‘The Stonemason’, capolavoro di McCarthy non ancora tradotto: tra Bibbia, Faulkner e la tragedia greca di Eschilo

Cormac McCarthy è tra i grandi narratori viventi; nella sonorità linguistica che fa falò della fascina delle ossa, Meridiano di sangue sta tra i libri titanici di sempre. In ogni caso, da qualsiasi lato pigliate McCarthy, cascate bene. I suoi libri trascinano nell’al di là della narrativa, nel luogo degli interrogativi micidiali. Non si leggono: obbligano a una scelta – persino a una responsabilità che riguarda il nostro stare al mondo.

 

L’anno scorso, in un vasto articolo che battezza l’irritante sbadataggine – diciamo così – della grande editoria italiana – prona a ciò che potrebbe piacere al lettore, preso per cretino, alimentando le classiste classifiche, più che alla grandezza in sé – Alessandro Gnocchi ha ribadito che di Cormac McCarthy, che crea nel vortice della rovina, c’è tutto. Tranne un testo. Il testo s’intitola The Stonemason, è stato pubblicato nel 1994, gli esperti lo dicono “un notevole fallimento”.

The Stonemason è centrato sulla figura di Ben Telfair, nero, poco più che trentenne, al contempo narratore e attore del dramma. Siamo negli anni Settanta, a Louisville, Kentucky; Ben abbandona gli studi universitari in psicologia per perpetuare la tradizione di famiglia. Di mestiere, i suoi sono scalpellini, tagliatori di pietre. Il totem della famiglia Telfair è nonno Papaw, che incarna i valori dell’onestà, della rettitudine, della fede. Ben è lì che vorrebbe radicarsi, ma il mondo lo morde e lacera la famiglia. La sorella più grande di Ben, Carlotta, vive un matrimonio devastato: il figlio di lei, quindicenne, è un perduto, richiamato dalla dissipazione, dalla droga. La moglie di Ben, Maven, sogna il riscatto sociale, è bella, vuole diventare avvocato. Il padre di Ben, travolto da un tracollo finanziario, si uccide.

The Stonemason non è un play canonico. L’andamento è biblico, da libro dei re (e dei dannati). I monologhi di Ben – ad alta elettricità linguistica – interrompono spesso il dramma. Ben fa le funzioni del coro nella tragedia greca: qui sembra che Eschilo abbia i jeans, che sia passato dalla luce greca all’arcaica desolazione americana. Dietro Cormac McCarthy c’è l’esempio faulkneriano di Requiem for a Nun – straordinaria fusione di prosa e brandelli teatrali – e dei lati sinistri del teatro elisabettiano, John Webster.

 

Davide Brullo

Cormac McCarthy: quella grande faglia tra le spietate leggi della natura e della civiltà

La forma della strada è la strada stessa. Non c’è altra strada che possegga quella forma, al di fuori di quella. E ogni viaggio iniziato su di essa verrà portato a termine. Che si trovino o meno i cavalli. (cit. Oltre il confine di McCarthy).

Le opere di Cormac McCarthy sono oggetti che ti riportano lontano…molto lontano. Puoi sentire l’odore dell’America profonda, quella dei Faulkner, degli Hemingway dei quali il narratore del New England è l’ultimo grande esponente, sia per stile narrativo che per tematiche. Non a caso McCarthy è stato definito dal grande critico letterario Harold Bloom uno dei “magnifici quattro” della narrativa d’oltreoceano -e gli altri si chiamano Philip Roth, Don DeLillo, Thomas Pynchon; romanzieri con una loro precisa peculiarità e che si avvicinano per avere riflesso spaccati diversi del mondo a stelle e strisce.

L’esordio letterario per lo scrittore di Providence avviene nel 1965 con Il guardiano del frutteto, un romanzo misterioso, di lettura assai complessa, colmo di descrizioni e di rassegnazione dove si delinea fin da subito la faglia, larga, enorme, preistorica tra le leggi spietate della natura e quelle dell’uomo e della civiltà che invano cerca di sottrarsene. La struttura del racconto anticipa già alcuni dei temi portanti dell’opera successiva: le vicende di tre figure umane molto diverse fra loro che quasi per destino si incrociano in un luogo sperduto di un’America che non esiste più se non in un tempo che è rintracciabile solo nelle descrizioni. Siamo a cavallo tra i due conflitti mondiali, nell’era del proibizionismo e della prima grande crisi economica ed esistenziale dell’uomo moderno. Le tre figure chiave- un contrabbandiere, un giovane cacciatore orfano di padre e un eremita dei boschi- sono accomunate da un cadavere sepolto in un frutteto. I tre personaggi rappresentano uomini che non saranno mai eroi e- quasi a farlo apposta- il rapporto padre-figlio tra il contrabbandiere Marion e il giovane John anticipa prepotentemente quello che sarà un topos di tutta l’opera di McCarthy, fino al futuristico e apocalittico La strada libro ultimo, edito nel 2006.

Il secondo romanzo dell’autore Outer dark (il buio fuori) ripercorre altri topos della letteratura classica: dalle Sacre Scritture fino al Re Lear di Shakespeare. Tutto parte da un incesto, da un abbandono, da un complesso di colpa che porterà un uomo e una donna a vagare attraverso le montagne degli Appalachi alla ricerca di un bambino: ancora la trinità, ancora l’insensato viaggio verso un approdo che alla fine darà l’insensatezza di un pellegrinaggio che non riuscirà a trasmutare alcuna delle tre figure neppure quando riusciranno a incontrarsi. La poetica di McCarthy trova il suo massimo fulgore tra gli anni ’70 e ’90, quando verranno pubblicati Suttree, che ha per protagonista un novello Huckleberry Finn, il suo quarto romanzo semi-autobiografico -da molta critica considerato il suo capolavoro- e i tre libri denominati sotto il titolo della Trilogia della Frontiera (Cavalli Selvaggi, Oltre il confine e Città della Pianura). I protagonisti di queste storie rappresentano sfaccettature molteplici, ambigue, dove è difficile per il lettore trovare un’immediata identificazione in ciò che fanno e per come agiscono. Probabilmente è l’autore stesso che in modo inconscio mette qualcosa di sé stesso, in tutti i caratteri di queste vicende tentando di incarnare l’epopea sperduta e selvaggia, quanto suggestiva del cowboy visto però come disadattato nei confronti di un mondo che accelera sempre di più verso un progresso vacuo di valori e affollato di figli che hanno perduto il loro dio, il loro padre, e non da ultimo i loro esempi. E questo disadattamento si riproduce molto spesso nella dialettica con una natura esatta, perfetta, ispirata da un’entità altra rispetto a quella che vigila le turbolenze degli uomini. L’ispezione di questo rapporto ha anche fugaci pennellate di positività, come il legame che si instaura -in Oltre il confine– tra il giovane Billy, figlio di un allevatore autoritario, e una lupa appena catturata, la quale anziché essere consegnata al padre verrà riportata al confine con il Messico. Un confine sempre più labile tra il mondo umano e quello animale, ma collimato da un lungo viaggio e da una storia d’amore tra due mondi in apparenza così distanti.

Un’ulteriore evoluzione, McCarthy la dimostra anche nelle sue ultime opere, quelle della maturità. Non è un paese per vecchi, è stato inizialmente pensato per una sceneggiatura cinematografica che in seguito sarà portata a termine, grazie alla trasposizione fatta dai fratelli Coen nell’omonimo film del 2008, premiato dall’Academy con 4 premi Oscar. Non è un paese per vecchi prosegue lungo la linea sottile della frontiera e questa volta lo fa ridisegnando un genere popolare come quello del thriller; in questo caso l’ambientazione è il Texas dei primi anni ’80. Ad incrociarsi sono i destini di tre figure. Il primo, Llewelyn Moss sta fuggendo con una borsa piena di soldi e di speranza, gli altri due lo inseguono. Anche in questo caso la frontiera è al tempo stesso un luogo di viaggio e di continui inseguimenti dove in un climax sempre più drammatico, McCarthy ci porta nel vero cuore di tenebra di ogni essere umano e nel lato oscuro dell’american dream. E’ la violenza che muove il mondo: dignità e onore spesso soccombono. La penna dello scrittore non da risalto a giudizi troppo espliciti, quasi sempre si limita ad osservare intrecciando la diversa vitalità di un reduce della guerra del Vietnam, di un killer dalla filosofia spietata e di uno sceriffo che annota i propri sogni sul suo diario. Tema ricorrente del grande scrittore è anche quello relativo a Dio, alla sua esistenza:

“E poi cosa succede?
Quando?
Una volta morto?
Niente succede. Sei morto.
Tempo fa mi hai detto che credevi in Dio.
Il vecchio agitò una mano. Può darsi, disse. Ma non vedo perché lui dovrebbe credere in me. Oh, mi piacerebbe parlarci un attimo, se potessi.
Che cosa gli diresti?
Be’, credo che gli direi semplicemente, direi: Aspetta un secondo. Aspetta un secondo prima di darmi addosso. Prima che tu apra bocca vorrei solo sapere una cosa. E lui direbbe: Che cosa? E allora io gli chiedo: Si può sapere perché mi hai messo in mezzo in questa partita a dadi quaggiù? Non ci ho mai capito un accidente.
Suttree sorrise. E lui cosa credi che dirà?
Il cenciaiolo sputò e si asciugò la bocca. Non credo che possa rispondere, disse. Non credo che ci sia una risposta.” (Da Suttree)

Forse però è proprio con il suo ultimo romanzo La strada, vincitore del Premio Pulitzer, che McCarthy dà il meglio di sé, colpendo forte, catapultandoci in uno scenario post-apocalittico e componendo una storia basata su un unico rapporto a due persone e disegnando uno scenario completamente diverso rispetto a quello dei suoi libri precedenti. In questo caso non siamo più nel passato, ma in un futuro di ceneri (probabilmente dopo una catastrofe nucleare) dove un uomo e un bambino viaggiano insieme, dirigendosi verso il mare. Con loro il fuoco e il ricordo di una donna. E ancora una volta la strada, quella linea di confine che va necessariamente esplorata anche se non porta da nessuna parte perché: «Se ne sono andati tutti, ormai. Scappati, banditi nella morte o nell’esilio, perduti, rovinati. Sole e vento percorrono ancora quella terra, per bruciare e scuotere gli alberi, l’erba. Di quella gente non rimane alcuna incarnazione, alcun discendente, alcuna traccia. Sulle labbra della stirpe estranea che ora risiede in quei luoghi, i loro nomi sono mito, leggenda, polvere». Ma vale comunque la pena di tentare, di continuare a camminare come se si avesse tutto il tempo di questo mondo, di questo mondo nero, scuro, intriso di un’epica tragica che porta ogni uomo verso il suo destino eroso, svuotato e ineluttabile nel quale lo spirito di sopravvivenza molto spesso dipende dalla corporale consistenza del calibro di una pistola.

Potente, sobrio e asciutto, fecondo, McCarthy è uno dei più grandi scrittori del nostro tempo, che con la sua scrittura densa e corposa, legittima ogni cosa, dandole senso di stare al mondo, con i suoi personaggi sempre ai margini della società, in cerca di un qualche riscatto, in viaggio verso il mistero, per poi scoprire che c’è un umanità al di là della frontiera, fatta di povera gente che divide con te, anche quel poco che ha. Ma ci sono anche ladri di cavalli o assassini che vorrebbero portarti via quel poco che hai. Questa è la vita.

 

Fonte: l’intellettuale dissidente-homines-mccarthy

“Figlio di Dio”, l’essenzialità di Cormac McCarthy che rabbrividisce il lettore

Comarc McCarthy

“Nient’altro che un figlio di Dio come voi, forse” si legge nella prima pagina del romanzo “Figlio di Dio” (1974) del grande scrittore americano Cormac McCarthy. Una presentazione essenziale, scolpita nella pietra quella di Lester Ballard, uno dei tanti poveri bianchi  che popolano le catapecchie del Sud rurale e precisamente della contea di Sevier, nel Tennessee osteggiata dalla natura. Tuttavia gli abitanti sono abituati alla sua violenza, alle alluvioni, alle tempeste, agli animali da preda, cosi come lo sono alla miseria, all’incesto, alle pubbliche impiccagioni, alla breve comparsa di uno sceriffo o di una stanza d’ospedale, che sembrano essere la normalità, anzi quasi la regola.

Anche Lester Ballard è un “animale” che si aggira tra i boschi, un povero disadattato che diventa serial killer, violentatore, feticista, necrofilo; un uomo solo nei grandi spazi naturali che sembrano assecondare la sua bestialità. Ma il mondo che lo circonda non è meglio di lui, gli uomini con cui ha a che fare non sono meglio di lui, ma allora cosa ha di diverso rispetto a chi abusa delle proprie figlie, o degli sciacalli che approfittano delle alluvioni per fare razzie? Paradossalmente nulla, perché è un figlio di Dio anche Lester Ballard come afferma una delle tanti voci narranti che osservano commentano questo museo degli orrori con distacco.

Ballard pian piano scivola della pazzia ma proprio in questa pazzia lo scrittore vede qualcosa di straordinario, perfino di sublime: la capacità di resistere e poi di sfidare la natura e le sue avversità, e quindi sfidando anche Dio, prendendosi gioco di lui. Non potendo eliminare la natura malvagia intorno a sé, se ne nutre, come si nutre di cattivo whisky  di contrabbando e di improperi; la potenza della natura diventa un tutt’uno con la sua anima nera.

Sembra  essere  proprio  questa, l’unica via d’uscita  secondo Ballard  per sopravvivere  in una realtà sconfinata dove la legge è pressoché assente, dove vigono regole primitive, dove la gente deve già pensare a come difendersi dalle ostilità della natura, perde progressivamente ciò che ci rende uomini.

“Figlio di Dio” è un inno alla morte, dove non c’è né speranza né redenzione: il protagonista è un “Essere per la morte” per dirla alla Heidegger ma essendo consapevole, in un certo senso, di appartenere alla natura, lottando contro di essa e contro Chi la determina. Ed ecco che attraversa un torrente impetuoso senza saper nuotare con il suo immancabile fucile, curvo sotto il peso del materasso zuppo, ma riesce comunque a cavarsela. Passa un gelido inverno in una caverna, striscia nel fango, soffre la fame e la sete, dopo che la sua baracca ha preso fuoco. Emerge dal buio e sopravvive. Alle orecchie delle donne uccise sussurra tutto quello che non è mai riuscito a dire a nessuna, perché tutte lo hanno sempre respinto. Ballard si aggirerà per i boschi e per le montagne, vestito degli sgargianti abiti femminili delle sue vittime, con il volto dipinto, abominevole e disgustoso; e finalmente gli abitanti della contea realizzano che è il momento di agire.

“Figlio di Dio” è un “Silenzio degli Innocenti” ante litteram che rabbrividisce il lettore, con il suo stile crudo, solenne, secco, fatto di capitoli brevi,con descrizione dei luoghi dettagliata; una marcia funebre, una storia atavica e solitaria il cui senso di morte trafigge come un pugnale ogni singolo elemento naturale, senza autocompiacimenti e retorica.

Dopo “Il buio fuori”, “Meridiano di sangue”, “Cavalli selvaggi”, “Non è un paese per vecchi” (portato sugli schermi dai fratelli Cohen) e “La strada” che ha vinto il Premio Pulitzer nel 2007, Cormac McCarthy sorprende con Figlio di Dio, un altro capolavoro, il quale, nonostante la violenza, la sua crudezza, la mancanza di speranza, è capace di insospettate delicatezze; la storia è un pretesto per dire altro, come ha sempre fatto lo scrittore, mettendoci di fronte al male, alla perdita dei valori che rendono tale un essere umano, quasi volesse avvertirci, con un’opera cosi disturbante, di quello che rischiamo di diventare. E per capirlo bisogna leggere romanzi come questo che lasciano senza scampo, come la fine riservata a Ballard, giusta e logica.

La grandezza del romanzo sta, oltre che nel tipo di scrittura adottato, nel raccontare una storia tragica con un criminale che tutti avremmo giustamente disprezzato nella società in cui viviamo, ma conducendoci fino all’ultima pagina e quindi fino alla fine della vita del protagonista, rabbuiendoci, ma senza indignarci, perché Mc Carthy lo presenta già come uno sconfitto, un fallito ribelle, incapace di essere Uomo, all’interno di quella  macchina perfetta chiamata natura. Probabilmente, ciò rappresenterebbe, secondo l’autore americano, anche un fallimento sia dell’essere umano, che di Dio stesso. L’attore e regista James Franco ha tratto da “Figlio di Dio” l’omonimo film, in concorso a Venezia 2013.

 

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