‘Euforia’: l’ellittico film di Valeria Golino che parla della lotta alla sopravvivenza

Alla seconda prova dietro la macchina da presa (cinque anni dopo “Miele”), Valeria Golino si conferma dotata di una mano ferma e intensa nonché, com’è in fondo logico, assai sensibile e inclusiva nel rapporto con gli interpreti. “Euforia”, in effetti, è un film fragile e sommesso e limitandosi a soppesarne la trama anche un po’ scontato, ma il limite complessivo può tramutarsi in pregio qualora serva a fare convergere tutta la luce emotiva sull’ammirevole duetto dei protagonisti.

L’accuratezza della forma non risulta, dunque, fine a se stessa e l’alternarsi virtuosistico delle connessioni narrative e delle conseguenti soluzioni di ripresa riesce a lungo, per così dire, a “respirare” all’unisono con il groviglio di segreti, bugie, psicologie e sentimenti che costituiscono il background del film e rischierebbero –in caso d’esposizione didascalica- quella sindrome di soffocamento così frequente nel cinema italiano cosiddetto d’autore. Il problema che impedisce a “Euforia” di volare più in alto di quanto riesca a fare sta nella sceneggiatura, sia pure cofirmata con le affiatate Francesca Marciano e Valia Santella, che mira a un giusto dosaggio di tragedia e commedia, ma poi –anche a causa del fallimento degli inserti ispirati ai provocatori romanzi di Walter Siti- si ritrova decisamente sbilanciata sul primo versante.

Senza volere allarmare gli spettatori, ai quali, invece, il film può essere raccomandato, è giusto mettere in chiaro che il tema che aleggia dall’inizio alla fine è quello della morte, esplorata, come riusciva benissimo a Zurlini, non tanto nell’acme dolorosa quanto attraverso i profondi strappi che essa comporta nel microcosmo degli affetti più coinvolti.

Euforia: trama e contenuti del film

Non potrebbero essere più diversi Matteo (Scamarcio) e il fratello maggiore Ettore (Mastandrea): il primo bisessuale, iperattivo grazie anche alla coca, imprenditore d’arte goduriosamente insediato nel centro storico di Roma; il secondo anonimo insegnante di liceo rimasto nella casa di provincia con la vecchia madre, lasciato dalla moglie e non abbastanza rincuorato dal rapporto con l’amante. Le schermaglie tra i due, che permettono sia a Scamarcio che a Mastandrea di giganteggiare senza scadere nella gigioneria modello commedia all’italiana, letteralmente esplodono, s’espandono, si solidificano, erodono, trasformano corpo e anima di entrambi come il brutto male che viene diagnosticato proprio al più appartato e meno vitalistico.

La Golino, come premesso, è convincente soprattutto quando distribuisce le sensazioni tra le righe –come se ricorresse a un ingrediente a rilascio prolungato- sfruttando al meglio l’arma stilistica dell’ellissi, un’opzione non semplice che fortunatamente le permette di allontanare per gran parte dello svolgimento l’incombente sovrapposizione del melodramma sul dramma, del poeticismo sulla poesia. Va anche apprezzato, in quest’ottica, l’uso a doppio senso del sostantivo che dà il titolo al film: un’euforia, appunto, che sembra funzionare come messaggio di speranza e lotta per la sopravvivenza, ma che forse è solo quella artificialmente prodotta dalle medicine prescritte al malcapitato Ettore.

 

Euforia

‘The Place’ di Paolo Genovese: l’etica individuale e i limiti degli impulsi umani

In casi consimili c’è sempre il rischio che il lettore voglia andare per le spicce: ti è piaciuto sì o no? Per rispetto a questa tutt’altro che spregevole esigenza ecco il parere per coloro che hanno fretta: The Place è un film da vedere perché costringe a sconfinare dai percorsi più usurati del cinema italiano congegnando una storia e una chiave narrativa avvincenti sia pure non del tutto riuscite. Paolo Genovese, del resto, dopo il meritato exploit internazionale di Perfetti sconosciuti aveva la chance di non doversi riciclare a tutti i costi e da professionista intelligente qual è si è dedicato in coppia con Isabella Aguilar a ricavare una sceneggiatura dalla miniserie tv americana del 2010 The Booth at the End: poco conosciuto da noi il plot di Christopher Kubasik si basa su un’architettura pessimistica e funesta, però venata da tonalità metafisiche e metaforiche che sembravano estranee alle sue propensioni.

Un punto di vantaggio, quindi, per il cinquantunenne regista romano che non ha paura di proporre un’esperienza di non scontato gradimento, considerato che il film procede in bilico su una suspense irrazionale, ipnotica, scabrosa e in ogni caso disturbante: The Place è, infatti, il nome di un bar all’americana (a proposito del quale citare i quadri di Hopper diventa quasi un test d’accesso) dove siede tutto il giorno a un tavolino l’uomo enigmatico interpretato da Mastandrea che riceve uomini e donne di varie età e diversi ceti speranzosi d’ottenere la possibilità di soddisfare i propri impellenti e spesso indecenti desideri.

Un campionario di personaggi che non esitano a mostrare di quanto odio, solitudine, contorsioni mentali e paure estenuanti si nutra la nostra condizione di esseri sociali in The Place: Genovese punta forte, così, sul nugolo d’interpreti (spesso convincenti e credibili come Marchioni, Papaleo, Giallini) i cui patti di volta in volta stipulati col novello Mefistofele ne prevedono il soddisfacimento in cambio di prove non solo scellerate, quanto assurdamente gratuite. L’ambizione è senz’altro temeraria perché non era facile mantenere l’attenzione a colpi di primi piani e fitti dialoghi condannati a un’unica ambientazione, ma forse proprio per questo la regia –una volta azionato il meccanismo del racconto e modulato quello della colonna sonora composta da Maurizio Filardo- tende a ripiegare su se stessa appoggiandosi a un intreccio di situazioni che rendono lo spettatore via via più freddo rispetto alle crudeli vicende a causa della persistenza di una vaga retorica di fondo. Si capisce, certo, che Genovese vuole ipotizzare, in barba al determinismo buonista e ai tic del politicamente corretto, che possiamo sempre usufruire del libero arbitrio e che le “seconde soluzioni”, ancorché più dolorose e impervie, possono risultare ben più nobili di quelle viscerali e perentorie. Ma il ricorrente discorso odierno sull’etica individuale e i limiti più o meno invalicabili da porre agli impulsi primari sembra conformarsi al the end in un gioco di specchi più abile che davvero provocatorio.

 

Fonte:

The Place

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