Yasunari Kawabata, un delicato fiore di loto che galleggia apparentemente sull’acqua, cultore della bellezza

Primo premio Nobel giapponese, con la seguente motivazione: «Per la sua abilità narrativa, che esprime con grande sensibilità l’essenza del pensiero giapponese». Egli è colui che esporta l’idea del Giappone nel mondo. Se la penna dell’amico e allievo Mishima è una lama affilata, un fiore di ciliegio che fiorisce in modo breve ed intenso, quella di Kawabata è un loto, fiore delicato che galleggia apparentemente sull’acqua, ma si appoggia sul fondo melmoso. Tra gli ultimi anni del XIX secolo e i primi anni del XX il Giappone si sarebbe sbarazzato, progressivamente, di Cina, Russia e Corea sedendosi con prepotenza al tavolo delle potenze mondiali. Yasunari Kawabata nacque il 14 giugno 1899 ad Osaka, a 500 chilometri dalla capitale Tokyo, lontano dalla sanguinosa schiuma sovietica che l’ammiraglio Togo avrebbe sollevato, da lì a pochi  anni, sconquassando ulteriormente i fragili equilibri estremo orientali. Yasunari era lontano da tutto questo; nell’arco della sua vita non si interessò troppo alla guerra, lasciando quest’onere, e onore, all’amico e discepolo Yukio Mishima. Rimasto orfano a due anni, egli trascorse l’infanzia con un nonno semicieco e bizzarro, che lo educò in modo del tutto peculiare; il piccolo Kawabata si trovò immerso in un mondo dominato dall’arte, dall’erboristeria e dalla astrologia, sviluppando un eclettismo che si rivelò trasversale a tutti i campi della cultura. Nonostante ciò, la letteratura fu sempre il suo primo e grande amore. Lo stato di orfano lo condizionò per tutta la sua lunga esistenza, tanto da fargli confessare, ormai anziano:

“Mio padre morì che aveva un anno, mia madre quando ne avevo due. Il mio essere orfano è stato sempre sottolineato da tutti i critici che si sono occupati di me. E anche se, arrivato ormai a settant’anni, dubito che la definizione di orfano possa ancora adattarmisi, non mi sento di contraddirli. Credo, da bambino, di essermi lasciato viziare da questo sentimento di essere solo al mondo ma allo stesso tempo mi chiedo se i tanti incontri fortunati che ho avuto, nel corso della mia vita, non mi siano stati procurati proprio dal mio essere orfano”.

Partiamo dal primo incontro fortunato: verso la fine del 1918, dopo aver perso anche il nonno e dopo aver preso il diploma di scuola media, egli si reca nella penisola di Izu, dove incontra una banda di attori girovaghi che gli ispirerà il fortunatissimo racconto La danzatrice di Izu. E’ qui, in questo momento storico, a 19 anni, in solitudine, che si forma tutta la poetica di Kawabata, quel senso di “impegnato distacco” che lo accompagnerà per tutta la sua lunga esistenza. Non esiste un ossimoro più stridente di questo; forse è l’unico modo di comprimere in un unico colore un animo così culturalmente caleidoscopico. Innamorato follemente della protagonista, che dà il titolo a questo racconto, egli, una mattina, vide alle terme la figura del suo desiderio avvicinarsi, completamente nuda:

“Non aveva niente addosso, nemmeno un asciugamano. Era la danzatrice. Guardando il bianco corpo nudo dalle lunghe gambe, simile a un giovane albero di paulonia, ebbi la sensazione che il mio cuore fosse attraversato da una corrente di acqua limpida. Tirai un profondo sospiro di sollievo e mi misi a ridere. Era una bambina. Dimostrava diciassette anni perché aveva una capigliatura lussureggiante e io così mi ero lasciato, stupidamente, indurre in errore”.

In questo slancio giovanile, fiaccato poi dalla realtà della natura, si assiste ad un graduale e progressivo passaggio dalla prima alla terza persona, che troverà la sua definitiva consacrazione in uno dei romanzi della sua vecchiaia, la casa delle belle addormentate; qui l’anziano Eguchi ha la possibilità di dormire a fianco di giovanissime e bellissime ragazze, profondamente addormentate, toccandole ed esplorandole, senza violarle.

Il simbolo più grande di questo “impegnato distacco” è, però, il maestro di Go; in esso viene narrata la cronaca dell’ultima partita al gioco Go del maestro Shusai contro il giovane sfidante Otake; è una sfida tra i vecchi valori gerarchici, sul viale del tramonto, e i nuovi principi democratici, in rampa di lancio, tanto che lo sfidante pretende e ottiene che vengano aboliti i privilegi ancestrali accordati un tempo ai maestri, al fine di una partita il più equa possibile. Sebbene Kawabata sia lapidario nel dire che:

“Si perde il senso della partita, come opera d’arte, quando non ci si astiene dall’applicare anche al maestro il principio dell’eguaglianza”

In realtà egli rientra subito nei ranghi, tornando a quel ruolo di narratore che assurge anche al ruolo di mediatore; nel momento più critico della sfida, quando Otake minaccia di abbandonare la sfida, poiché troppo fiaccato dalle snervanti pretese del maestro, Kawabata riesce a farlo ragionare. Come? Con una semplice constatazione:

“La partita del ritiro coincideva con il passaggio a una nuova era, un’epoca di rinnovamento e rivitalizzazione del mondo del go. Interromperla a metà significava arrestare il flusso della storia. Con questa enorme responsabilità sulle spalle, avrebbe forse voluto far prevalere su tutto i propri sentimenti e le proprie ragioni?”

Naturalmente Kawabata vuole allargare la sua riflessione oltre il mondo ludico, evidenziando come un homo novus non avesse quella necessaria fermezza d’animo per bloccare l’incessante flusso dell’esistenza umana. Il timore per il nuovo che avanza fu una costante dello spirito nipponico; basta fare un balzo nel passato ed osservare la stasi shogunale dell’epoca Tokugawa, un lungo sonno della ragione durato più di due secoli, una sorta di medioevo ellenico che fece dell’accidia un punto di forza e un punto di vanto. In realtà, più che sonno della ragione, sarebbe più corretto parlare di silenzio, richiamando il recente film Silence di Martin Scorsese, ambientato proprio in quegli anni oscuri ed immobili della storia giapponese, così bui che i samurai dovettero saccheggiare i campi dei contadini per trovare un senso alla loro nobile esistenza. Naturalmente quella del maestro di Go non è solo una cronaca di un momento storico, ma è anche una profonda riflessione sulla morte; sempre, però, con il dovuto distacco: quando si trova a dovere fotografare, per il giornale in cui lavora, la figura del maestro appena spirata, egli afferma:

“Un obiettivo non fa distinzione tra vivi e morti, tra le persone e le cose, non cede all’emozione e non conosce rispetto”.

Il rispetto è sicuramente assente da un altro capolavoro kawabatiano, ossia Mille gru, in cui si assiste ad una sorta di telenovela, condita con sakè e sushi, in cui succede di tutto: il padre di Kikuji ha due amanti, la Ota e Chicako; il padre di Kikuji muore, suo figlio seduce la Ota e sfugge dalle grinfie di Chicako; la Ota muore, Kikuji cerca di sedurle la figlia e forse la giovane Inamura; la Inamura si sposa, la figlia della Ota pure, Kikuji si dispera; la figlia della Ota non si è sposata davvero, è solo una maldicenza della rediviva Chicako, Kikuji sorride, la figlia della Ota si uccide, Kikuji piange, finisce il romanzo.

Quando si legge Kawabata, è bene tenere a mente una cosa: anche i maestri più grandi hanno scheletri nell’armadio. Quale sarebbe quello di Yasunari? Forse è l’aver, talvolta, sacrificato il suo enorme talento sull’altare dei romanzi da ragazzine. Non è certo un peccato meritevole di pena capitale, condanna alla quale i nipponici sono ancora molto gelosi. Tutto il senso di questo apparentemente frivolo romanzo può riassumersi in un breve e profondissimo estratto, profondo tanto quasi il pozzo in cui riflette, per 800 pagine, il protagonista murakamiano dell’Uccello che girava le viti del mondo:

“Il fatto che i figli ignorino il corpo della madre, da cui pure sono nati, reca in sé qualcosa di stranamente bello, come stranamente bello è il rivivere delle forme materne nel corpo delle figlie”

Citare Haruki Murakami non è certo casuale: una frase del genere potrebbe tranquillamente essere inserita nel suo capolavoro Kafka sulla Spiaggia senza che nessuno si accorga della anacronistica storpiatura. Come è possibile questo? In una società tradizionalista e repressa come quella nipponica, il sesso è un argomento che un grande uomo di cultura non può certo evitare. Diverso, naturalmente, l’approccio: se Murakami è intriso della cultura americana post 1968, spingendosi in ghirigori sessuali talvolta enigmatici, Kawabata, in quell’anno fatidico, era ormai ben vecchio, sebbene non così tanto da tenere un discorso apicale alla premiazione del Nobel. Dunque, a una prima lettura, il passaggio sopraccitato potrebbe sembrare foriero di cattive interpretazioni.

Naturalmente, non è così: Yasunari, con la sua delicata naturalezza e quell’esasperato naturalismo che richiama spesso Flaubert, ci dice, sic et simpliciter, che la cerimonia sacra del thè è guasta, corrotta e corrosa dai tempi moderni. Il sesso è legato alla cerimonia del thè e a tutte le sacralità del Giappone: delicate, sensuali, estetiche ed estatiche. Tuttavia, la sacralità del rito è ammantata da un’aura grande, ma non così grande da impedire l’ammorbamento da una figura negativa come quella di Chicako; una donna con sembianze androgine, con un fare intrigante e con una enorme voglia sul seno è quanto di più lontano ci sia dal modello nipponico di donna femminea, schiva e soave. Ecco la differenza colta dall’osservatore distaccato: la bellezza, esaltata con la corrente artistica Shinkankakuha, in cui:

“Non deve più essere il cervello a scrivere quella cosa è dolce ma deve esserlo la lingua”.

Ha sia un potere salvifico, se posto nelle mani rugose della tradizione, sia malefico, se posto in quelle vellutate della nuova borghesia rampante e moderna. Si tratta un atteggiamento un po’ ambiguo, così come lo fu partecipare nel 1934 al gruppo di discussione letterario istituito dal governo bellicista e il rivendicare allo stesso tempo la propria libertà poetica. Ma si sa, la coerenza non è cosa facile. Talvolta capita di bluffare per arrivare ai piaceri più alti, così come farà Eguchi, l’anziano non così anziano, che fingerà di essere un “ospite di cui si può essere tranquilli” per accedere e scrutare un occultato scenario di impareggiabile bellezza: la bellezza stessa.

“Le tende rosse di velluto ricadevano su tutte le pareti della camera. Anche la porta di cedro da cui Eguchi era entrato si doveva poter celare con una tenda. Richiusa la porta a chiave, Eguchi lasciò cadere la tenda e abbassò lo sguardo sulla ragazza che dormiva. Non fingeva, si udiva inequivocabile il respiro profondo di chi dorme. All’imprevista bellezza della ragazza, il vecchio trattenne il fiato”.

Ecco, la bellezza, quella che coronerà il suo momento apicale, il premio Nobel per la letteratura del 1968, in cui leggerà un discorso intitolato, non a caso, la bellezza del Giappone e io.

“Quando vediamo la bellezza della neve, quando vediamo la bellezza della luna, in breve, quando apriamo gli occhi sulla bellezza dei singoli momenti nel corso delle stagioni e ne siamo sfiorati, quando abbiamo la fortuna di venire a contatto con la bellezza, allora pensiamo agli amici più cari, allora vorremo dividere con loro questa gioia; insomma l’emozione della bellezza risveglia più che mai l’affetto delle persone”.

Ecco; questi amici, con cui condividere la bellezza, siamo noi, i suoi lettori e il mondo intero.

 

Michel Simion-L’intellettuale dissidente

 

 

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