Laura Villani. La cacciatrice metafisica

Andare oltre l’apparenza fisica della realtà, al di là dell’esperienza dei sensi, rappresentare il mistero, evocare una potenza muta prima del Logos, che abbiamo perduto in una solitudine esistenziale, dove molto spesso sono le cose a rubare il posto alle figure umane, le quali, probabilmente mal sopportano che un oggetto possa sopravvivere alle loro vite. In questi momenti si articola il processo creativo dell’artista pavese Laura Villani; la sua carriera è nata con le incisioni; la pittura arriva nel 1993 con la partecipazione al premio San Carlo Borromeo al Museo della Permanente di Milano. Cinque anni più tardi partecipa al Tokyo International Print Triennal e al Print Internacional de Cadaqués (luogo caro a Salvador Dalì). Espone a Parigi, Roma, Firenze e Venezia e, nel frattempo, allestisce tre mostre personali.

Non ci sono figure umane, eppure è come se esse fossero appostate da qualche parte e se ne avvertisse l’inquietudine. D’altronde l’artista è la prima a supervisionare questo microcosmo fatto di oscurità e, parafrasando Gustav Mahler, è come una cacciatrice nella notte: non sa se colpire e cosa colpire. Laura Villani riflette sul rapporto spazio-tempo e Uomo-Natura, avvalendosi del buio per rappresentare la dimensione interiore ed eterna dell’essere umano: l’oggetto sembra stregare il soggetto diventando immobile e assoluto, gli angoli creano spaesamenti e smarrimenti ma sembrano suggerire anche a cercare un nuovo tipo di contatto con la Vita, mentre si sta in silenzio e si attende una nuova germinazione. Quello di Laura Villani è un universo innocente, pieno di spazio, dove l’artista riesce a trovare un tempo assoluto. E se l’uomo è assente è perché, ancora troppo preso dal possesso materiale, non è ancora pronto a ricevere questo dono immenso. Effettivamente le opere di Laura Villani richiamano alla mente il poemetto profetico dello scrittore inglese Eliot, La terra desolata, dal quale l’artista ha tratto la dimensione onirica e la cifra simbolista (più medievale che ottocentesca), per superare la desolazione e approdare a una rinascita e a una nuova visione del mondo partendo dalla conoscenza del nostro passato, della nostra storia, della nostra memoria.

Laura Villani

 

Quando ha iniziato a interessarsi di arte? Ricorda la sua prima opera?
Direi fin da piccola. Osservavo mio padre disegnare. Bravissimo e instancabile utilizzava tante tecniche, ma la sanguigna e i pastelli erano le mie preferite. Potevo usare i suoi meravigliosi pastelli a olio e questo mi dava un grande piacere. Avevo sempre a disposizione fogli di carta su cui sbizzarrirmi con forme e colori. Inventavo paesaggi dai cieli coloratissimi. E poi trascorrevo le ore a osservare le opere dei grandi maestri sui libri d’arte che in casa abbondavano. Penso che la passione per la pittura risieda in me da sempre.

Cosa pensa dell’arte contemporanea? Quali artisti stima di più?
Troppo globale uniformante, onnivora onnicomprensiva. Troppo tesa a sorprendere, troppo legata alla velocità (di creazione e di fruizione), troppo vincolata ai mercati alle mode. Insomma troppo di tutto. In questo caos vorticoso è facile perdere il contatto con la storia, con le radici, con la propria identità. Apprezzo gli artisti che, rimanendo loro stessi, riescono a esprimere il proprio sentire e a emozionare con il loro lavoro e il loro intento poetico.

Considera la sua arte pre-civiltà o post-apocalittica?
Non saprei dire. Questo è un quesito che consegno allo spettatore. Sicuramente rappresento un mondo sospeso, svuotato dal tempo che ci appartiene. Sono alla ricerca di un mondo innocente. Un mondo pieno di spazio. Abitato da un tempo infinito, che dalla soglia del nostro presente ci riconnetta al candore arcaico dei lontani primordi, e dalle profondità del passato, ci rifletta possibili scenari futuri. E in questo universo quasi eliotiano riesco a trovare un tempo assoluto, dove l’uomo non compare. Non è ancora pronto a ricevere questo dono immenso. Al suo posto introduco le cose, i suoi oggetti, i simbolici custodi di queste terre immortali. Dialogano con il paesaggio in un silenzio proteiforme. Ci suggeriscono forse un nuovo tipo di contatto, più ampio e più profondo, con la natura e con la vita.

Come nasce una sua opera? Da un’ispirazione? Osservando la realtà? Da un desiderio nascosto?
Nasce sempre da una visione che affiora dal mio immaginario. La fermo sulla carta con un piccolo disegno e poi la traduco in pittura.

Trova che l’arte di oggi abbia dimenticato l’aspetto metafisico, anagogico?
In generale probabilmente sì ma, soprattutto in ambito pittorico, ci sono molti artisti che si esprimono evocando un altrove filtrato dalla loro personale visione.

Quale domanda dovrebbe porsi l’arte? Dato che per molto tempo si è pensato che fosse bellezza, e che fosse semplice…
Penso che in questo preciso momento l’arte abbia più che mai il compito di stimolare una riflessione più profonda sul destino dell’uomo, suggerendo una dimensione più alta.

La sua arte intende penetrare l’animo umano per farlo emergere dall’ombra. Secondo lei l’essere umano è corrotto fin dalla nascita o è tendenzialmente buono?
Secondo me l’uomo ha incentrato, oltre misura, la sua esistenza sul possesso materiale. Da qui nasce gran parte della sua corruzione.

L’artista è quasi sempre in dialogo con sé stesso e con le domande assolute che valgono in ogni tempo? Lei si sente in questa condizione?
Penso di sì, per me è così. La mia ricerca mi porta a riflettere sull’esistenza, sul valore del tempo in relazione allo spazio e sul rapporto tra uomo e natura.

 

Quale tecnica predilige?
La pittura a olio.

La sua arte vuole dare qualche risposta o cerca di confondere e allo stesso tempo affascinare avvalendosi del mistero?
Con la pittura potrei riuscire a stimolare interrogativi sul mondo in cui viviamo, suggerire magari nuove connessioni, ma dare delle risposte sarebbe un po’ difficile. Vorrei rivelare un mondo possibile oltre la nostra realtà visibile, aprire un piccolo varco.

Quale esibizione le ha dato maggiore soddisfazione?
Anche se non è ancora avvenuta, so che sicuramente sarà Le cose di Vincent a cura di Marco Goldin.

Ci parli del suo ultimo progetto Van Gogh. I colori della vita e soprattutto della sua personale nell’ambito di questa collettiva. Si sente in qualche modo vicina al grande artista olandese?
Si tratta appunto della mostra Van Gogh. I colori della vita, curata da Marco Goldin. Presentata a gennaio di questo anno al Kröller Müller Museum di Otterlo in Olanda e inaugurata in ottobre, al Centro Altinate San Gaetano di Padova. Insieme a questa grande esposizione dedicata a Vincent Van Gogh (sono presenti in mostra novanta sue opere tra dipinti e disegni) Goldin ha ideato undici personali per undici pittori contemporanei, che saranno allestite nella stessa sede della monografica riservata al grande artista olandese. Io faccio parte degli undici artisti invitati. A ognuno di noi è stato chiesto di interpretare una tematica tratta dal mondo pittorico di Van Gogh. A me Marco Goldin ha assegnato gli oggetti, intitolando la mia personale: Le cose di Vincent. Ho così scelto e studiato gli oggetti che potessero avvicinarsi di più al mio mondo, cercando di interpretarli attraverso la mia visione. È stato un lavoro intenso ed estremamente stimolante. Di Van Gogh mi piace molto l’aspetto visionario della sua pittura, l’originalità e l’unicità del suo linguaggio espressivo. Amo il suo periodo olandese, la sua tavolozza dai colori bruni e muscosi. Da essa emergono gli echi della pittura del Seicento per la quale io ho una grande predilezione, da Caravaggio a Georges de La Tour a Rembrandt, Zurbaran. Le loro ombre, le loro luci collegano l’emotività alla percezione.

Ancora a proposito di Van Gogh: in una lettera al fratello Theo del 1882, Vincent dice: “Artista significa cercare sempre senza mai riuscire a trovare del tutto”… È d’accordo?
Assolutamente sì. È un cammino che si snoda e prende forma per stratificazioni. Procede e si evolve con lentezza, a volte a fatica a volte con slanci improvvisi. E quando pensi di aver trovato ciò che stavi cercando, un altro pensiero ti assillerà di nuovo…

Il suo più grande sogno?
Esporre, esporre e viaggiare molto per esporre.

 

Laura Villani. La cacciatrice metafisica

Silvia Idili, artista che coniuga Rinascimento e Metafisica: “i miei lavori alla ricerca del proprio io”

Artista neo-metafisica, visionaria, gotica, realista magica di tradizione rinascimentale: si rispecchia in tutti questi termini l’artista sarda, milanese d’adozione, Silvia Idili, estimatrice al contempo di Leonardo da Vinci e di Giorgio de Chirico, ma certamente rappresenta un’arte che sa di nuovo, un’arte ipnotica, magnetica, che ha a che fare con il nostro inconscio e con il nostro modo di rapportarsi con l’assoluto e la realtà.

Le tele dell’artista sarda spiccano per un originale simbolismo e ricerca cromatica che rendono i suoi lavori fortemente scenografici. I suoi dipinti evocano geometrie, armonia delle forme e composizioni del passato per esprimere con maggiore intensità e credibilità la tensione spirituale, emotiva e psicologica dell’uomo contemporaneo, molto spesso spiazzato dalla complessità della realtà in cui si trova e che non sa decifrare, anche quando si confronta con il trascendente.

L’arte di Silvia Idili è un invito a comprendere il senso della vita, soprattutto attraverso il rito, categoria fondamentale delle civiltà secondo il grande antropologo e filosofo Mircea Eliade, nonché, come sostiene anche la Idili, una garanzia per il mantenimento della propria identità e per quanto riguarda questo aspetto l’artista è pienamente se stessa, un’esistenzialista visionaria che racconta l’assurdità della vita andando oltre il visibile, attingendo alla dimensione onirica e metafisica e all’atavismo della sua terra natale.

Silvia Idili ha esposto, tra gli altri, presso il Museo di Arte Contemporanea di Lissone, la Galleria Moitre di Torino, e al MEA Museo Dell’emigrazione Asuni di Milano.

Visionario 8, olio su tavola 40-x-44-cm 2018

Le sue opere fondono classicità e metafisica. Come nasce questo sincretismo e qual è, secondo lei, il filo rosso che unisce questi due importanti contributi dell’arte europea?

É nato per caso e non di certo da una mia volontà programmata, forse l’incontro è avvenuto poiché prediligo la pittura classica e stimo Giorgio De Chirico, protagonista e inventore della metafisica. Il filo rosso che li unisce credo sia il pensiero stesso di questa corrente che utilizza elementi di pittura classica per distorcere la realtà che apparentemente assomiglia a quella che conosciamo dalla nostra esperienza. Si supera la realtà, per andare in qualche modo oltre.

L’essere definita una pittrice visionaria geometrica è un’espressione che le sta stretta?

In generale non amo le definizioni, anche se spesso le persone hanno bisogno di descrivere a parole ciò che non conoscono. Tuttavia essere definita una pittrice visionaria non mi dispiace. Per me ha motivo di essere un assoluto complimento.

Che tipo di ispirazione le offre la sua terra, la Sardegna?

Tutto. Dai santuari alle montagne, dai miti alle leggende, dai riti arcaici ai costumi, dalle maschere ai colori, dalla saggezza più profonda e autentica al modo di vivere e di pensare di certe persone, prive di cultura accademica ma ricche di una cultura quotidiana che non è ignoranza ma un dono profondo atavico di pensiero e di contemplazione superiore della vita.

Quanto conta nella sua produzione la lezione rinascimentale?

Sin da quando ero piccola, mi sono sempre sentita attratta da Leonardo Da Vinci, l’emblema stesso dell’uomo rinascimentale: suppongo che questo importante periodo artistico mi abbia segnato, poiché nel rinascimento ci fu un forte interesse verso la geometria e i Solidi Platonici.
Cosa pensa dell’arte di oggi, e soprattutto di quegli artisti che rigettano totalmente la tradizione?
Sull’arte di oggi non penso, mi limito a osservare e raccogliere ciò che di buono mi può offrire. Ogni artista deve sentirsi libero di scegliere una direzione; anche se la conoscenza della tradizione è fondamentale, a prescindere da quale direzione si voglia prendere nel proprio iter artistico.

L’esposizione che la ha dato maggiori soddisfazioni?

Credo che ogni occasione per esporre i propri dipinti sia motivo di soddisfazione. Mi ritengo soddisfatta di tutte le mostre che ho fatto sino ad ora, senza prediligere o sminuire nessuna di loro; perché ognuna di esse ha contribuito alla crescita del mio percorso.

Dove e come è cresciuta Silvia Idili?

Sono nata e cresciuta in Sardegna, dove ho imparato a osservare il cielo, conoscere le stelle, i nomi dei venti, a capire i miei nonni quando parlavano tra di loro il sardo e scoprire che vivevo in un posto, dove si parlava un’altra lingua. Crescendo, ho capito che vivevo su un’isola e il mio essere isolana mi ha dato una concezione diversa della vita; ma soprattutto mi ha reso curiosa e mi ha spinto ad andare oltre ciò che i miei occhi vedevano e oltre ciò che i miei sensi mi permettevano di sentire.

Nell’arte contemporanea si crea un misunderstanding continuo: il curatore o il critico diventano dei filtri che legittimano l’artista, definendo cos’è arte e cosa non lo è. In questo “gioco” rientra ovviamente anche il visitatore. Cosa si sente di dire in merito a queste tre figure?

Di rapportarsi all’arte con la giusta sensibilità e soprattutto senza pregiudizi.

Cosa tenta di trasmettere al visitatore e al mondo dell’arte in generale?

I miei dipinti sono solo un invito, una finestra di pensiero che incita lo spettatore ad affacciarsi e riflettere sul senso dell’esistenza.

Nell’opera “Visionaria35” come in altre opere simili, lei sembra voler mostrare l’occhio che vede anche sé stesso, che va oltre ciò che vede, riflettendo sul rapporto tra visione e cecità, alla maniera di Derrida il quale si chiedeva cosa vediamo davvero quando vediamo?

Sì. I Visionari, ritratti femminili e maschili, sono volti con gli occhi spesso occultati da geometrie o teli; sono simbolo di infrastrutture create dalla mente per nascondere e mascherare la vera natura del proprio essere, che è allo stesso tempo, espressione di una tensione spirituale in rapporto con l’ansia della contemporaneità. I visionari invitano a una riflessione e a uno sguardo interiore.

La visione, lo sguardo sono metafore della conoscenza per eccellenza, che sconfina nella visione intellettuale, lei cosa crede di conoscere attraverso il suo lavoro artistico?

L’assurdità stessa del reale.

Cos’è per lei il rito? Tema che spesso ricorre nei suoi quadri.

La ricerca e la garanzia del mantenimento della propria identità.

La dimensione onirica per lei rappresenta una fuga da una realtà spesso deludente, o piuttosto contribuisce a comprenderla meglio?

La dimensione del sogno è quella in cui si manifesta la natura più profonda delle cose, è lo strato più intimo dell’esistenza stessa del mondo.

In che rapporto è la sua “metafisica” con il trascendente, ha un carattere di tensione verso l’assoluto? O crede impossibile una sintesi tra ragione e teologia?

Come ho risposto in precedenza, i miei lavori tendono alla ricerca del proprio io, che però lo si conosce solo alla fine del cerchio. La tensione verso l’assoluto è soggettiva, ognuno sente e trova il suo assoluto in base al proprio credo e non-credo. La sintesi tra ragione e teologia è relativa, tutto dipende da noi stessi e da quello che cerchiamo e troviamo nel silenzio della meditazione.

Prossimi impegni?
Continuare a dipingere.

 

Fonte

Silvia Idili: la pittura tra Rinascimento e Metafisica

‘L’operaio, il trattato filosofico e metafisico di Jünger. L’operaio come forma sovraindividuale, lontano da qualsiasi ideologia, prima che divenisse categoria sociale

L’operaio affronta i temi centrali del dibattito che la cosiddetta “letteratura della crisi” sviluppa nel periodo tra le due guerre mondiali che concerne la critica della civiltà occidentale, nel contesto culturale di grave crisi dell’Europa. L’operaio di Ernst Jünger, edito nel 1932, costituisce uno dei documenti più rappresentativi della “letteratura della crisi”, vale a dire di quel dibattito ricco e articolato, sviluppatosi nel periodo tra le due guerre mondiali, che concerne la critica della civiltà occidentale, nel contesto culturale di grave crisi dell’Europa. L’operaio affronta i temi centrali di quel dibattito, quali la conclusione di una civiltà e la sua lettura come crisi dell’idea stessa di Zivilisation, intesa come insieme delle norme e dei comportamenti di carattere convenzionale e contrattualistico, la dissoluzione dello stato borghese e dei valori che lo rappresentano, il significato e il ruolo del nichilismo in questo processo di disfacimento, la tecnica e la sua funzione spersonalizzante nei confronti dell’individuo, con i connessi sviluppi antiumanistici e antilluministici, la concezione della storia come destino. Intento di questo lavoro è capire Jünger, e segnatamente L’operaio, da un punto di vista rigorosamente scientifico, individuandone i fondamenti filosofici, ricostruendone struttura e argomentazioni, mettendone in luce la profonda unità tematica. La chiave che consentirà di realizzare questo compito è la metafisica, un termine al quale l’autore, dopo aver condannato al non senso ogni nostalgia filosofica, toglie a priori qualsiasi possibilità d’uso tradizionale – ove, secondo la definizione classica, essa costituisce la scienza prima, ovvero la scienza che ha come proprio oggetto l’oggetto comune a tutte le altre scienze e come proprio principio un principio che condiziona la validità di tutti gli altri -, ma anche qualsiasi connotato genericamente moderno.

Cosa Jünger precisamente intenda utilizzando il termine “metafisica”, è Martin Heidegger – il filosofo tedesco che fin dagli anni Trenta più e meglio lesse e commentò L’operaio – a rivelarcelo. Proprio parlando di quest’opera di Jünger egli scrive che: «(…) essa rimane un’opera che ha la sua patria nella metafisica. In conformità a quest’ultima tutto l’ente, mutevole e mosso, mobile e mobilitato, è rappresentato a partire da un “essere che è in quiete», e questo anche là dove, come in Hegel e in Nietzsche, l’ “essere” (la realtà del reale) è pensato come puro divenire e assoluta mobilità. La forma è “potenza metafisica”. Possiamo quindi individuare in Heidegger il padre di una corrente interpretativa del pensiero jüngeriano che vede nella Gestalt un concetto che designa l’essere “teorizzato” nella sua differenza con l’ente, cioè che designa la trascendenza o la metafisica come tale. L’“essere in quiete” di cui parla il filosofo di Messkirch è, dunque, la forma  scaturente dal “solco dell’essere”, orizzonte indistinto, ineffabile e atemporale, ed essa stessa immobile, eterna, ma non chiusa in se stessa poiché si dispiega nello spazio e nel tempo attraverso il tipo (argomento principale del capitolo secondo), manifestazione vivente della forma e, come la forma, sovraindividuale.

Si delinea, così, un’impalcatura ontologica gerarchicamente articolata che vede al primo livello, per così dire, il piano indistinto dell’essere e, a quelli immediatamente successivi, la forma e il tipo. In questo quadro ontologico l’operaio è una delle forme attraverso cui, in un determinato arco temporale, l’indistinto si rivela; non indica un singolo individuo né una classe sociale come la intendiamo noi oggi: è, in qualità di forma, un’entità metafisica, e dunque sovraindividuale; né, tantomeno, è un “prodotto” della storia: è imposto dalla forma al magma energetico che costituisce quello che Jünger chiama l’elementare (capitolo terzo), e proprio questa imposizione gli conferisce una valenza destinale: è tramite l’operaio, infatti, che l’uomo partecipa al destino metastorico della sua epoca; l’epoca del dominio della tecnica (i cui contenuti saranno sviluppati nel quarto e ultimo capitolo dell’opera). Alla tecnica è riconosciuto un valore positivo, conferitole proprio dall’“anima” metafisica che la contraddistingue. E’ ancora Heidegger che coglie perfettamente questo aspetto, quando scrive: «Vero è ciò che corrisponde all’essenza della tecnica. Questo rapporto essenziale non è mai raggiunto nell’operare tecnico immediato, cioè nel carattere di volta in volta speciale del lavoro. Esso consiste nella relazione col carattere totale del lavoro. (…) Qual è la determinazione dell’essenza della tecnica che ne risulta? È il simbolo della forma del lavoratore». “Tecnico” non sarà colui che svolge una mansione particolare, attenendosi semplicemente ad un compito pratico, ma chi riconoscerà nel lavoro, di volta in volta, il suo carattere di totalità. La totalità è il “movimento” della forma predominante – quella dell’operaio e, dunque, del lavoro – e la sua tendenza a penetrare in ogni spazio vitale, pratico o teoretico.

Sfogliando L’operaio dunque si ha la sensazione che temi di varia natura siano talmente e finemente interconnessi che appaia assai arduo procedere ad una de-composizione funzionale alla comprensione dei presupposti. Ad una lettura più attenta si “vede” invece perfettamente ciò che, nell’intento dell’acuto “sismografo”, si cela sotto la multiforme matassa.
Secondo Jünger esisterebbe un “solco” ineffabile definito di sovente eterno e immobile, di cui ogni forma (Gestalt) sarebbe il modo temporale. La Forma è una irradiazione (Strahlung) dell’Indistinto eterno ed immoto, è il modo tramite cui l’essenza numinosa della forma si fa tempo; la forma è un tutto che non si riduce alla somma delle sue parti. Ciò fa pensare che l’essenza della Gestalt non nasca e non muoia con gli elementi che ne garantiscono l’epifania, anche se il rapporto tra la forma e il suo evento è pressoché necessario. L’uomo non ha la possibilità di rappresentare la forma nella sua essenza, non la può cioè porre davanti a sé come un oggetto materiale o spirituale per poi misurarla razionalmente. Essa, in sé, è come l’Uno di Plotino. Ma l’uomo può “avvicinarsi” alla forma vivendola, cioè incarnandola. Vivere la forma significa dis-porsi alla sovraindividualità che è la modalità grazie a cui la forma si appresta a dominare globalmente. L’uomo travalica la propria individualità facendo spazio al dipanarsi della forma, tras-formandosi in Tipo. La Forma si manifesta infatti nel tipo. Essa è il sigillo, dice Jünger, rispetto al tipo che è l’impronta.

Se la forma nelle sue vestigia mortali è una declinazione dell’eternità, il tipo dovrebbe quindi essere considerato come la guisa temporale della forma. Esso infatti, in un certo senso, attualizza il Destino della Forma. Tale Destino, come suggerito dal titolo de L’operaio, è il Dominio della Forma. Un Dominio che, lo si diceva, non è parziale, che cioè non si espande in un solo piano della realtà, ma a livello del pensare, del sentire e del volere oltre che nello spazio tramite la tecnica e la distruzione che essa comporta. Nello scritto del 1963 Typus, Name, Gestalt si legge che “Tipo” è più di “individuo” nella stessa misura in cui è meno di “forma”.

La tecnica è “la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo”. L’operaio è così quella Forma che mobilita il mondo tramite la tecnica. Heidegger commenta che allora la tecnica coincide con la mobilitazione -totale- del mondo attuata dalla forma dell’operaio. Alain de Benoist, rifacendosi al saggio del 1930 intitolato Die Totale Mobilmachung, fa presente come ”mobilitare”, nel gergo di Jünger, non significhi solo mettere in movimento, ma vorrebbe indicare anche “essere pronto, rendere pronto”. La mobiltazione va da un lato di pari passo con la distruzione e si realizza nello spazio con la tecnica bellica (18); da un altro lato, già nella sua opera di demolizione, prepara il terreno per la parusia di una nuova Figura e innesca il meccanismo necessario affinché il nuovo Dominio della Forma si realizzi. Come si diceva, il tipo umano è altro dall’individuo. Ora, l’uomo si fa tipo tramite la tecnica, la quale incide sull’essenza dell’uomo grazie alla messa in moto di radicali processi spersonalizzanti che aprono l’individuo alla uni-formità e dunque alla sovra-individualità. L’uomo che inizialmente crede di perseguire tramite la tecnica (strumento da lui inteso in senso neutrale) la felicità (la tecnica si propaga facilmente e velocemente e ingenera l’illusione che tramite essa si possa superare il dolore), poi diventa parte del dispositivo che accende.
La spersonalizzazione che la tecnica introdurrebbe prelude al totale oltrepassamento del modo che sino a quel momento, secondo Jünger, si aveva di interpretare la libertà intesa come “misura il cui metro campione venga fissato dall’esistenza individuale del singolo”. L’uomo è parte di un processo dove perdono di importanza le qualità e la vita del singolo, dove, come si diceva, risulta fondamentale rendere il mondo funzionante per lavorarlo in vista della produzione, cioè della mobilitazione. Il lavoro, mezzo che la forma utilizza per piegare a sé il mondo, si propaga in ogni settore della vita.

Jünger non condivide il presupposto che starebbe alla base del modello economico proposto dalla società liberal-capitalista, secondo cui la felicità e il benessere di una nazione si ottiene tramite la soddisfazione economica degli individui (atomi) che compongono la stessa società.
L’idea per la quale soddisfare i propri esclusivi interessi conduca alla felicità della nazione, è fermamente rifiutata da Jünger. Egli ritiene che l’interesse privato debba essere garantito nell’alveo degli interessi sovraindividuali dell’organismo comunitario. Fondare una ideologia che a partire dalla metafisica, tramite l’interpretazione altrettanto metafisica della tecnica, attacchi nei fondamenti l’individuo e la sua idea di libertà, significa chiaramente avere come bersaglio il liberalismo che sull’individuo e sulla tutela dei suoi diritti basa la propria dottrina. I rivoluzionari conservatori si sentivano “vitalisti” proprio nel senso che aderivano nichilisticamente alle contraddizioni della realtà, specialmente laddove queste conducevano alla demolizione dell’apparato politico ed ideologico delle classi dominanti.

 

 

Jorge Luis Borges e la scrittura della letteratura potenziale

La scrittura dell’argentino Jorge Luis Borges è la scrittura della letteratura potenziale. Nell’intrigo degli archetipi e delle tradizioni mitopoietiche si collocano le immagini della cultura sudamericana, dei ricordi dell’infanzia e della famiglia. Un substrato che eredita tutte le suggestioni delle leggende.

La letteratura è potenziale perché il mito, la storia, la filosofia, la magia vi si attualizzano in tutte le combinazioni possibili. La presentificazione del destino e delle coazione a ripetere di ogni destino diventa proteiforme e illimitata. In un mondo dove tutto è possibile e dove l’irreparabile può essere redento, la vita sembra conciliarsi con le sue maledizione e le sue condanne. Se in un universo si è preda di un inseguitore ferino e senza pietà in un altro, quello parallelo del racconto, si è inseguitori o addirittura liberi. Tenere vivo e aperto il racconto delle possibilità è dunque permettere alla vita di scorrere senza limitarsi all’angusto susseguirsi di attimi e spazi. Nell’apertura delle possibilità Borges sembra realizzare quello che Eugenio Montale definisce «la maglia rotta della rete» quello strappo in un momento indefinito che per un attimo ci mostra un segreto. Quello di Borges è un segreto che non sappiamo quando, come e se ci sarà rivelato.

Il surrealista Borges, in realtà, non si preoccupa tanto della scrittura ma piuttosto della lettura, l’atto dello scrivere nasce proprio da un fine didattico: è il narratore a spiegarci come va il mondo in cui viviamo e che arreca in noi tanta confusione. Ma colui al quale si rivolge chi scrive, il destinatario comprende davvero il linguaggio di quel testo? Borges, a tal proposito, è angosciato e ossessionato dalle equazioni filosofiche una su tutte quella indefinito/infinito. Certamente non è semplice capire l’universo labirintico e metafisico del grande scrittore, ma una volta entrati nel suo mondo non si può fare a meno di desiderare di rientrarci; come ha affermato lui stesso, Borges non scrive in maniera casuale ma indugia su ogni parola, ai fini di creare una giusta cadenza, un microcosmo anche se caotico nella sua scrittura.

Ogni punto è sempre una partenza, una partenza che non trova arrivo, è solo direzione perché il tempo è durata. Una durata che ha luogo nell’illusione dell’infinito, costruita su racconti di posti e personaggi realmente esistiti ma perennemente reinventati. L’illusione dura dunque per sempre, è una ricerca interminabile dei luoghi narrati e insieme del tempo rivelato ma mai immobilizzato.
La scrittura di Borges fa nascere una letteratura di idee dove l’infinito, le suggestioni poetiche e filosofiche si realizzano in una forma cristallina e netta. La vita ha valore per l’influenza che riuscirà a dare alla parola letteraria e per l’influenza che, viceversa, la parola letteraria nei millenni è riuscita a dare alla vita. Un denso e corposo magma di concretezze apparentemente astratte che riconosce il mondo solo perché esistono le parole che rimandano alla cosa scritta. È questa la concretezza astratta la veridicità e la solidità del tessuto verbale, la forza evocatrice e creatrice della parola. Questo è Borges: un “Aleph” (straordinaria ricostituzione della “biblioteca di Babele” attraverso una serie di teorie apocrife e d’invenzioni che  riguardano il tempo e la relatività), uno spazio cosmico in cui la vastità si espande senza soffrire dei propri limiti.

 

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