arte della scrittura. Doti dalle quali nasce un romanzo che cela qualcosa di più che una semplice narrazione di riti, Logge e simboli. Un romanzo che, non a torto, può essere assimilato ad un percorso iniziatico; ad un cammino di crescita interiore del protagonista. Cosimo ˗ come l’iniziato ˗ fa una forte scelta che lo porta a camminare in parallelo coi suoi simili, ma in ambienti e dimensioni decisamente distaccati. Il regno degli alberi è il tempio in cui Mino impara a misurarsi con sé stesso, con l’universo, con quella libertà individuale cara all’ambiente iniziatico, e che è la causa fondamentale per la quale egli decide di abbandonare il restrittivo tetto paterno. Scelta ferma ed irrevocabile, quella di Cosimo, che mantiene i rapporti con gli uomini, ma che resta ad osservare la vita da una prospettiva alternativa, incomprensibile per il profano:

“Come questa passione che Cosimo sempre dimostrò per la vita associata si conciliasse con la sua perpetua fuga dal consorzio civile, non ho mai ben compreso [. . .]”.

E coerente resterà fino in fondo, il protagonista del Barone rampante, quando, alla fine del suo cammino, tacciato di follia, compirà la sua ultima ricerca interiore, anelando ad un’uscita di scena differente da quella prestabilita per l’Uomo, e ascendendo al Cielo non in maniera figurata, ma fisicamente, nell’incomprensione e nell’incredulità generale.

A ricordarlo, una stele nella tomba di famiglia:

Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo”.

Un borghese piccolo piccolo e la parodia come memento


Un borghese piccolo piccolo (un titolo ch’è un programma) è quel capolavoro d’esordio del 1976 di Vincenzo Cerami (1940 ˗ 2013), che può essere annoverato, non a torto, tra le cose letterarie più ‘rumorose’ ed osservate del panorama culturale italiano. Italo Calvino, in una nota alla prima edizione, fece notare l’abilità dell’autore (alunno prediletto di Pier Paolo Pasolini) nel rendere, una storia d’impiegati, un grandioso e crudo susseguirsi di fatti romanzeschi.

Severgnini, in un commento dei primi del Duemila, lodò le grandi doti da sceneggiatore di Cerami, evidenziando come, prolisso dove consentito, l’autore riuscisse ad “asciugare” le frasi, rendendo, con lapidaria concisione, i momenti tragici di Un borghese piccolo piccolo. Monicelli ne estrasse un film fedele e degno, in cui un Alberto Sordi in gran forma interpretò divinamente l’enigmatico protagonista, che valse tre David di Donatello e quattro Nastri d’argento.

Arduo, scrivere di questo di Un borghese piccolo piccolo, senza finire per raschiare il fondo d’un barile di banalità. Imprescindibile, però, l’illustrazione, almeno sommaria, dei momenti salienti del racconto.

Un borghese piccolo piccolo: quel misero bisogno di arrivare

Dà il la alla narrazione. Non a caso, probabilmente, la brutale uccisione di un pesce, durante una battuta di pesca tra il protagonista, Giovanni Vivaldi (nome deliziosamente colmo di sonorità), e suo figlio, Mario. Giovanni, in un sublime e futurista andamento leopardiano, sconta la pensione sbrigando pratiche pensionistiche presso il ministero. Da perfetto piccolo borghese, suo unico obbiettivo è “sistemare” Mario, appena diplomato alla ragioneria, nello stesso luogo, aspirando però, per il giovane, ad un ruolo più alto. Compagna di Giovanni è la sterile Amalia. Ella, pur storcendo il naso, fiancheggia il marito anche quando questo, per aiutare il figlio a superare un provvidenziale concorso (esattamente al ministero), segue il consiglio del suo capufficio ˗ il dottor Spaziani ˗ e “si fa massone”. Il placido scacchiere della narrazione viene ribaltato magistralmente, e con violenza improvvisa, quando il giovane, subito dopo aver sostenuto la prova del concorso, viene coinvolto erroneamente in una sparatoria, morendo sotto gli occhi impotenti ed assenti del padre, che riesce comunque a riconoscere il delinquente. Da qui, la via per il finale che non ci si aspetterebbe, fatto di tragedia e di sorprendentemente aspra vendetta.

Si potrebbe indugiare sulla peculiarità di un Neorealismo giammai stucchevole ed artificiale; si potrebbe rallentare sui costrutti semplici, e dunque d’alta fattura; si potrebbe assaporare e svelare il labor limae insospettabile, dietro quest’opera. Si potrebbe. Anche al costo di risultare tediosi, ridondanti, pedanti.

Una delle caratteristiche di Un borghese piccolo piccolo, infatti, è proprio la descrizione di un’intera, goffa cerimonia d’iniziazione all’Ordine. La vicenda comincia quando, alla richiesta d’aiuto per il concorso al ministero, il dottor Spaziani consiglia a Vivaldi: “Hai mai sentito parlare di Massoneria? […] Bene. . . fatti massone”. Ciò pone in essere una sorta di reclutamento fondato non sulla vocazione e la predisposizione ai precetti massonici, ma sul misero bisogno d’arrivare.

Quando Vivaldi, non avendo ben chiara la portata dell’Istituzione, accetta comunque di getto, inizia l’indottrinamento (che, in ambito massonico, prevede un altro elegantissimo termine specifico) tramite una serie di opuscoletti e di libri, che Spaziani consegna al protagonista, perché impari il tutto in gran segreto. Dopo una serie di stereotipi e di luoghi comuni imbarazzanti, la preparazione termina, e giunge il giorno dell’iniziazione, in una loggia abilmente celata all’interno di una comune casa cittadina: “Arrivò finalmente il giorno della prova per il padre. L’appuntamento era fissato per le ventuno e trenta nel seminterrato di una casa, nei pressi del vecchio sambuco”.

Vivaldi vi si reca trepidante, non senza prima concedersi un ultimo istante d’esitazione e di intimità con l’Altissimo, nel “cesso” di casa, lontano dagli occhi della moglie. Inizia la cerimonia. Qui, Cerami dà la prova di quanto sappia essere generoso di parole ed abile di satira, indugiando in particolari curiosi, esasperando descrizioni, parodiando questo e quel gesto sacro, sbagliando i paramenti dei funzionari dell’iniziazione. Elargisce colori, sensazioni, odori, ed entra nel vivo del glossario massonico (“Chi è? [. . .] È un profano che chiede la Luce!”), portando tutto ad un trionfo di ebbra e bizzarra solennità, come la curiosa risposta alla domanda di rito riguardo ad un punto cardine della Massoneria, la Libertà:

“La Libertà. Dunque, per me la Libertà è fare quello che mi pare. . . È essere libero. È. . .  È. . . È la libertà di stampa e di pensiero. . . È. . .  come posso dire?!. . . È una bella cosa. . . peccato che ce ne sia troppa!”.

Giovanni compila un modulo che precede l’inizio dei lavori, ne controlla “la forma e la punteggiatura” e si presta, placido e timoroso, alle prove rituali. Le supera tutte, ma fallisce la principale: a cerimonia conclusa, la Fratellanza si riunisce per  andare alla cena rituale, ed uno degli astanti avvicina il protagonista, chiedendogli mille lire come aiuto per la sua situazione disgraziata di disoccupato con moglie incinta a carico; Giovanni torna ad essere “un borghese piccolo piccolo”, e nega d’avere il portamonete a portata di mano, facendo precipitare la situazione in un teatrino imbarazzante, con il giovane interlocutore che inveisce:

“Non vuole darmi mille lire. . . Fratelli, Fratelli. . . [. . .] L’unica prova vera non l’ha superata. . . Le prove del cerimoniale erano tutte simboliche, ma questa, questa delle misere mille lire non l’ha superata [. . .]”.

L’unica preoccupazione di Giovanni è d’essere ugualmente accolto tra i suoi fratelli (non esserlo, significherebbe perdere il concorso), ma subito capisce che la cosa non ha avuto ripercussioni sul suo cammino in loggia, e subito torna la serenità. Il giovane Mario riuscirà a sostenere la prova del concorso, ma morirà subito dopo esser uscito in strada, senza che il suo povero padre ˗ piccolo ma di grande ingegno e di insospettabile carisma ˗ possa far niente.

Monito a ricordare quanto sia deleterio forzare le cose con scaltrezza, dunque. Quasi un memento verghiano, ottimamente congegnato, e ritratto in un romanzo che ad altro non potremmo accostare, se non ad una gialla ed odorosa polaroid della società italiana (tremendamente attuale). Una polaroid scattata, quasi certamente, per mettere in guardia dai terribili effetti collaterali delle cattive azioni. Un ritratto realizzato da un autore che dimostra di conoscere bene la Massoneria ed il suo ambiente lodevole, ma che decide comunque di mostrarne il lato più assurdo e l’impotenza dinanzi al destino di ognuno di noi, a ricordare come essere l’uomo sbagliato, col giusto farmaco in mano, non porti lontano.

Giovanni Pascoli massone ed esoterista

Giovanni Pascoli, è più noto alla maggior parte del pubblico per la sua poesia piuttosto che per la sua conservazione della lignée esoterica e gnostica che riformulò in corposi testi che rischiano di essere dimenticati, se non conosciuti affatto.

Certamente è sotto gli occhi di tutti quelli che hanno studiato anche solo un minimo Giovanni Pascoli, il suo costante rapporto con la morte e il mistero, l’gnoto verso cui si protende l’animo, cercando di carpire i segreti e gli enigmi che provengono dal mondo. Bisogna a tal proposito tenere sempre presente che complice di questo particolare rapporto con la morte da parte del poeta, è la prova del dolore e della sofferenza cui fu sottoposto Pascoli nella prima gioventù, a causa dell’omicidio del padre. Infine l’amore di Pascoli, per il passato classico, in particolare per quel mondo greco-latino che è stato una costante della sua produzione poetica e delle sue traduzioni.

Giovanni Pascoli: l’iniziazione alla Massoneria

Londra, 1717. Alla luce delle candele, ed al tepore amichevole della locanda “All’oca e alla graticola”, nasce ufficialmente quella che sarà destinata a diventare, nei secoli, sino ai giorni nostri, la più diffusa ed enigmatica società segreta al mondo: la Massoneria.

Formazione intellettuale di gentiluomini – evoluzione di quelle affascinanti corporazioni medievali di scalpellini, usi tramandarsi allegoricamente i segreti del mestiere – , l’istituzione massonica coltivò, fin dal principio, il fine ultimo dell’elevazione etica, spirituale e culturale dei suoi affiliati, offrendo loro un insegnamento umano, filantropico ma anche deistico. Valore imprescindibile, per attraversare le Colonne del Tempio, era, infatti, la fede nell’esistenza di un qualsiasi Essere superiore, un Dio creatore, sì, dell’Universo, ma che, pur rimanendovi immanente, non sarebbe dovuto intervenire nelle questioni dell’Uomo.

Avvolta dal mistero, protetta da uno spesso velo di riservatezza, senza mai tralasciare i suoi antichi rituali, la Massoneria si è affermata – nello scorrere degli eoni – in ogni ambito della società, senza sdegnare, anzi, quasi prediligendolo, il mondo della cultura. Nel tempo, il suo insegnamento esoterico (dal greco esoterikòs, che vale “interno”; “riservato”, appunto) e gnostico (dal greco gnósis, “conoscenza”) ha sempre affascinato menti brillanti e curiose.

Ma qual è la portata del sostrato esoterico, gnostico e iniziatico dell’insegnamento massonico, sulla letteratura italiana? Un documento, un triangolo di carta ricavato da un foglio a righe, acquistato nel giugno del 2007 dal Grande Oriente d’Italia nell’asta romana della Casa Bloomsbury, con le risposte autografe di Pascoli, scandisce l’accesso alla Massoneria del celebre scrittore italiano attraverso tre domande rituali. “Che cosa deve l’uomo alla Patria?”, cui Pascoli rispose “La vita” “Quali sono i doveri dell’Uomo verso l’Umanita’?”, cui scrittore rispose “D’amarla”. E infine: “Quali sono i doveri dell’Uomo verso se stesso?”, cui rispose “Di rispettarsi”.

Giovanni Pascoli (1855-1912), dunque è un autore, un maestro di letteratura da riscoprire, ascoltare la voce di un autentico maestro di letteratura, il cui pensiero fa ancora strada.

Figura illuminante nella prospettiva della ricerca iniziatica in letteratura, Giovanni Pascoli, dunque, fu l’uomo, il poeta, il letterato, il docente e – ultimo, ma con un’eco molto più ampia, rispetto a quanto si potrebbe pensare – l’iniziato all’istituzione massonica.

Egli ricevette l’iniziazione il 22 Aprile del 1882, nella Loggia “Rizzoli” di Bologna. Sia chiarito immediatamente che, appena tre anni dopo, la Loggia terminò definitivamente i lavori, ed il poeta non rinnovò l’iscrizione altrove. Inoltre, la maturità e la vecchiaia segnarono, per il poeta, un ritorno alla fede cattolica:

 «Voglio dietro alla mia bara un fraticello francescano, oppure un bambino colla Croce, simboli della vera fede». (G. Pascoli, in vecchiaia, alludendo al suo funerale, come ricorda P. Mariani in La penna e il compasso).

L’iniziazione, però, segnò per Giovanni Pascoli un punto di non ritorno. Se la sua poesia, infatti, è pregna anche di elementi esoterici, la sua prosa mostra una visione dell’Uomo e della storia che possono essere accostate, non a torto, alla Tradizione massonica. Su quel piano poetico derivato dal Fanciullino, Pascoli rappresenta la poesia come unità contro il male (che è divisione), e come unico fattore in grado di restituire all’Uomo una piena coscienza di sé. La sua fu una romantica ricerca classica dei miti (ricerca totalmente antitetica al cristianesimo) che lo proiettò verso un anacronistico ritorno al primitivo, come si evince, exempli gratia, dall’ode Ad Antonio Fratti: “Ciò fu ai tempi che ai monti / stridevano ancor le Chimere“. Ed ancora, sempre nell’ode al garibaldino, avvertendo la nostalgia di quei tempi che, da Sparta, erano giunti ad un presente di rimpianti, difronte allo scetticismo moderno:

“Altri tempi, altri tempi che prischi

Chiama lo stanco sorriso

Nostro!”.

Potente, dunque, la tensione alla straordinarietà del principio, del primitivo, di quel passato di pace seguito da dissapori e guerre; fattori lontani anche da quegli ideali, certamente anche massonici, di Unione e Fratellanza.

 

Exit mobile version