Alfie Evans e la cultura della morte: il liberalismo selvaggio la difesa della vita in quanto esseri umani

Non è progressista una civiltà in cui si registrano più aborti che nascite, più divorzi che matrimoni, più cannabis club che sale giochi, dove non è possibile esercitare la libertà d’espressione dietro l’accusa di essere fascisti, o quella di riunione dietro la minaccia dei cosiddetti antagonisti (del buon senso). Soprattutto, non è realmente progressista una civiltà in cui non è possibile esercitare la libertà di movimento per fuggire da una condanna a morte e reclamare la difesa della vita di un figlio malato e bisognoso di cure urgenti quale diritto inalienabile di ogni essere umano – ogni riferimento ad Alfie Evans è puramente intenzionale. La cultura della morte ha vinto ed esteso i suoi tentacoli in tutto l’Occidente; a ricordarlo ci ha pensato la sentenza del giudice Anthony Hayden, che sarà prima o poi chiamato a rispondere dell’accusa di omicidio ai posteri (per i laici) o a Dio (per i credenti).

Huntington si sbagliava: non saranno la civiltà islamica, sinica od ortodossa a galvanizzare il crollo di questo (post-)Occidente da tempo incamminatosi sul viale del tramonto, ma il totalitarismo liberal-democratico. Un’ideologia nel cui nome vengono abbattuti governi ostili, vietati indumenti e simboli religiosi nei luoghi pubblici, censurati pensatori anti-sistema ed impedite manifestazioni, ma che napoleonicamente si è autoincoronata paladina dei diritti umani e della giustizia. La scienza come riflesso del potere ideologico dominante, una teoria del pensatore Michel Foucault oggi più che mai corroborata dalla piega che ha preso la medicina nei paesi occidentali, più interessata al profitto che alla salute. Gli ospedali e i centri di ricerca sono divenuti luoghi di business, nei quali i pazienti sono dei semplici numeri agli occhi di chi dovrebbe curarli.

Parte tutto dalla manipolazione semantica: il diritto alla vita è inalienabile ed è irrimediabilmente legato al diritto alla salute, del quale è accessorio essenziale il divieto dell’accanimento terapeutico, ne consegue la possibilità di cessare le cure ad un malato terminale od incurabile o di aiutare a morire mediante suicidio assistito una persona afflitta da depressione. La ricerca costa troppo, i governi non vogliono assumersi l’onere di finanziarla e i cosiddetti filantropi, stile famiglia Rockefeller o Bill Gates, elargiscono generose quote dei loro personali averi esclusivamente su base ideologica, ossia ad istituti ed entità coinvolte nella promozione dei diritti lgbt o della genitorialità pianificata. Il capitalismo per sopravvivere ha bisogno di plasmare e trasformare in merce ogni sfera ed aspetto delle relazioni umane, dalla religione, al sesso, sino alla salute: lo mostra il caso di Alfie Evans, e lo ribadisce l’analisi “The Genome Revolution” di Goldman Sachs inerente la non-remuneratività della ricerca farmaceutica in cure definitive per le malattie. In breve, il rapporto giunge alla conclusione che lo sviluppo di farmaci e trattamenti di cura definitivi riduca nel lungo termine in maniera sensibile le possibilità di nuove infezioni, annullando il ritorno economico per i produttori. La ricerca farmaceutica dovrebbe quindi puntare a delle cure parziali, in modo tale da creare dei malati cronici, dipendenti dai farmaci o desiderosi di un costoso suicidio assistito?
Riflessioni ed invettive contro la mercificazione della salute a parte, difendere il diritto alla vita di Alfie Evans, un bambino affetto da un’epilessia mioclonica progressiva, non è solo un dovere che spetta ai suoi genitori, ma a tutti coloro che ritengono di possedere un’anima, o quantomeno una coscienza funzionante e non corrotta dalle dottrine liberal-progressiste. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sorta per vegliare sulla corretta applicazione ed il rispetto della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, chiamata in causa dalla famiglia Evans, ha scelto di (non) intervenire, mostrando per intero la sua coerente inutilità.

Nessun paese comunitario ha protestato per il trattamento riservato dalla giustizia e dalla sanità inglese a questo cittadino in fasce colpevole soltanto di essere afflitto da un male per il quale la ricerca non ha ancora prodotto risultati. Nessuno è intervenuto per fermare l’omicidio in diretta di un bambino dato a più riprese come morto cerebralmente ed incapace di vivere senza l’aiuto delle macchine, eppure capace di aprire gli occhi, muovere gli arti superiori, respirare spontaneamente e, soprattutto, sopravvivere nonostante la disintubazione e la cessazione dell’idratazione e della nutrizione. Nonostante le accuse di inazione, il Vaticano ha abilmente sfruttato la propria influenza nella politica italiana per spingere il ministero dell’interno e degli esteri a concedere la cittadinanza a questo bambino in tempi straordinari, nell’aspettativa di convincere le autorità inglesi a permettere il suo trasferimento all’ospedale Bambino Gesù, dichiaratosi pronto ad ospitarlo e trattarlo con un protocollo sperimentale. L’intromissione italo-vaticana nella vicenda non è stata però gradita dalla corte d’appello che in data 25 aprile è stata chiamata per rivedere la sentenza del giudice Hayden: al bambino è stato negato il trasporto all’estero, è stata rifiutata l’eventualità di una giurisdizione di Italia e Vaticano sul caso, ed è stata ribadita la validità della precedente sentenza che ha difatto prevaricato la potestà genitoriale trasformando Alfie Evans in un bene privato la cui sorte è gestita dall’ospedale.

Ogni ricorso della famiglia Evans in sede nazionale e comunitaria è stato vano, come vani sono stati i riferimenti fatti dai legali della coppia alle libertà e ai diritti previsti dai documenti che formano la costituzione britannica, tra i quali l’Habeas Corpus Act. Michela Marzano, docente di filosofia morale all’Université Paris Descartes, in un editoriale per La Repubblica ha giudicato l’intervento della coppia Minniti-Alfano come un pasticcio incomprensibile di un governo dimissionario che dovrebbe occuparsi solo di ordinaria amministrazione, trovando anche il tempo per parlare di ius soli. Lo stesso governo che però è piaciuto molto ai liberali di tutto l’Occidente quando, seguendo il cordone angloamericano di rappresaglie nei confronti della Russia in reazione al caso Skipral, ha espulso due diplomatici russi.

I leader del mondo libero, Angela Merkel ed Emmanuel Macron, non sono stati pervenuti, fornendo una prova ulteriore della visione che l’Unione Europea ha della vita e dell’etica – la stessa Ue che oltre un decennio fa rifiutò di inserire ogni riferimento all’influenza cristiana nella storia europea nel progetto di carta costituzionale, facendo presagire quale direzione avrebbe preso il progetto europeista. È normale che una civiltà avente più riguardo per la morte dei suoi figli, che per la loro nascita e crescita, un bambino venga condannato a morte da un tribunale e che i connazionali di questo inconsapevole imputato siano maggiormente presi a festeggiare una nuova vita nella famiglia reale che a protestare per la morte di un figlio del popolo. L’Occidente è destinato al tramonto e non perché lo abbia detto Spengler, ma perché ha deciso di abbracciare la cultura della morte ed il relativismo culturale a detrimento del cristianesimo, ringraziato periodicamente e in maniera alquanto vaga per l’aiuto fornito nella realizzazione di una civiltà basata sulla giustizia e sullo stato di diritto.

Arthur Moeller van den Bruck diceva che il liberalismo fosse un cancro capace di colpire ogni aspetto dell’essere umano, pensiero, creatività, ingegno e spirito, un’ideologia da distruggere per mezzo di una rivoluzione conservatrice. Allo stesso modo, Alberto Ruiz-Gallardon, capofila del movimento antiabortista spagnolo e ministro della giustizia sotto il governo Rajoy, dichiarò ai tempi della proposta di riforma della legge sull’aborto quanto fosse importante combattere per fatare il mito della superiorità morale della sinistra.
Nel caso di Alfie Evans, proprio di sinistra e liberalismo si parla, perché i giudici che lo hanno condannato a morte hanno pubblicamente assunto posizioni di matrice liberale e progressista nei confronti di tematiche come il recupero sociale dei criminali e dei terroristi e i diritti lgbt. Hayden è il coautore di un libro intitolato “Children and Same Sex Families”, mentre Andrew McFarlane, il giudice della corte d’appello, ha assunto rilevanza internazionale nel 2015 per aver creato un precedente su un tema molto sensibile quale la surrogazione di maternità e il diritto di rescissione, dando ragione alla coppia omosessuale che aveva comprato un bambino, negando ogni diritto di potestà alla madre surrogata.

Il destino di un bambino, figlio di due persone che hanno ritrovato la fede in questi mesi di lotta legale per via dell’incredibile umanità proveniente e dimostrata dal mondo cattolico, tanto da causare un diretto interessamento del pontefice e, tramite esso, del governo italiano, è stato affidato a dei giudici noti per le loro posizioni estremamente progressiste, ma forse è solo una coincidenza. Lasciando le convinzioni etiche, religiose e politiche a parte, il caso di Alfie Evans interessa l’Italia anche da un punto di vista legale dal momento in cui gli è stata concessa la cittadinanza: ad un cittadino italiano viene impedito di tornare in patria per ricevere delle cure urgenti, tra l’altro negate nonostante il parere contrario della famiglia, e al governo italiano viene negata ogni possibilità di giurisdizione sulla vicenda da un tribunale inglese, un precedente gravissimo che in futuro impedirebbe ai governi di fornire cure a dei cittadini sequestrati illegalmente in paesi terzi. In ogni caso, Alfie non morirà invano: se dovesse sopravvivere o morire al protocollo sperimentale, allora la sua vita servirebbe alla ricerca medica come opportunità di crescita e conoscenza, e se fosse lasciato morire perché ritenuto una voce di spesa eccessiva per l’ospedale che teoricamente dovrebbe curarlo ed impeditagli ogni possibilità di cura altrove, allora il suo omicidio lo trasformerebbe in un martire, la cui storia forse servirà alla massa per capire quanto atroce e brutalmente incoerente sia il liberal-progressismo.

I maestri del liberalismo selvaggio hanno insegnato a chiamare libertà e diritti qualsiasi loro capriccio e desiderio egoistico, parafrasando Nicolas Gomez Davila. Ed è così che nelle società del malessere si riesce a malapena a trovare una folla da portare in piazza per protestare contro i tagli ai servizi pubblici e al sociale, mentre quasi chiunque è disposto a firmare una petizione o a scendere in strada per uno spinello o contro l’obiezione di coscienza.

 

Emanuel Pietrobon

 

 

Michel Foucault e “il sapere-potere”

Il filosofo, storico e sociologo francese Michel Foucault (Poitiers, 15 ottobre 1926 – Parigi, 25 giugno 1984), si è dedicato alla letteratura contemporanea tra il 1962 e il 1969 attraverso una serie di studi che mostrano una profonda comprensione del fenomeno letterario e in cui la scrittura viene inserita nel contesto della sessualità, della trasgressione e della morte. La scrittura definisce “un’ apertura di uno spazio in cui il soggetto che scrive non smette di sparire”. Foucault è un grande formulatore di discorsi e ad un certo punto si domanda: “In fondo, che cosa importa chi parla?. In questo modo il filosofo francese ha decretato la morte dell’uomo, fondando il suo interesse sul “sapere-potere”, puntando la propria attenzione soprattutto sulle grandi strutture oggettive rimosse o nascoste.

Il pensiero di Michel Foucault si potrebbe idealmente dividere in quattro punti essenziali; una prima fase di pensiero che va dal 1954 al 1961 in cui il critico si addentra nei sentieri del sogno e della follia: un cammino durante il quale le sue riflessioni lo porteranno ad incontrare e poi a superare la fenomenologia. La fenomenologia da cui è maggiormente influenzato è quella di Merleau-Ponty, la psicologia e la psicanalisi esistenziali di Binswanger e l’epistemologia di Canguilhem. I temi che fanno da fondamento a questa prima fase di pensiero sono il soggetto, inteso in maniera esistenzialista, la malattia psicologica, e una prima critica al razionalismo.

In testi come Maladie mentale et personnalité del 1954; Histoire de la folie à l’âge classique del 1961, e Maladie mentale et psychologie del 1962 e in Naissance de la clinique, une archéologie du regard médical del 1963, F. sviluppa dunque la sua analisi del sogno inteso come dimensione a-logica e privilegiata dell’esistenza umana in grado di rivelare quei contenuti simbolici importanti per la comprensione della propria natura più autentica. Egli inoltre analizza la malattia mentale intesa non tanto come devianza patologica, ma come una particolare modalità di esistenza intrisa di potenzialità, di originalità e creatività. A partire dall’epistemologia ‘storica’ di Canguilhem, evidenzia alcuni strumenti di analisi relativi ai concetti di “normale”e di “patologico”; vuole chiarire la sua posizione, estendendo l’analisi alle varie scienze umane, di cui individua il successivo stratificarsi e le condizioni di possibilità, cioè il loro costituirsi in campi epistemologici distinti.

La seconda fase di pensiero è quella che va dal 1961-1968. Lo sguardo di F. vuole andare oltre l’immediatamente visibile e indagare però il corpo nella storia della medicina. Ci troviamo tra le opere foucaultiane degli anni Sessanta in cui è palese l’influenza dello strutturalismo sebbene F. non aderisca mai totalmente ad esso. L’attenzione è stata concentrata sull’analisi del percorso che la medicina ha seguito nel processo di conoscenza del corpo umano, della malattia, della salute e della morte; sul concetto di episteme delle varie epoche storiche. In Les mots et les choses, une archéologie des sciences humaines del 1966,  F. analizza i saperi e i discorsi che hanno la caratteristica di modificare e creare gli “oggetti” che studiano. Il percorso di analisi parte dal periodo compreso tra ‘600 e ‘700 ed esamina l’episteme che organizza l’intera struttura conoscitiva di questa epoca analizzando come si passa dal segno alla funzione; nell’epoca successiva e cioè quella che prosegue fino all’Ottocento. F. fa riferimento alla nascita dell’anatomia patologica e alle forme e ai significati che il corpo assume in questa prospettiva, dalla funzione si passa al tessuto. Si arriva dunque a riflettere sull’Uomo come creazione recente.

Nella terza fase di pensiero che va dal 1969 al 1979 F. scrive testi come L’archéologie du savoir (1969), Moi Pierre Rivière ayant égorgé ma mère, ma soeure et mon frère (1973), Surveiller et punir; naissance de la prison (1975), Histoire de la sexualité  in 3 volumi nel 1976-84. Il cammino di Foucault tra la fine degli anni Sessanta e quella dei Settanta, si concentra sulla riflessione sul potere da cui ovviamente scaturisce la costituzione del soggetto moderno e della corporeità; i suoi campi di indagini sono capire come il meccanismo delle relazioni di potere forma e utilizza il corpo e come il soggetto viene continuamente influenzato e costruito dalla rete del potere. Un’influenza decisiva è stata senz’altro la lettura della genealogia della morale di Nietzsche, intesa come fondamentale strumento metodologico del corpo e del soggetto. La riflessione di Foucault sulle “stituzioni totali” inizia dunque con la genealogia dell’istituzione punitiva, il cui modello si riproduce e si ripropone nelle altre principali istituzioni quali l’esercito, la scuola, l’ospedale, la fabbrica. Di questa fitta rete di influenze e concatenazioni fa parte anche il sapere legato, in qualche modo, sempre al potere. Il potere poi è sempre affiancato dal concetto di “resistenza”, un correlato opposto e paradossalmente complementare. Per quanto riguarda sessualità, F. la rappresenta non come elemento naturale del patrimonio esistenziale dell’essere umano, ma come dispositivo storico delle società.

Nell’ultima fase di pensiero che va dal 1980 al 1984 si ha quella che si potrebbe definire una svolta filosofica, la scoperta dell’ethos. La fase finale del percorso foucaultiano, improvvisamente interrotto dalla morte, è caratterizzata dalla scoperta di una dimensione etica che non troviamo nei precedenti lavori. Investe anche in una reinterpretazione del soggetto, non più sottomesso e plasmato dal potere, ma attivamente consapevole e capace di auto-costruirsi. Il soggetto sembra rimanere sempre un qualcosa che si costruisce; tuttavia esso assume ora caratteristiche positive: la capacità di auto-costruirsi attraverso un complesso lavoro di perfezionamento e un’educazione fisica e spirituale. Richiamandosi di nuovo a Nietzsche, Foucault ipotizza la fine di quelle forme di soggettività, sottoposte all’opera del potere, che hanno caratterizzato la nostra epoca dal ‘700. Emerge dunque una prospettiva di libertà e di creatività del tutto nuova. Rilegge Kant e l’Illuminismo e inaugura la direzione e il compito che la filosofia riveste poi nell’epoca contemporanea: la riflessione critica su se stessi e sul proprio presente storico.

Tornando al suo secondo libro, il prezioso e di particolare interesse Le parole e le cose, del 1966, è importante sottolineare come F. analizza la ricchezza  e la storia naturale nella filologia, nell’economia politica, nella biologia, nella zoologia e nella botanica. Il testo infatti si apre con un’analisi delle Meninas di Velazquez, in cui si percorrono tutti i meandri del fenomeno della rappresentazione.

La dura ricerca di Foucault, volta al tentativo di dare una diagnosi dell’attualità, soprattutto attraverso l’analisi di una nuova economia del potere che ha come oggetto il governo della popolazione, organizzando lo spazio sociale, ha riscosso grandi consensi e ha segnato senza dubbio la cultura filosofica francese. Come non tenere conto dell’elaborazione dell’attuale concetto di biopotere, il quale fabbrica corpi, desideri, i modi di essere, comportamenti, basti pensare a quanto la società moderna, dominata dal cinismo, e l’individuo siano influenzata dalla pubblicità e dalla televisione.

Secondo il filosofo poi l’arte stessa, quindi anche la musica e la letteratura, deve stabilire con il reale un rapporto che vada oltre il semplice abbellimento, per diventare smascheramento. Ma sappiamo bene come l’arte, a partire dalla metà del XIX secolo si sia costituita come arte antiplatonica, che rigetta regole prestabilite, stabilendo con la cultura e le norme sociali un rapporto polemico e di riduzione; l’arte moderna ha aggredito l’arte acquisita, assumendo anch’essa un atteggiamento cinico nei confronti di quest’ultima.

Ma qual è il lascito più importante di Michel Foucault sul quale dovremmo continuamente interrogarci? La riflessione sulla tradizione del nostro Occidente, con il suo cinismo elitario, parente stretto dello scetticismo, e con il suo saper vivere senza verità. Come creare un rapporto armonico tra volontà di verità e stile di vita dopo che la fusione tra cinismo e scetticismo ha dato vita al nichilismo? Difficile dare risposte a queste domande ma Foucault ci fa capire come il vero principio del nichilismo non è: Dio non esiste, quindi tutto è permesso, siamo liberi e possiamo fare ciò che vogliamo; egli si chiede: se devo confrontarmi con il pensiero che “nulla è vero”, come devo vivere? Questa è la vera questione al centro della cultura occidentale: definire il legame tra l’amore della verità e l’estetica dell’esistenza. In cosa consiste l’arte di esistere in un Occidente che ha inventato tante verità, che si nutre della sua confusione, e dove tutti hanno ragione? Dice Foucault: “il cinismo serve a ricordarci che ben poca verità è indispensabile per chi voglia vivere veramente, e che ben poca vita è necessaria quando si tenga veramente alla verità”. Meditiamo.

 

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