Sanremo 2018: una nuova e spontanea nostalgia naziol popolare

C’è un barlume di tradizione che fa schizzare l’indice di qualità di qualsivoglia consenso. Non sempre il giovanilismo innovativo (o finto tale) è sinonimo di geniale ascesa darwiniana: macché. A volte il nuovo puzza di vecchio. Altre è morto dentro. Prendiamo Sanremo 68  –, tra i fiotti di artisti trentenni e ventenni della new age musicale, si fa spazio un venticello classicista soffiato da antichi lupi di mare. L’onda briosa solletica il pubblico, che in molti casi, mica è fesso.

Prendiamo Ron, ha assorbito gentilmente l’idea di un cantautore niente male: Lucio Dalla. L’inedito di Lucio cantato alla Lucio (fiocamente stralunato ma senza onomatopee), ridisegna l’orizzonte dell’innamorato speranzoso. Almeno pensami: «Ah fossi un piccione, che dai tetti vola giù fino al suo cuore. Almeno fossi in quel bicchiere, che quando beve le andrei giù fino a un suo piede. Fossi morto tornerei per rivederla ogni mattina quando esce. Avessi il mare in una mano, ce ne andremo via fino al punto più lontano. Almeno pensami, senza pensarci pensami. Se vai lontano scrivimi, anche senza mani scrivimi». Il tutto condito da un arpeggio di chitarra, a scanso di effetti speciali. L’elogio dell’amore semplice, del rodimento vero e non della sciancata banalità.

Prendiamo Barbarossa, ha l’intuizione di rispolverare l’etimo delle borgate romane, quello incastonato nell’epica letteraria da Pier Paolo Pasolini, quello giocoso e bruciante di Trilussa e Aldo Fabrizi. Sì, anche quello di Gadda in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Passame er sale, un invito genuino all’amore di sempre, alla nemica di sempre. Invito di autentica esistenza, da afferrare senza esagerare, sia chiaro. Perché “er sale fa male”.

Prendiamo i Decibel (Enrico Ruggeri e company). Alzano i decibel! Misteriosi come sempre, fuori dal tempo come sempre. Lettera dal duca è una missiva di stima artistica mandata da David Bowie – da chissà quale dimensione postale – al sodalizio meneghino. Questo pezzo, come la gran parte delle produzioni ruggeriane, è un giallo in musica, un rompicapo possibile. Il sound è cautamente glam-rock, con influenze elettro-pop provenienti dagli idoli della Germania del Settanta: i Kraftwerk.

Ma non finisce qui. Molto bravo Bungaro nel suo inciso di Imparare ad amarsi, suggestione jazz and romantic blues. Sì, bravo anche Pacifico, peccato che il totem Vanoni fagociti la scena con cupidigia.

Prendiamo Max Gazzè, fruitore del pezzo più originale tra i big in gara. Il racconto morbido e caratteristico di una fiaba popolare, di un amore impossibile e per questo eterno: La leggenda di Cristalda e Pizzomunno, una sirena degna di Ulisse assieme al pescatore coraggioso. Narrazione leggendaria che addolcisce il mare di Vieste. Attesa poetica che non conosce fine. I due protagonisti un giorno si rincontreranno e non si separeranno più. Tutti lo vorremmo. E prendiamo il duo Enzo Avitabile-Beppe Servillo, con la loro canzone mediterranea Il coraggio di ogni giorno, che parla di vinti, descrivendo lo sguardo dell’uomo di tutti i giorni che canta la sua vita ovunque e comunque: due superospiti in gara.

C’è un barlume di tradizione che spinge ad abbeverarsi al Lete della qualità. Elemento essenziale in un simposio che si rispetti. Non sempre il giovanilismo innovativo è sinonimo di corretta azione filosofica: tutt’altro. A volte il vecchio è nel nuovo. Non basta tatuarsi e battere quattro quarti, o meglio ancora, non basta solcare le acque di un talent per vivere artisticamente. Spesso è così che il narratore muore dentro. Senza nulla togliere ai primi tre classificati, soprattutto al pezzo vincitore Non mi avete fatto niente interpretato in maniera magistrale dal duo Ermal Meta e Fabrizio Moro, e al secondo classificato, una delle rivelazioni, insieme al duo Diodato-Paci, il gruppo indie-rock Lo Stato Sociale con la scanzonata ma non stupida Una vita in vacanza.

 

L’intellettuale dissidente

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