‘L’impero delle clessidre’, il fantasy medievale di Mario Attilieni

“L’impero delle clessidre” di Mario Attilieni è il primo volume di una trilogia fantasy, che proseguirà con le opere “La vendetta degli Unicorni” e “La Profezia dell’Autunno”. L’autore ha creato un mondo complesso e dalla geografia ben definita – che si può anche ammirare nella mappa contenuta nel libro – e ne ha raccontato con dovizia di particolari le storie e le leggende; sono inoltre presentate delle tematiche socio-politiche che rendono il romanzo interessante e anche molto attuale.

Questo mondo fantastico è chiamato Zimania, ed è diviso in quattro regioni: la Morgania, a est, la Gianubia, a sud, la Vasazia, a ovest, e l’isola di Ebania, a nord; l’autore descrive le varie terre, molto diverse le une dalle altre così come i loro abitanti, e offre anche una storia delle colonizzazioni a cui sono state soggette: si era infatti svolta nel passato un’aspra lotta tra i Sidi, dei temibili conquistatori, e gli Aesi, gli autoctoni, che si era poi evoluta in una progressiva e inevitabile mescolanza tra i due popoli e nella proclamazione a Imperatore di Oriam Kelys, chiamato Oriam il Grande.

«Dante ripensò a quanto fosse vero quello che qualcuno gli aveva detto anni addietro: “Il mestiere di scrittore è la cosa più simile a essere Dio”. Era vero: decidi chi nasce e chi muore, cosa accade a chi. I destini delle persone. Lo scrittore è creatore e distruttore al tempo stesso, demiurgo e assassino a sangue freddo. Forse l’unico modo per cercare di capire Dio è quello di scrivere un libro».

La vicenda, però, non è incentrata solamente sulle articolate dinamiche politiche che spesso gettano Zimania nel caos; la storia infatti ruota intorno all’avventura straordinaria di Dante e di suo figlio diciottenne Achille. I due vivono una vita tranquilla nel mondo reale finché non vengono letteralmente risucchiati nel libro scritto da Dante come regalo per la maggiore età del figlio: questo romanzo non è altri che la storia di formazione del giovane Oriam, e del suo lungo e prospero regno. Dante si rende subito conto di trovarsi nel mondo da lui inventato; scaltramente, decide di incarnare il personaggio di Dante Rivolta, che nel libro aveva descritto molto simile a lui. Dopo aver convinto il figlio della veridicità della loro assurda situazione, l’uomo cerca un modo per tornare nella loro realtà: comprende di doversi impadronire dell’antichissima magia che lui, nel suo romanzo, aveva collocato presso l’Isola Sacra. Il viaggio per conquistare questa magia ancestrale sarà arduo e pericoloso; sono infatti trascorsi otto anni dalla fine del suo libro, terminato con la morte di Oriam il Grande, ed egli, da narratore onnisciente qual era, conosce molto delle dinamiche e dei segreti di Zimania ma non tutto: la storia da lui creata si è infatti evoluta spontaneamente e indipendentemente dal suo volere.

In un romanzo ricco di azione e di inventiva si riflette sulle responsabilità e sui limiti della creazione letteraria, e si presenta una vicenda che promette avventure entusiasmanti tra storie d’amore, magia, creature fantastiche e violente lotte per il potere.

 

SINOSSI DELL’OPERA. In occasione del suo diciottesimo compleanno, Achille riceve un libro che suo padre Dante ha scritto per lui. All’improvviso, per magia, vengono catapultati all’interno del libro stesso, in un mondo immaginario e fantastico, popolato di dame e cavalieri, draghetti volanti, Giganti, Amazzoni, Unicorni e particolari creature elfiche, chiamate Linchetti. Un Continente suddiviso in quattro regni, governati da quattro cugini, sul piede di guerra gli uni contro gli altri per l’eredità del nonno, l’Imperatore Oriam Kelys.

 

BIOGRAFIA DELL’AUTORE. Mario Attilieni (Lucca, 1986) si laurea in Giurisprudenza e dal 2009 comincia la sua attività imprenditoriale nel settore delle calzature alla guida di una start up negli Stati Uniti; per il suo lavoro si divide tra Italia, Inghilterra e America. Nel 2004 vince il premio di poesia “Il Bonturo”.

 

Casa editrice: Libeccio Edizioni

Genere: Fantasy

Pagine: 272

 

Contatti

Instagram: Mario Attilieni (@marioattilieni); L’Impero delle Clessidre (@limpero_delle_clessidre)

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Cosa è stato davvero il Medioevo, oltre i luoghi comuni e l’ignoranza dei moderni

“Siamo rimasti nel Medioevo!”. E’ una frase comune, che ripetono quasi tutti, senza nemmeno pensarci. Eppure è sintomo di ignoranza, cioè di non conoscenza della storia. Lo ha spiegato la celebre storica francese Régine Pernoud, specialista del Medioevo: «Quando si dice “in quel campo si è rimasti ancora al Medio Evo” si e detto tutto! Come è possibile che si sia ancora legati, nella nostra epoca scientifica, a nozioni così semplicistiche e infantili su tutto ciò che riguarda il Medio Evo?».

E’ anche vero che «dalle scuole elementari all’università — quasi senza eccezioni — si testimonia sempre lo stesso disprezzo per l’insieme del millennio che va dal V al XV secolo. È lo stesso disprezzo che manifestano i media in tutta tranquillità. Giornali, televisione e, appunto, il cinema, presentano invariabilmente gli stessi schemi: ignoranza, tirannia, oscurantismo». Che il Medioevo sia sinonimo di oscurantismo lo hanno voluto far credere gli illuministi, gli intellettuali antireligiosi del XVII per affermare la supremazia della loro epoca. Ma nessuno storico sostiene più i “secoli bui”: «tutto ciò che ci resta dell’epoca, tutto è bello», ha spiegato la Pernoud. Ciò fa parte del tabù di una società che pretende rifiutare tutti i tabù. «Non se ne discute nemmeno più, si accettano allegramente enormi assurdità considerate come fatti acquisiti. È così, e non c’è bisogno di dimostrazione. Tutto questo i medievalisti lo sanno, ma si guardano bene dal ripeterlo: non sarebbe serio!».

Fortunatamente qualche storico che ha il coraggio di andare contro il pensiero dominante e mediatico c’è, uno di essi si chiama Jacques Le Goff, tra i più autorevoli studiosi viventi della storia e della sociologia del Medioevo (e profondamente agnostico). In questi giorni ha rilasciato un’intervista in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, in cui ha spiegato che «come dice il nome, il Medio Evo è stato sempre considerato come un periodo di passaggio, di transito tra l’Antichità e la Modernità, ma passaggio significa soprattutto sviluppo e progresso. Nel Medio Evo progressi straordinari ci sono stati in tutti i campi, con i mulini a vento e ad acqua, l’aratro di ferro, la rotazione delle culture da biennale a triennale. Ma non c’è nessuna rottura fondamentale tra Medioevo e Rinascimento, tra il 14esimo e il 17esimo secolo. Ci sono cambiamenti che non modificano in modo sostanziale la natura della vita dell’umanità. L’economia resta rurale, ciclicamente caratterizzata da carestie. Nonostante la rottura – importante – tra cristianesimo tradizionale e riformato, è sempre il cristianesimo a determinare una visione omogenea e religiosa di un’eternità definita da Dio».

Medioevo: origine del termine e periodizzazione

L’idea di Medioevo nasce con l’Umanesimo italiano, quando letterati e artisti individuarono nell’itinerario della civiltà tre fasi: l’antichità classica, l’età dell’imbarbarimento e decadenza seguita alla caduta dell’Impero romano., l’età nuova da essi inaugurata. Il termine fu coniato dall’umanista Blondus Flavius nel ‘400, per indicare tutto il periodo di mille anni intercorso tra la caduta dell’Impero Romano e l’Umanesimo. Certamente il termine Medioevo è ormai nell’uso e ci resterà, ma parlarne come di un periodo unico non ha più senso, sia che se ne parli in positivo che in negativo. Anche la periodizzazione in Alto e Basso Medioevo (prima e dopo il 1000) è già meglio, ma è ancora troppo sommaria. Il concetto di unicità del periodo aveva senso soltanto secondo la concezione negativa dei tempi in cui fu coniato il termine, quando lo si vedeva erroneamente (o piuttosto lo si presentava tendenziosamente) come un’eclissi totale della cultura classica.

Anche Alessandro Barbero, ordinario di Storia Medievale presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale, ha recentemente criticato a sua volta che «nel nostro immaginario è troppo forte il piacere di credere che in passato c’è stata un’epoca tenebrosa, ma che noi ne siamo usciti, e siamo migliori di quelli che vivevano allora». Ma ovviamente non è così, gli storici lo sanno mentre i liberi pensatori non riescono a separarsi dai loro dogmi.

Le donne del Medioevo

Uno dei misteri più grandi è stata la fuorviante trasformazione del termine “medievale” in aggettivo – cito il Dizionario Treccani – riferito a «concezioni e principî superati e retrogradi». Pare che dietro tutto questo vi sia lo zampino illuminista, ma vale la pena vederci chiaro.
Anche perché il vituperato Medioevo ci ha regalato arte, cattedrali, monasteri e cultura ancora oggi (anche economicamente, si pensi al turismo) fruttano patrimoni: non so se invece fra alcuni anni – ne dubito – qualcuno vorrà andare a farsi qualche giro, non solo se pagante ma neppure se pagato, in molti aborti firmati dalle nostre archistar; ma quanto scommettiamo che per quanto l’epoca medievale ha lasciato vi sarà ancora interesse? La stessa terrificante Inquisizione medievale, invocata come la vergogna della storia, tutto fu fuorché tale: l’apice delle caccia alle streghe si registrò nelle regioni germaniche protestanti più che in quelle cattoliche. Inoltre tutto fu, il Medioevo, fuorché ostile alla donna: i nomi di Matilde di Canossa, Eleonora d’Aquitania, Bianca di Castiglia, Ildegarda di Bingen  o Eleonora de Serra-Bas, giudice di Arborea dal 1383 al 1404, che promulgò la stesura definitiva della “Carta de Logu”, una raccolta di leggi ed ordinamenti giuridici che sono la prefigurazione del moderno stato di diritto, dicono nulla? Senza parlare delle cinture di castità, bufala totale: perfino al Museo d’arte medievale di Cluny a Parigi, per dire, fino a non moltissimi anni fa se ne poteva ammirare una che si credeva appartenuta alla regina di Francia Caterina de’ Medici: peccato che fosse una patacca.

Curiosa pure l’idea che esser medievali sia sinonimo di essere «retrogradi»: storici come Jean Gimpel, hanno parlato, per quell’epoca, d’una vera e propria rivoluzione industriale. Le stesse invenzioni non mancarono; pensiamo all’aratro meccanico, alla ferratura dei cavalli, al verricello, alla carrucola, alle staffe lunghe, all’arco rampante, alla volta a crociera, all’aggiogatura a spalla, al sapone, alla vite elicoidale, al bottone, al martinetto, allo specchio, agli occhiali, al prosciutto, allo champagne, al parmigiano e tanto altro. Quanto alla leggenda della terra creduta piatta, nel Medioevo circolava ampiamente – in latino – il Timeo di Platone, dove si parla di un «mondo in forma di globo, tondo come fatto da un tornio, con i suoi estremi in ogni direzione equidistanti dal centro, la più perfetta e la più simile a se stesso di tutte le figure…».

Tra ignoranza e falsi miti

Strano davvero, insomma, che il vituperato Medioevo fosse un’epoca così barbara e ignorante. Così barbara e ignorante, fra l’altro, da aver donato all’umanità gente come san Francesco d’Assisi – uno dei più significativi santi di tutti i tempi -, come san Tommaso d’Aquino – uno, se non il teologo più grande di tutti i tempi – e come Dante Alighieri, la cui Divina Commedia è un’opera talmente straordinaria che rivela un’intelligenza – dicevano intellettuali quali Federico Zeri (1921–1998) – incredibile, mostruosa, tale da fare quasi escludere che il Divin Poeta fosse un essere umano. L’era delle «concezioni e principî superati e retrogradi» è stata inoltre – alla faccia del suo presunto degrado – quella dei Comuni, delle libertà municipali, della Magna Charta.

Fa sorridere pure il collegamento fra il Medievo e l’odio contro le persone omosessuali: su Wikipedia, tempio della cultura 2.0, da un lato si ammette che nell’Alto Medioevo l’omosessualità era trattata come peccati come l’adulterio ed i rapporti prematrimoniali, dall’altro si dice che nel Basso Medioevo scattarono persecuzioni della quali, guarda caso, mancano però le fonti. In ogni caso, a proposito di omofobia, si fa bene a ricordare che ad incarcerare Oscar Wilde non furono né i medioevali e neppure i cattolici, bensì l’Inghilterra vittoriana. E potremmo continuare se il mistero di “medievale” come insulto non fosse già abbastanza fitto e ingiustificato. La sola vera colpa del Medioevo, in realtà, è una: essere stato cristiano. Profondamente cristiano. E questa proprio non gliela si può perdonare.

Usare l’ etichetta “medievale” per definire qualcosa come “retrogrado, superato” è solo un pregiudizio usato da persone che non hanno avuto solide basi nello studio della storia medievale, fermandosi solo alle quattro righe a riguardo che vengono impartite dai libri di liceo e che di superficialità non mancano. Nel corso dei miei studi liceali mi sono reso conto di quanti concetti troppo semplicistici e fuorvianti ci siano, soprattutto nella materia della storia, della letteratura e della filosofia.

I valori del Medioevo, culla della scienza moderna

Il medioevo non è solo superstizione e guerre, ma anche grandi valori di eroismo, di carità, di altruismo, di amore; è un periodo storico pieno di pathos, di ideali, di conflitti, ma anche di matematica, di geometria, di opere d’ arte irraggiungibili e di forte senso spirituale. Almeno non è un periodo dove ideologi umanisti congetturavano che ci fosse davvero un’ epoca di decadimento e di passaggio dalla gloriosa età classica (ancora più retrograda di quella medievale) a quella moderna, anche se già definire questo periodo storico come “medioevo” è un problema di base, in quanto ci sono tanti “medioevi” uno più complesso e diverso dell’ altro, cosa che non possono ancora capire i vari asini di questo studio e i vari sofisti televisivi anch’ essi asini a riguardo, ma che almeno hanno dalla loro parte l’ illusoria “aura di tuttologia” che ostentano davanti allo schermo, non avendo comunque studiato pressoché nulla all’ università riguardo al Medioevo.

Non dimentichiamo anche uomini di scienza, come Grosseteste, Buridano, Ockham, Oresme, Bessarione, Peuerbach, Bacone e tanti altri, sui cui lavori, senza soluzioni di continuo, si sono formati i piu’ noti ed osannati scienziati rinascimentali, come Copernico, Galileo, Leonardo, fino a Newton.

L’elemento centrale che caratterizza negativamente  il Medioevo è semmai la crisi del Sovrano. La macchina amministrativa dell’impero romano non era più in grado di assicurare la statualità. Molti funzionari imperiali si posero il problema di non disperdere il patrimonio di conoscenze accumulate , gli amanuensi che nei monasteri copiavano i libri sono l’esempio classico che ribalta i termini della critica al medioevo.

In “I filosofi di Dio”, lo studioso James Hannam sfata molti dei miti sul Medioevo, dimostrando che le persone medievali non pensavano che la terra fosse piatta, né Colombo dimostrò che era una sfera; l’Inquisizione non ha bruciato nessuno per la loro scienza, né Copernico ha paura della persecuzione; nessun Papa ha cercato di vietare la dissezione umana o il numero zero. “I filosofi di Dio” è una celebrazione delle conquiste scientifiche dimenticate del Medioevo – progressi che sono stati fatti spesso grazie, piuttosto che a dispetto, all’influenza del cristianesimo e dell’Islam. Progressi decisivi sono stati fatti anche nella tecnologia: gli occhiali e l’orologio meccanico, ad esempio, sono stati entrambi inventati nell’Europa del XIII secolo. Tracciando un viaggio epico attraverso sei secoli di storia, l’opera di Hannam che consgliamo caldamente a chi conosce l’inglese, visto che non è stata ancora tradotta in italiano, riporta alla luce le scoperte di geni trascurati come i già cutati John Buridan, Nicole Oresme e Thomas Bradwardine, oltre a mettere in campo il contributo di figure più familiari come Roger Bacon, William di Ockham e San Tommaso d’Aquino.

Vediamo anche come i calcolatori della Merton dell’Università di Oxford abbiano sviluppato il teorema della velocità media, che Galileo (senza dare credito) ha applicato agli oggetti che cadono in un campo gravitazionale uniforme. Oresme ha anche dimostrato questo teorema, da quella che si sarebbe chiamata geometria cartesiana secoli dopo. Galileo ha presentato una dimostrazione geometrica praticamente identica, senza credito.

Il capitolo secondo del saggio ha un titolo che considererebbe più incredibile e cioè “Il Papa matematico”. Sì. Il Papa era interessato alla matematica e lo studiava e questo spesso significava andare dai musulmani che avevano la matematica e vedevano quello che avevano da dire. Il mondo musulmano ha avuto un vantaggio nel controllare la parte orientale dell’area, dove sono conservati gli scritti greci. I cristiani per lungo tempo non avevano accesso agli scritti greci e quindi non avevano gli scritti scientifici dei popoli passati. Quando li hanno presi, li hanno divorati. La chiesa non era contraria ai libri come hanno sostenuto alcuni. Per tornare al papa matematico, si chiamava Gerberto ed era molto interessato alla matematica e all’astronomia ed era uno studioso del suo tempo. Era particolarmente affascinato da un astrolabio, un dispositivo che aiutava qualcuno a distinguere il tempo dalla posizione delle stelle.

Hannam scrive in conclusione dell’ascesa della ragione, che in gran parte ha luogo con Anselmo d’Aosta. A pagina 44, leggiamo che insegnò ai suoi allievi la grammatica e la logica latine in modo che fossero pronti ad affrontare la Bibbia. Se potessero vederci i medievali giudicherebbero noi moderni dei volgari barbari, ignoranti, superbi, privi di quel senso del sacro che ci permette di realizzare cose belle ed importanti.

 

Fonti: G. Vitolo, Medioevo, I caratteri originali di un’età di transizione

J. Hannam, Filosofi di Dio

 

 

Apocalisse e pittura: L’insediamento del Maligno delle Fiandre

Fine del quindicesimo secolo: mentre in Italia, sotto il segno di Leonardo da Vinci, la pittura è tutt’una profusione di rappresentazioni di annunciazioni, apoteosi e scene sacre idealizzate secondo un’umanistica fiducia nell’uomo e nella forma, nelle Fiandre, invece, s’insinua il Maligno. Hieronymous Bosch e il suo erede artistico Brueghel il Vecchio prendono di certo le mosse da un contesto spazio-culturale e forse anche storico ben diverso, poiché nelle terre della Controriforma si è spiritualmente ancora nel Medioevo, in un tardo Medioevo che negli animi viene vissuto come l’ultimo tempo della storia. Niente prelude ad un Rinascimento, inteso nel senso di un rinnovamento dell’uomo e della fede; tutt’al più si prefigura nelle città anseatiche lo sviluppo di un nuovo modello economico, quello capitalista, che viene avvertito dall’artista come l’ultimo spasmo di un mondo che ormai ha intrapreso la strada della distruzione.
Nella Salita al Calvario, le figure intente a beffarsi del dolore di Cristo e a complottare sadicamente fra di loro portano gli abiti dei ceti più potenti dell’epoca di Bosch: oltre a un cavaliere e ad un frate, guardiani dell’ordine tradizionale ormai sprofondati in una completa abiettezza da sottouomini, si possono identificare anche dei mercanti e dei borghesi. Tempo di transizione quindi, ma di transizione verso il peggio, e, probabilmente, dopo che il Nazareno sarà stato definitivamente liquidato, verso il nulla. Diverso il periodo, diversa la crisi, ma identico è il sentimento della fine che si ravvisa nel dipinto I pilastri della società di George Grosz. La prima guerra mondiale si è conclusa e in una Germania sanguinante e indebitata fanno il loro gioco gli untori della revanche nazionale, supportati dalla grande industria. Questa volta le élite che prosperano come un cancro sulla decadenza di tutta la società vengono simboleggiate dal borghese militarista imbevuto di una prussiana smania di conquista, dal giornalista ipocrita che sparge odio, dal politicante nazionalista, dall’ecclesiasta. Dietro di loro, un ufficiale con la spada insanguinata passa tra i palazzi in fiamme. La caricatura portata all’estremo è ciò che in entrambi i quadri contribuisce alla sintesi di realtà e allucinazione, è ciò che crea quel malessere d’un immagine statica dentro la quale circola e alita un vortice nero che sembra indurirla e spaccarla oppure scioglierla.

Il paragone tra millenarismi pitturali non finisce qui. Nel Trittico del Giudizio di Bruges, e nell’anta destra del Trittico del Carro del Fieno, dei gruppi di demoni e di contorte chimere che si dilettano nello squartare i corpi dei peccatori pullulano in tutto il quadro come a volerlo invadere, mentre nel Trittico della guerra di Otto Dix (1929-1932) un sopravvissuto con una maschera antigas si aggira tra i fumi e tra masse di carne sciolta e radiottiva. Tutto ciò in una cornice infernale, fatta di case, torri e città in fiamme. Non deve sorprendere che tali visioni apocalittiche siano sorte in dei contesti “in cui tutte le cornici della vita normale” sembrano “saltare definitivamente” (Al culmine della disperazione, Cioran).

Tutte le norme e gli ideali correnti vanno in malora, e con essi la struttura del mondo stesso sembra prossima al crollo: difficile separare i tre piani di disperazione individuale, collettiva, e cosmica, che si fondono nei quadri. Un solo evento potrebbe stravolgere l’esistenza marcescente ridotta alla cinica frenesia onanistica, aspirante alla dissoluzione nella consumazione dell’istante. Tale evento è l’intervento supremo, più terribile della vita stessa, che l’annienti o la rimodelli. Per un uomo del tardo medioevo o per un contemporaneo disilluso, niente come il pensiero dell’Apocalisse può canalizzare le energie mistiche e gli slanci antisociali. Solamente un’apocalisse può mettere fine al tempo vissuto come tortura e lasciar sognare d’una vita al di fuori di esso (per gli amanti del regno dei cieli), o dentro un chaos assurdo dove esso non si raffreddi mai.

 

L’intellettuale dissidente

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