L’estate è ai titoli di coda, e con essa tanti avvenimenti, più o meno curiosi, più o meno importanti in ogni campo sociale, economico, politico, scientifico, culturale e finanche sportivo. A seguito del campionato di calcio europeo che ha visto trionfare l’Italia dopo un digiuno di 53 anni e la splendida olimpiade di Tokyo 2020 – record di medaglie, con, tra gli altri, Tamberi, Jacobs e la staffetta 4×100 che hanno inciso a fuoco per sempre il nome del Belpaese nella storia – questi ultimi giorni e settimane ci hanno portato in dote i Giochi Paralimpici, che si svolgono tradizionalmente sempre dopo la fine dei Giochi Olimpici “tradizionali”.
Felice intuizione dei tempi recenti – a onor del vero una delle poche – i Giochi Paralimpici rappresentano l’equivalente dei Giochi Olimpici per atleti con disabilità fisiche e motorie. Nel 1960 sono nati quelli estivi, mentre nel 1976 si registra la prima edizione di quelli invernali, nel rispetto delle molteplicità degli sport e delle discipline riconosciute.
Sessanta anni fa, quindi, si è promossa la brillante e per certi versi rivoluzionaria idea di attribuire finalmente allo sport in generale quel carattere di universalità e inclusività da tutti sulla carta riconosciuto rispondendo a un tale semplice quesito: per quale motivo anche chi viene definito diversamente abile non può misurarsi in gare, Giochi e competizioni?
Questa domanda ha mosso fin da subito personalità e comitati organizzatori che hanno contribuito in modo decisivo alla nascita delle Paralimpiadi così come le conosciamo oggi; non sempre si è trattato di un percorso facile, non sempre si è trattato di un percorso privo di ostacoli e fraintendimenti.
Quello più aggrovigliato, perché più difficile da districare, è stato – ed è tutt’ora – quello legato ad una improbabile e poco proponibile competizione mediatica tra Giochi Olimpici e Giochi Paralimpici, su chi ha diritto a più visibilità rispetto a che cosa, sullo stabilire se la medaglia dell’atleta paralimpico sia da far risplendere di più rispetto a quella dell’atleta normodotato o viceversa. Mettere in competizione le due manifestazioni, significa non perseguire lo spirito con cui sono nate, oltre che voler livellare ad ogni costo trofei e medaglie, con parametri aprioristici e magari, vista la loro popolarità attraverso codici numeri e statistiche.
Le Paralimpiadi hanno la stessa dignità delle Olimpiadi, pur in condizioni e contesti diversi, non sono né da considerarsi inferiori, né superiori, magari sotto il mal celato velo di qualche atteggiamento di ipocrita compassione.
I giochi paralimpici rappresentano una risorsa in più, mostrabile a tutti, di cosa sono capaci di fare uomini e donne quando fiducia, passione, coraggio, intraprendenza, solidarietà, rispetto e spirito di sacrificio vengono a galla, in tutta la loro meravigliosa potenza e indipendentemente da qualsiasi condizione di partenza.
Ciò non significa, è evidente, che differenza e peculiarità non esistano e che siano da abbattere. Diversità e omogeneità sono due facce della stessa medaglia, due ricchezze non in contraddizione le une con le altre, nello sport come nella vita pubblica o politica: si deve amare la propria Patria come si rispetta e si riconosce la Patria altrui. Così nello sport: si ama il gesto atletico di Filippo Tortu che per un battito d’ali consegna all’atletica leggera italiana la medaglia più importante, allo stesso tempo della staffilata di Bebe Vio, che dopo Rio 2016 si ripete a Tokyo 2020 con un’impresa leggendaria.
A livello mediatico e comunicativo, tuttavia, le Paralimpiadi – è innegabile – pur con evidenti passi in avanti e miglioramenti, non hanno avuto le migliori fortune delle “classiche” olimpiadi: il livello di attenzione, seppur alto, è minore, curiosità e seguito non sono costanti come ci si potrebbe legittimamente aspettare. Colpa o demerito di tutti noi, video-telespettatori interessati.
Al netto dei nostri impegni imperanti, del nostro lavorare 40 (o 50?) ore settimanali per avere un mese all’anno di ferie e del poco tempo a disposizione per svagarci e allietarci, le Paralimpiadi ci mettono davanti ad una realtà che in tanti, troppi facciamo finta di non vedere.
In una società giunta al suo massimo stadio di edonismo e di narcisismo, in cui selfie e foto-ritocchi contano di più della sostanza dei rapporti interpersonali, oberata da un culto individuale fine a se stesso, le immagini degli atleti paralimpici ci infastidiscono, perché ci ricordano quanta sofferenza e quanta difficoltà esiste proprio lì, a due passi da noi.
E non è solo l’aspetto fisico, la disabilità, le menomazioni: riguarda anche fragilità e debolezze di cui ognuno di noi soffre. Guardare le gare di questi atleti ci dovrebbe spingere a vedere l’altro da sé come una forza viva, a renderlo mai fuori posto ma dentro il cerchio tracciato del vivere civile, anche a discapito di una vita tranquilla e priva di scossoni.
Basta poco. Un gesto, un saluto, un sorriso, qualcosa che dica di noi agli altri di più del nostro conto in banca o dell’ultima macchina sportiva che abbiamo festosamente comprato.
Le Paralimpiadi in definitiva interrogano la nostra coscienza, la nostra sensibilità, ci costringono a misurarci con una realtà considerata distante, per poi magari averla a due passi da casa senza accorgersene.
Dovrebbero insegnarci che non con grandi avventure in pompa magna, ma con gesti silenziosi e concreti si costruisce una società più equa, dove quando si intraprendono opere buone “la mano destra non deve sapere ciò che fa la sinistra” con limiti, doveri ed equilibri saldi e ben individuabili.