‘Pinocchio’ di Matteo Garrone: tra realismo popolare e gotico

Un Pinocchio che lotta contro la propria riconoscibilità universale, che vuole smarcarsi dal peso di un archivio monumentale. Un film di grandioso impatto figurativo e visionario che rischia per questo di mitigare la capacità di emozionare.

Il film di un maestro, tuttavia, perché pochi registi come Garrone saprebbero sorreggere l’equilibrio tra una prima parte di tono realistico popolare e la seconda improntata al gusto esoterico-mostruoso del romanzo gotico e nessuno di riuscire a presentare un Benigni contenutissimo, ligio al ruolo di Geppetto e con la debordante vena istrionica sostituita da un’umanissima e scompigliata naiveté da poverocristo finto padre.

Rimarchevole è, in questo senso, la differenza di stile tra il lungo prologo dai cui primi piani e dettagli sembrano propagarsi in sala le luci, gli odori, i suoni di un’età e una società arcaiche, rozze, sporche e tribolate e la corsa verso sottofinali e finale caratterizzata, invece, da campi lunghi o volute labirintiche. Un’altra scelta sacrilega, ma –fatti salvi i gusti individuali degli spettatori- sostanzialmente riuscita è quella di avere abbandonato l’iconografia classica del presepe collodiano dei prati e vigneti, pievi e borghi dell’entroterra toscano in favore di scenari pugliesi tutti ulivi, masserie e castelli semidiroccati stagliati su marine evocanti rotte orientaleggianti.

A una prima visione, il film sembra un po’ carente di una qualità di non poco conto e cioè della capacità di commuovere, turbare, appassionare. Non di stupire o di scioccare, sia chiaro, perché la resa spettacolare garantita dalla fotografia, il montaggio, le scenografie, i costumi, i designer e gli effetti visivi resta costante; senza dimenticare che accanto a Benigni e all’inquietante faccia di legno del Pinocchio nient’affatto accattivante del piccolo Ielapi molti degli attori –in primis il Gatto e la Volpe Papaleo e Ceccherini, la Timo governante lumaca, il Corvo e la Civetta dei fratelli Gallo, il perfetto grillo parlante dell’ex “Ciribiribi Kodak” Marotta, il giudice-scimmia Celio- si dimostrano all’altezza delle strepitose maschere che ne esasperano le indoli e deformano i connotati.

Lo slancio trasgressivo del Garrone lo si può trovare, in ogni caso, in passaggi e soluzioni di primaria importanza: l’attacco, più aggiornato rispetto a quello delle infinite versioni precedenti del romanzo, alla pedagogia scolastica ultra-permissiva (montessoriana?) e alla magistratura per nulla all’altezza della sua conclamata missione d’imparzialità; l’accentuazione in senso horror degli episodi degli assassini e l’impiccagione di Pinocchio o la spaventosa mutazione degli scapestrati monelli in asini; la normalizzazione operata dalla fatina sull’istinto ribelle del burattino che diventerà giudizioso forse in senso conformista e piccoloborghese.

E’ come se il regista romano avesse conservato per se stesso, per il proprio ruolo nascosto tra le quinte teatrali dell’allestimento quello che, per esempio, ha tolto stranamente al personaggio più eversivo della compagnia, il Lucignolo che non ha particolare rilievo nell’economia drammaturgica del film.

Il romanzo di formazione deve recuperare, così, quasi nel sottotesto del percorso puramente estetico il suo portato di “conoscenza amara, crudele e senza luce della realtà” a suo tempo segnalato da una celebre lettura di Pietro Citati.

Laico e profano in superficie, il film riserva la sua ultima sorpresa nella conclusione che rispetta il climax diventato ormai archetipico della fiaba, ma fa trapelare alquanto coraggiosamente la metafora cristiana della meccanicità della persona illuminata dall’aspirazione a dotarsi di un’anima. La fatina come operatrice del Mistero Mariano, insomma, che presiede alla ri-nascita del bambino sacro in simbiosi con un padre (Geppetto-Giuseppe) vecchio e infecondo col quale, ovviamente, non si è mai unita.

 

Fonte:

Pinocchio

Matteo Garrone, regista di ‘Dogman’: nel mio film niente localismi di comodo

Matteo Garrone, sublime pittore di anime, non colleziona interpretazioni del mondo, bensì l’esplora e l’investiga nei recessi più oscuri correndo il rischio temuto da Nietzsche: “E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”. Stretto alla città di Napoli da legami profondi (napoletana è la ex compagna Nunzia madre del figlio Nicola) e all’enclave di Castelvolturno da vincoli artistici altrettanto forti, Garrone e il protagonista di “Dogman” Marcello Fonte domani saluteranno il pubblico del Metropolitan alle 20,30 e quello del Bristol Pinetamare del Villaggio Coppola alle 23.15.

 

Al di là della retorica d’occasione, è escluso che si tratti d’incontri promozionali qualsiasi.

“Ma certo. Napoli è una città che mi affascina per lo straordinario vitalismo e la forza espressiva della sua gente già cara a Pasolini e Fellini, ma che nel contempo sfida a non perdersi nelle sue infinite sollecitazioni. Ed è uno stimolo artistico impareggiabile quello di cercare di mettere ordine in questo caos energetico, d’individuare ogni volta una linea figurativa in sintonia con la storia che sto raccontando. Castelvolturno, poi, è per me un luogo magico… sento che in qualche modo mi vuole bene e resto sbalordito quando anche il tempo sembra accordarsi ai miei desideri. Al momento di girare la sequenza del tosacani che esce dal carcere, per esempio, la luminosità dei giorni precedenti s’è mutata all’improvviso in una sinfonia di grigi e il sopraggiungere di un temporale ha reso pressoché naturale il passaggio da aperto e allegro a chiuso e cupo dello stato d’animo del protagonista. Un feeling totale che ha fatto anche in modo che le riprese si concludessero poco dopo 6 settimane anziché nelle 8 previste”.

Però Napoli e il funesto dibattito sull’immagine “sporcata” dai film gomorriani stavolta per fortuna non c’entrano.

“Ah no, di Napoli, come di Roma dove si svolse l’abominio del canaro, in Dogman c’è solo un sentore lontano. Niente localismi di comodo, qui trionfa un non-luogo che diventa vero in quanto riflessione sulle paure, le difficoltà delle reazioni umane, le scelte che si rivelano sbagliate o meglio ancora sul ritrovarsi imprigionato in un meccanismo a cui si era estranei. Quello di una violenza che circola nell’aria, viene assorbita a poco a poco e infine inevitabilmente deflagra scioccando persino i cani feroci chiusi in gabbia”.

Un approccio da western di frontiera o, se preferisci, da favola nera alla Basile.

“Proprio così. Il mio Marcello non ha più niente a che fare con la cronaca di una vecchia barbarie. L’ho ripetuto in modi che saranno sembrati autistici a tanti tuoi colleghi: insieme a Chiti e Gaudioso abbiamo ridisegnato ex novo tutti i personaggi e il canaro è diventato ai nostri occhi e spero anche a quelli del pubblico una sorta di moderno Buster Keaton, un mimo del cinema muto. Per intenderci ho usato un linguaggio comunicativo diverso da quello delle narrazioni televisive di Franca Leosini, che pure come te conosco e ammiro. Del resto la mia formazione è pittorica e al massimo posso aggiungerci l’influenza del tennis a cui ho a lungo creduto di dedicare vita e carriera: alludo alla componente agonistica, la cui dinamica in fondo si ricrea spesso sul set”.

Respingi, insomma, le affinità con “Cane di paglia”.

“Adoro quel film, ma per “Dogman” ho sempre previsto uno sviluppo opposto e forse proprio per questo ho tenuto a bagnomaria per dodici anni l’idea di trasporre il fattaccio. Qualcuno ha evocato, sbagliando, anche Un borghese piccolo piccolo ma io sono, invece, molto geloso e felice dell’idea che sono riuscito a concentrare nella realizzazione del film. Il cui pathos sta soprattutto negli sforzi fatti da Marcello per resistere al male, per non farsi contagiare dalla violenza, per gestire l’insano rapporto col bestiale Simoncino, per essere amato dalla sia pure degradata comunità in cui sopravvive; tanto che persino nel momento della tremenda catarsi tenta di curare il suo persecutore ferito a morte e s’illude che le cose possano tornare come prima fuoriuscendo dal meccanismo difensivo che ha stritolato la sua mitezza. Qui la chiave potrebbe semmai stare nelle Memorie del sottosuolo e nella sottile fascinazione per il più forte che Dostoevskij sa insinuare nella sua geniale mappa umana”.

 

Intervista a Matteo Garrone

‘Dogman’, il noir di Matteo Garrone che parla di morte e di angoscia

L’oscura pulsazione di un non-luogo dove le persone possono al più sopravvivere. Edifici che sembrano disabitati anche quando non lo sono, strade sterrate, spiagge luride, luci che brillano solo all’alba, locali come buchi aperti sul nulla, recinti e muri scrostati, un mondo di discarica, una latrina da cui non è possibile tirarsi fuori. Dogman, il film di Matteo Garrone non è un sado-thriller qualunque o un report di cronaca nera dalle venature splatter, né tantomeno un saggio autoriale improntato a una morale consolatoria oppure (fa lo stesso) sociologica: Dogman è un racconto di morte che ha per protagonista il male, quello che contagia, ammala, fa diventare i buoni cattivi e viceversa, si trasforma fatalmente in vendetta e sembra non avere senso finché non ne acquista uno nella logica della narrazione.

Dogman inizia con il ringhio di un pitbull da combattimento ed il terrore speculare degli altri cani chiusi dentro le gabbie del negozio, enucleando così quelle dinamiche di sopraffazione e sottomissione che sono la regola di vita del quartiere. L’ombra di Simone si staglia gigantesca dietro la porta a vetri del canaro, proiezione gonfia di una paura atavica che con il tempo ha dominato gli animi della gente perbene, non soltanto nei quartieri periferici.

E lo sguardo smarrito di Marcello in riva al mare, dopo l’ennesima prepotenza subìta, è quello di un Paese che ha preso consapevolezza del proprio status di vittima, e che “tutto questo non lo accetterà più”. Ma invece di raccontare un’incazzatura alla Quinto potere, o la vendetta efferata e grottesca in cui le cronache hanno abbondantemente sguazzato, Garrone descrive una quieta rivalsa del tutto priva della valenza pulp che ha reso archetipale, e protagonista di uno storytelling ante litteram, il vero Canaro.Garrone, grande pittore di anime, assume ancora una volta come base del suo cinema lo stupore di fronte all’orrore e sembra stavolta procedere in sintonia con le tesi di Salvatore Natoli esposte nel saggio L’animo degli offesi e il contagio del male: <<Certo, il male è pervasivo, ma chi lo compie ne è responsabile e non solo di quello che fa, ma –peggio- delle conseguenze… Ogni atteggiamento reattivo replica il misfatto, non lo riscatta>>. Il noir, che dell’atroce caso del “canaro della Magliana” riprende solo i dati principali, è sorretto dalla straordinaria resa del neoattore Marcello Fonte che s’immedesima nel brutto, fragile, miserabile eppure mite protagonista, confinato nelle brutture della periferia con l’unica consolazione dell’amore per la figlia e per i cani. Dogman, tuttavia, non insiste molto sulla trama perché la stessa è disseminata in decine di minimi, accuratissimi tocchi, nell’alternanza di campi lunghi e primi piani, nella fotografia che trova inquadrature assomiglianti a quadri di un Hopper post-atomico, nei flussi di cocaina che scandiscono il tragico rapporto di Marcello col brutale ed erculeo malavitoso Simoncino trasformatosi in persecutore personale.

Quello di Garrone è un cinema tridimensionale, dove i personaggi prendono corpo e saltano fuori dallo schermo per accompagnarti fino a casa, lasciandoti addosso un’angoscia straziante, come in Gomorra e in Reality, sono più veri degli uomini della cronaca cui si ispirano, perché hanno il carattere dell’universalità.

La sensazione d’angoscia di Dogman si fa di sequenza in sequenza più palpabile componendo un crescendo di sopraffazione che rende Marcello libero solo quando s’immerge in tenuta da sub con la figlia nelle profondità del mare, favorendo in questo modo il dispiegarsi di una vera e propria sinfonia della paura, la stessa che può intravedersi negli insondabili abissi dei comportamenti animali. L’uggiolio del cagnetto si trasforma nel ringhio spaventoso del pitbull da combattimento quando scatterà la trappola messa in atto da Marcello illuso di liberare una buona volta non solo se stesso, ma anche il quartiere, la città, il mondo dall’odioso stupratore. Il sentimento finale, riservato a spettatori dal cuore forte, trascende così l’atto criminale per incarnarsi nella più agghiacciante metafora cristologica che si possa immaginare.

 

 

 

Fonte:

Dogman

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