Tondelli, il rifiuto di ogni ideologia

Pier Vittorio Tondelli muore di AIDS nel 1991 a soli 36 anni ed è stato scrittore prolifico e famoso, viaggiatore instancabile ed acuto osservatore delle mode e dei costumi degli anni ottanta. E’ ancora difficile fare un bilancio obiettivo sulla sua opera. Tondelli esordisce nel 1980 con “Altri libertini”, sequestrato per oscenità e poi assolto con formula ampia.

Il processo giudiziario e la straordinaria novità del libro lo portano al successo, vende 200000 copie. Tondelli diventa così, senza volerlo, lo scrittore di una generazione, quella del settantasette. Con il suo primo libro riesce a dare voce a gay, travestiti, drogati e studenti fuori sede.

Nel suo secondo libro “Pao Pao” invece tratta di una caserma di soldati, delle loro peripezie sotto la naia. Mette in luce sia il cameratismo tra commilitoni che il nonnismo. Infatti Tondelli stesso dichiarò che sotto naia vige “una giustizia tribale e assoluta, tollerata dalle gerarchie che fingono di non vedere, finché non scappa il morto”. In tutta l’opera si nota il contrasto tra l’istituzione (con le sue pratiche burocratiche e le sue norme rigide) e la spontaneità dei ragazzi.

Anche in un altro suo romanzo “Rimini” il punto di vista è collettivo, come nei precedenti. Tondelli vuole mettere in mostra “la carnevalata estiva” della riviera romagnola. Le storie dei ragazzi si intrecciano nella notte. Nonostante il continuo ribaltamento del giorno con la notte, le trasgressioni, il sesso nessuno di loro troverà quel qualcosa di cui è alla ricerca. Nel suo ultimo romanzo “Camere separate” non abbiamo il dinamismo dei precedenti. Si tratta infatti di un libro intimista, in cui prevalgono lo scoramento e la solitudine del trentenne Leo. Il protagonista cerca di rielaborare il lutto del suo compagno Thomas.

Un aspetto che contraddistingue Tondelli rispetto a molti altri della sua generazione è il rifiuto di ogni ideologia. Forse è per questo motivo che nonostante il successo editoriale e le opinioni benevole della critica più avanzata non gli è mai stato conferito un premio letterario. “Linea d’ombra” e il Gruppo 63 sottovalutarono sempre il suo talento. Diversi critici hanno esaminato l’opera omnia di Tondelli. Tra questi spicca il gesuita Antonio Spadaro, fondatore di Bomba Carta, che ha notato l’apertura alla trascendenza ed una spiccata sensibilità religiosa nella seconda produzione di Tondelli.

Già Bonura aveva intuito questo lato religioso dello scrittore di Correggio. Un dato di fatto incontestabile della religiosità di Tondelli è ad esempio l’intervista a Carlo Coccioli. Si può essere d’accordo o meno, ma il lavoro di Antonio Spadaro merita rispetto: ha passato sette anni della sua vita a leggere tutto quello che Tondelli aveva scritto. Ha letto anche tutti i suoi appunti, tutte le sue annotazioni diaristiche, tutti i libri che aveva letto Tondelli. Ha sentito tutti i suoi amici e conoscenti.

Un altro aspetto innovativo di Tondelli è la mancanza di ogni accademismo. Nella maggior parte dei suoi libri adotta il gergo giovanile. Tondelli non è libresco, il suo stile è antiletterario. Ma d’altronde- viene da chiedersi- in base a quali valori si giudica la letterarietà di un testo? In base forse ai canoni estetici, ormai antiquati, che furono ad esempio di Pascoli? Uno dei punti fermi di Tondelli è la narrativa di Silvio D’Arzo, che nella sua breve esistenza scrisse “Casa d’altri” e “L’aria della sera”. Silvio D’Arzo, anch’egli emiliano, negli anni’20 ha uno stile originale, antinaturalista e minimalista, agli antipodi rispetto al verismo piccolo-borghese tanto in voga all’epoca. Ma ritorniamo a Tondelli.

A questo aspetto si aggiunga lo stile postmoderno di Tondelli, per cui nelle sue pagine si trovano brani di canzoni rock, citazioni letterarie, esclamazioni dialettali, musica pop, cinema americano, beat generation. Ma non è tutto. Tondelli cerca il ritmo della frase, che deve possedere una sua musicalità. Tondelli è maestro di quella che lui chiama “la letteratura emotiva”. Tramite questo ritmo del linguaggio parlato riesce a catturare il lettore, a fargli leggere tutto d’un fiato la pagina scritta.

La tematica centrale dei libri di Tondelli è la fuga, l’emancipazione dalla provincia asfittica. Lo scrittore scrive che l’unico modo di uscire dalla Peyton Place della provincia è Kerouac. Infatti i protagonisti giovanili dei suoi racconti girano tutta l’Europa: Londra, Berlino, Amsterdam, Barcellona. Ma sono fughe a breve termine, una sorta di “mordi e fuggi” per poi ritornare alla tanto maledetta provincia. D’altronde a queste piccole evasioni c’è solo un’altra alternativa: quella del weekend postmoderno, che in fondo è una pseudo libertà.

Oltre alle opere letterarie abbiamo anche l’attività editoriale di Tondelli. Con il progetto “Under 25” seleziona i racconti della nuova generazione. Sceglie quelli che lui definisce gli scarti che si discostano dalla norma. Li riunisce in quattro categorie: testi intimisti, generazionali, di genere, sperimentali. Tra gli autori di questi racconti prescelti, Silvia Balestra. Un’ultima. brevissima, nota infine sul suo  “Weekend postmoderno”, un libro imprescindibile per chi voglia capire gli anni ottanta italiani.

 

Di Davide Morelli

I brividi, se non altro: appunti sul minimalista Ellsworth Kelly

“Lime and limpid green, a second scene, a fight between the blue you once knew”.…sono i primi due versi del primo pezzo del primo disco dei Pink Floyd, UK press. Sono nubi di gas grandi miliardi di volte il sole e incendiate da lampi di luce cosmica milioni di anni fa, quando solo l’Africa era abitata, prima che il mondo si sparpagliasse in continenti, e solo quegli uomini videro in cielo quel bagliore. Ed è il colore che parla da solo. È tutto ciò che rimane di fronte all’orizzonte degli eventi, quando tutto ciò che è umano e conosciuto viene spazzato via, che i buchi neri sono la parte sconosciuta e cattiva della natura – se però il colore è viola, allora sono campi di lavanda visti dalle nuvole (color field). Sono tele irregolari: si tratta dell’esponente del Minimalismo e dell’Hard edge painting, Ellsworth Kelly, si vola, e il profumo lo si sente fin qua.

Allo Stedelijk museum di Amsterdam c’è un lavoro di Claes Oldenburg che ricorda le geometrie di un’opera di Kelly; e le due opere in questione sono: The Saw del 2005 nel caso di Oldenburg e White Angle del 66 conservato al Guggheneim, quella di Kelly; ma a dire la verità di pannelli monocromatici disposti perpendicolarmente uno all’altro dando la sensazione di qualcosa di tutto spiegazzato, Elsworth Kelly ne ha composti parecchi; e Kelly e Oldenburg hanno comunque in comune molto altro, e il tratto distintivo che più li espone a una facile comparison è quello della landscape art: oggetti da esporre open air, large scale objects, che devono dare il senso e una direzione nuova alla percezione del paesaggio urbano (si tratta di scultura contemporanea o di installazioni permanenti).

L’Age d’Or è un film di Buñuel, e nel film c’è pure una giraffa di stoffa che dalla finestra papale vola, no ma non per terra, ma sugli scogli con fragranza dritto dritto in un mare grosso di onde grosse e la chimera surrealista per Kelly finisce qui. Basta: nessun elemento antropomorfico o umano o di vita biologica resterà sulla tela. L’uomo ha inghiottito tutto. “Floating down the sound resounds the icy waters underground”: sono i versi successivi della stessa canzone. È rimasta sola l’orma del passante e il suo bastone, ora già, un’altra lastra ghiacciata al sole, e l’espressione astratta dell’uomo e il suo pensiero, dove il cielo è il mare e la voce del padre, e il logos apofantico, alla fine: abstract expressionism – una derivazione di chiara origine tedesca che rimanda a Mondrian e Kandinsky.

L’elaborazione da parte di Ellsworth Kelly dei materiali esposti da Mondrian e Kandinsky porta dunque alla produzione di campi di colore monocromatici e alla costruzione di espressioni astratte del pensiero dell’uomo ricondotto ai suoi termini ultimi e minimali.

L’abbandono della sorpresa surrealista, della sua natura doppia e divisa tra realtà conscia e surrealtà inconscia porta Ellsworth Kelly alla costruzione di una realtà sintetica, di sintesi, con prodotti che sono degli statements, quasi degli imperativi categorici, che si impongono inequivocabilmente alla visione senza per altro confondersi con essa, ma allontanandosi, meglio, dalla stessa percezione, diventando interrogativi enigmatici imperiosi: non c’è più nulla di umano da guardare, non più niente di mortale, ma solo la natura immortale ed eterna, ovunque, sempre uguale a se stessa.

L’opera d’arte non ha più nulla da spiegare, più nessuno da esorcizzare: solo si manifesta per quello che è; e può essere un pensiero, un concerto, un gesto, una parola, molte volte uno sguardo; e molte volte è discreta tanto quanto altre volte può essere detonante, e in ogni caso Ellsworth Kelly sembra abbia proprio voglia di rivendicare l’impersonalità dell’arte, il suo valore assoluto in quanto tale, il suo voler essere assolutamente obiettiva e oggettiva, ricavando tutto il suo valore solo dal suo immenso e sconfinato voler essere (art for art’s sake, Allan Poe, 1850, seguendo Gautier, 1835; ma di fatto Kelly forma la propria dorsale artistica proprio a Parigi, ed è questo il sangue nuovo che scorre di ritorno in tutto il contemporaneo).

C’è qualcosa di agghiacciante in tutto questo, in tutte queste visioni monocromo; c’è qualcosa di sorprendente in queste agghiaccianti misure di colore monotono; non si può non far finta di niente: la natura è un ricordo, una lezione del passato, e la vita biologica ha lasciato per sempre l’arte contemporanea trasfigurata in eterno in puro spirito nell’alienazione e nella paranoia delle terre desolate del nostro futuro: “Jupiter and Saturn, Oberon, Miranda And Titania, Neptune, Titan. Stars can frighten” – fine della prima strofa del primo pezzo del primo disco dei Pink Floyd, UK press.

 

Fonti
Si veda: https://www.musee-orangerie.fr/fr/node/879, ma adesso “the time is gone, the song is over, thought I’d something more to say”, Pink Floyd, 1973 (pink-floyd-lyrics.com).

photo: incidentalcomics.com

5 frasi per ricordare Charles Bukowski, beniamino dei ragazzi pseudo-ribelli

Senza dubbio lo scrittore americano di origini tedesche Charles Bukowski è tra i maggiori esponenti del cosiddetto “realismo sporco”, filiazione del minimalismo, caratterizzato da uno stile sobrio e preciso nell’utilizzare parole per le descrizioni. In questo modo i personaggi delle storie narrate da Bukowski risultano tratteggiati superficialmente, ritratti della loro ordinarietà e volgarità.

Bukowski è stato un autore molto prolifico: ha scritto sei romanzi, centinaia di racconti e migliaia di poesie, per un totale di oltre sessanta libri. Il contenuto delle sue opere è autobiografico, caratterizzato da un rapporto morboso con l’alcol, da esperienze sessuali descritte appunto in maniera realistica e da rapporti complicati con le persone. Disinibito e antisociale, il sopravvalutato e ammantato di riverenza liturgica Bukowski è autore di scritti celebri come Storie di ordinaria follia, L’amore è un cane che viene dall’inferno, Le ragazze che seguivamo, Non c’è niente da ridere, Post Office, Donne, Hollywood! Hollywood!, Factotum.

Scrittore semisconosciuto fino a qualche decennio fa, Bukowski è asceso al successo tra i ragazzi pseudo intellettuali-ribelli (che vorrebbero, purtroppo per loro, essere come lui), soprattutto grazie a Facebook dove innumerevoli sono i post condivisi contenenti le “massime” più celebri dello scrittore. Con buona pace degli osannanti del suo linguaggio crudo, del suo irritante sprezzo verso le persone “normali” e della sua anarchia.

 

 

  1. L’anima libera è rara, ma quando la vedi la riconosci, soprattutto perché provi un senso di benessere quando le sei vicino.

 

 

  1. La gente è il più grande spettacolo del mondo. E non si paga il biglietto.

 

 

  1. “Per ogni Giovanna d’Arco c’è un Hitler appollaiato dall’altra estremità dell’altalena. La vecchia storia del bene e del male.”

 

 

  1. “Attenti a quelli che cercano continuamente la folla, da soli non sono nessuno. ”

 

 

  1. “L’amore è una forma di pregiudizio. Si ama quello di cui si ha bisogno, quello che ci fa star bene, quello che ci fa comodo. Come fai a dire che ami una persona, quando al mondo ci sono migliaia di persone che potresti amare di più, se solo le incontrassi? Il fatto è che non le incontri.”

 

A Raymond Carver piaceva la marmellata di more?

Nella prefazione all’edizione Einaudi di Cattedrale di Raymond Carver (ahimè ho fatto l’errore di comprare questa edizione e non quella di minimum fax, come molti miei amici mi rinfacciano), Francesco Piccolo scrive di essere rimasto scioccato quando, aprendo la prima pagina del primo racconto “Penne”, ha scoperto che questo iniziava con le parole «Questo amico». Come se il racconto volesse lasciarsi alle spalle – non detto, sottinteso – tutto il trascorso passato fra il narratore e questo suo amico Bud. Ed è vero, leggendo le prime pagine di “Penne” ci ritrova con questa sensazione, sebbene ciò che mi ha lasciato letteralmente senza parole riguardo quel racconto arriva verso la fine. Prendo in considerazione questo breve paragrafo, che arriva dopo la serata a casa di Bud e Olla, dopo l’incontro col figlio e con il pavone; ma prima di «tutta quella storia»:

In seguito, quando le cose tra noi sono cambiate, ed è arrivato nostro figlio, insomma, tutta quella storia, Fran considerava quella serata a casa di Bud come l’inizio del cambiamento. Ma si sbaglia. Il cambiamento è avvenuto più tardi; e quando è successo era come se stesse succedendo ad altri, non come qualcosa che poteva succedere a noi.

I primi tre anni di vita Carver li passò nella piccola cittadina di Clatskanie

Perché sono rimasto senza parole? Perché mi è passato per la mente “cavolo, mi sembra di non aver mai letto nient’altro prima di questa frase”, nonostante quella che posso definire “esperienza Wallace” di qualche giorno fa con La scopa del sistema?

Essenzialmente perché in questo paragrafo si affermano, si sottintendono, si lasciano intravedere cose ed eventi che accadranno ma che non vengono descritti da Carver. Non qui, non ora. Mai, in verità. Cosa ci dice Carver con questo paragrafo? Che la situazione di apparente e stabile felicità del protagonista e della moglie Fran vengono a mutare con una serata; che l’incontro col «bambino brutto» di Bud e Olla ha smosso qualcosa, ha provocato uno scarto minimo nell’esistenza dei due, scarto che ha portato a cambiare le cose e a «tutta quella storia» (non detta).

E poi c’è il disincanto di una frase potente come «quando è successo era come se stesse succedendo ad altri»: accettazione del cambiamento nella prima parte, disincanto nella seconda. Una frase e il mondo cambia; una frase e niente è più come prima. E non importa quale sia questo cambiamento, avverrà ma non è rilevante per il lettore. Non importa neanche quale sia la condizione di partenza dei protagonisti, è avvenuto ma è anch’esso non rilevante per il lettore. È di rilievo piuttosto che un evento attuale, stavolta non rilevante per il protagonista, viene a essere la chiave di volta, l’inizio del cambiamento, il ponte fra il passato e il futuro; e questo evento, invece, che Carver ritiene rilevante per il lettore.

Qualcosa di simile accade in “Febbre”. Per qualche motivo Eileen, la moglie di Carlyle, se n’è andata di casa lasciando il marito con i due figli. Tutta la storia ruota intorno agli sforzi di Carlyle di trovare una baby-sitter e di destreggiarsi fra loro, il lavoro, una sua collega per cui l’uomo prova un’attrazione e l’amore non sopito verso la moglie. Poi all’uomo viene una banale febbre, e gli accade di passare un giorno intero dentro casa insieme alla signora Webster, l’attuale baby-sistter/domestica. Trenta pagine scorrono così, niente accade di rilevante fino all’ultima pagina, quando

La signora Webster [andandosene dalla casa dell’uomo] si girò verso Carlyle e lo salutò con la mano. Fu allora, in piedi alla finestra, che lui sentì che qualcosa era arrivato alla fine. Qualcosa che aveva a che fare con Eileen e la vita prima di allora. L’aveva mai salutata con la mano? Naturalmente doveva averlo fatto, qualche volta, anzi senz’altro, però ora non se lo ricordava proprio. Ma si rese conto che ormai tra loro era finita e si sentì in grado di lasciarla andare.

E dunque le trenta pagine precedenti – tutte le telefonate deliranti di Eileen, la storia delle due precedenti baby-sitter, le preoccupazioni per il lavoro – si dissolvono così, in qualcosa che non è spiegabile ma che accade, prima o poi. Un segno del cambiamento, più che il cambiamento stesso.

Quella inutile, fastidiosa macchia sul muro

È come se, durante un trasloco importante, magari in un altro Stato per questioni di lavoro, ci si concentrasse sulla macchia di muffa presente dietro un quadro appena staccato. La macchia è lì, ci fissa, e ci viene alla mente di quella volta che comprammo il quadro per coprire la macchia appena giunti dentro la nuova casa, e di quel piccolo bisticcio avuto col nostro partner per la scelta del quadro (noi volevamo un dipinto di Van Gogh, il partner un’immagine bucolica). Il trasloco è imminente, la nostra vita sta per cambiare in qualche modo, il rapporto col nostro partner è qualcosa di diverso – di irriconoscibile – rispetto a vent’anni fa, eppure ciò che attira la nostra attenzione è quella macchiolina lì sul muro. Simbolo di un cambiamento avvenuto e che sta per avvenire, ma che non c’è ancora.

Eppure, tutto ruota intorno al dettaglio della macchia.

Ecco, questa è la potenza incontenibile di Raymond Carver.

(Ci sarebbe in effetti da soffermarsi sul racconto che dà il titolo alla raccolta – e che nelle ultime due pagine è stato in grado di tirarmi fuori delle lacrime, cosa che non mi accadeva da anni leggendo un libro –, ma sarebbe decisamente poco carveriano, no?)

Robert Bresson, scrutatore dei destini umani

Considerato universalmente uno dei più grandi maestri del minimalismo, il regista e sceneggiatore francese Robert Bresson (Bromont-Lamothe, 25 settembre 1901 – Parigi, 18 dicembre 1999), Leone d’oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia del 1989, è stato un intellettuale rigoroso, come il suo collega René Clair. Ma se Clair amava scherzare sui destini umani, Bresson ne ha scrutato impassibile il fluire, osservando il cammino del male nell’animo dei suoi personaggi o seguendone il lungo riscatto, senza intervenire in alcun modo. Bresson si affida solo agli strumenti del cinema: le inquadrature, il tempo, i movimenti della macchina da presa, i rumori, questi sono gli elementi indispensabili per scandagliare l’animo umano. Ma, arrivato sulla soglia di ciò che non potrà mai essere conosciuto fino in fondo, si arresta.

Bresson è stato la spia che il cinema pian piano è andato incontro a quella perdita di identità che avvenne nel dopoguerra; il rigore del linguaggio non può più essere riferito alle teorizzazioni sullo specifico filmico di cui si dibatté nel muto; il regista ha evitato la scorciatoia della narratività perché seguendola non giungerebbe mai al soprannaturale che ha sempre cercato e quindi si è concentrato su ogni singola inquadratura.

Al regista francese è stato attribuito un rigore discendente dal giansenismo: se il peccato originale ha macchiato l’uomo, non resta che l’aiuto della Grazia per redimerlo, sempre quando e dove Dio voglia; l’uomo dunque è schiavo di sé stesso e del peccato di cui non ha colpa. Poco si sa di questo regista austero che ha avuto una formazione filosofica, e dedicandosi anche alla pittura; l’interesse per il cinema arriva intorno ai venti anni, Bresson più si concentra sul rapporto tra autore e macchina da presa più che sull’aspetto narrativo.

Dopo il mediometraggio Gli affari pubblici, girato nel 1932, Bresson rinuncia a proseguire; scoppiata la guerra parte per il fronte, cade prigioniero dei tedeschi e trascorre più di un anno in un campo di concentramento; viene liberato del 1943, si riavvicina di nuovo al cinema realizzando un film scandaloso per gli eccessi di rigore stilistico: La conversa di Belfort, un confronto serrato tra due donne in un convento, una, Anne-Marie giunta per seguire la propria vocazione, l’altra, Thérese vi si è nascosta perché ha ucciso il proprio uomo nemmeno si lascia sfiorare dalla fede. Morendo, Anne-Marie convertirà Thérese.

Con Perfidia (1944, tratto da un romanzo di Diderot), il regista francese riprende il discorso sul male e lo estremizza; la protagonista della vicenda è Hélene, una donna superba che vuole vendicarsi dell’uomo che l’ha abbandonata e fa in modo che anche lui si innamori di una prostituta, con la complicità della madre della ragazza, in cambio di una ricca ricompensa. Il giovane si innamora della ragazza e la sposa, a questo punto Hélene rivela il passato della ragazza, ma quando il male sta per trionfare, interviene la Grazia con la massima “il passato non conta” e tutto finisce bene per i due innamorati. In Perfidia non vi sono colpi di scena o altre trovate che mettano in evidenza la metodica perfidia di Hélene che ha diversi punti in comune con la marchesa de Merteuil de Le relazioni pericolose di Laclos; vi è solo una macchina da presa “inquisitiva” che isola i dettagli e imprime sullo schermo una gelida fotografia.

Nel 1950 Bresson ricava dal romanzo omonimo dello spiritualista Georges Bernacos, Il diario di un curato di campagna. La vita ascetica del giovane curato di Ambricourt ha in sé i caratteri esemplari del sacrificio. Malato di tumore, il prete tenta con ogni mezzo di convertire gli abitanti del paese, affida le sue sofferenze e i suoi pensieri ad un diario. La sua missione è benedetta dall’eroismo della fede, di fronte a lui il male la fa da padrone; quando il dolore si fa troppo forte, il prete si rifugia nella casa di un compagno di seminario che si è spretato. Si spegne dopo essere stato benedetto da lui e dopo aver scritto al curato di un paese vicino che disapprovava la sua “missione”: “Che importa? Tutto è grazia”. La pellicola affida ad un costante scavo nella natura e nei volti dei personaggi il suo messaggio, un messaggio indiretto, alla Bresson, la cui ambizione, per questo film in particolare, è quella di creare, come ha sostenuto lui stesso, il soprannaturale partendo dal reale. Difficile dire se il proposito è stato puenamente raggiunto, ma di sicuro mai durante il film si ha l’impressione di assistere ad una dichiarazione di fede: “Ogni inquadratura è come una parola, che in sé non significa nulla perché ricava il suo significato dal contesto”, (Bresson a proposito de Il diario di un curatodi campagna).

Il massimo del realismo Bresson lo raggiunge con il film Un condannato a morte è fuggito del 1956, diario delle giornate e delle notti trascorse dal tenente Fontaine nella prigione di Montluc, intento alla preparazione della fuga. I gesti, gli oggetti, gli sguardi, i rumori, i passi, l’alternarsi del buoi e della luce, cancelli che si aprono e si chiudono: è questo il tessuto narrativo del film. Salvarsi per Fontaine significa non solo salvare la vita, vuol dire qualcosa che attiene a quel mistero della Grazia.

Con Diario di un ladro (1959) Bresson realizza la sua opera più compatta sul piano formale: narra la storia di un giovane studente che, prima per necessità poi per vocazione, diviene borsaiolo fin quandouna ragazza cambia la sua vita e gli indica la strada del riscatto. Ha affermato il regista Louis Malle:

“Bresson si spinge più lontano. Trova una soluzione geniale quella che gli appariva la contraddizione insolubile del cinema, c’è la presenza irritante, privilegiata, troppo abile della macchina presa nell’azione: le assegna il ruolo di occhio del creatore. Che esso sia sempre al posto giusto, che ostenti un improbabile virtuosismo, che preveda e controlli tutto ciò che accade non ci stupisce pi ma mostra ancor meglio le intenzioni di Bresson. Se guardate bene questo film vedrete che i personaggi sono dominati dalla macchina da presa, tirati, spinti, trattenuti”. 

Con i film successivi l’apertura alla speranza cede il posto al pessimismo: il destino dei personaggi è segnato e il regista sembra mettere in scena le riflessioni esistenziale di Sartre. Au hasard Balthazar (1966) è la tragica parabola esistenziale di Balthazar, l’asino candido e rassegnato che passa di padrone in padrone, registrando lungo l’arco della sua vita tutto il male del mondo. Nessun sacrificio può riscattare un mondo dominato dal male, sembra voler dire Bresson con un linguaggio essenziale e asciutto.

Profondo pessimismo anche in Mouchette-Tutta la vita in una notte (1967), storia della quattordicenne Mouchette che nessuno ama che incontra per caso, durante un temporale, un bracconiere. Costui le racconta di aver ucciso il guardiacaccia; la ragazza lo aiuta a costruirsi un alibi e lo assiste durante una crisi di epilessia. Ma il bracconiere si è inventato tutto: appena può violenta la ragazza la quale, giunta a casa, trova la madre morta. Non sopportando di essere al centro delle chiacchiere del paese, Mouchette si annega.

Una scena tratta dal film Mouchette

Così bella così dolce (1969) è un piccolo gioiello nella nouvelle vague: Bresson narra la noia della vita di coppia aggiungendoci un tragico epilogo: di fronte al cadavere della giovane moglie appena suicidatasi, il marito si interroga sulle ragioni di questo gesto estremo. Non ci sono nomi, solo Lei e Lui, negli asciutti ricordi; il suicidio della donna non è un atto di negazione ma di dolorosa affermazione, una ribellione contro la vita meschina, lontana dal vero amore, che però deve lasciare spazio all’altra vita, che inizia con la morte.

Solitudine e poesia caretterizzano il rarefatto Quattro notti di un sognatore (1971), storia di un pittore che vive in solitudine, con i suoi sogni e i suoi quadri; egli non riesce ad approcciare l’altro sesso. Una notte vede una ragazza che vuole suicidarsi su un ponte, la ferma e i due iniziano a conoscersi. La ragazza gli racconta il perché del suo gesto: aspetta il suo amato che le aveva promesso di tornare dopo un anno. Lui la conforta e cerca di aiutarla, ma si innamora di lei. L’uomo amato dalla ragazza tornerà e il pittore soffrirà. Bresson traspone come Visconti, un racconto di Dostoevskij: Le notti bianche, riuscendo ad esprimere la discrepanza tra il mondo ideale che sogna il protagonista e il mondo reale che lo delude. La pellicola offre anche l’occasione al grande regista di riflettere sulla difficoltà dell’arte a essere compresa: il protagonista nasconde continuamente i suoi quadri al mondo e l’unico amico che si vede nel film e che si presenta a casa del giovane pittore, parla dell’arte con una difficoltà di linguaggio incredibile.

Il diavolo probabilmente (1977), penultimo film di Bresson, austero e semiotico, segna il distacco da parte del regista da una civiltà cui egli sente di non appartenere più:: un giovane studente angosciato di fronte alla realtà che lo circonda, che gli appare come governata da una forza oscura (il diavolo, probabilmente), non ricevendo risposte convincenti dalla religione, dal sesso e dalla politica, si fa assassinare in un cimitero da un coetaneo. Anche lui dunque, come Mouchette e la bella e dolce, si uccide, ma il suo è il suicidio più laico che Bresson abbia mai messo in scena. Ha affermato il critico Ugo Casiraghi:

“In un universo che ha rinunciato sia alla ragione sia alla fede, dove il prete ha fatto scappare Dio e lo psicanalista è il nuovo confessore della borghesia, dove la scienza è mistica del potere e lo spiritualismo si frantuma in sette, dove l’unica politica è il rifiuto di tutte le politiche, Bresson non entra in dialettica con le strutture ormai crollate. Né fa i conti con esse: la quotidianità essendo assurda e indecifrabile, la polemica deve apparirgli inutile e banale. Dato che il pianeta è ormai preda di un soprannaturale oscuro e maligno, egli sembra rifugiarsi in un pianeta a sé, in una personale sovrastruttura”.

Una scena tratta dal film Il diavolo probabilmente

Nel 1983 Bresson gira il suo ultimo lucido ed intransigente film, L’argent, parabola sulla maledizione del denaro, premio speciale della giuria a Cannes. I giovani cineasti che si sono affiancati a Robert Bresson, lo hanno surrogato ma sono stati pronti a riconoscere la paternità dell’appassionato, spirituale e saggio moralista, appartenente alla parte meno frivola della cultura francese.

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