Terapia e Umanesimo. Psicologia, letteratura, mitologia

Non tutto ciò che è terapeutico diventa ufficialmente psicoterapico. Solo nel 1961 Boris Levinson definì il cane come “coterapeuta” ad esempio. Eppure i benefici degli animali domestici erano noti da millenni. Tuttavia solo con la pet therapy sono stati, per così dire, istituzionalizzati a livello psicologico.

Allo stesso modo non tutti i disturbi psichici dell’umanità sono classificati nel DSM. Ogni volta il manuale viene aggiornato e spuntano fuori nuove sindromi. D’altronde la natura umana è la stessa, ma l’ambiente, gli artefatti, il modo di ambientarsi ad essi sono sempre nuovi. Lo stesso disturbo psichico inoltre può essere diagnosticato in modi diversi a seconda della cultura di appartenenza dello psicologo.

A dirla tutta neanche tutto ciò che è psicoterapico ha proprietà terapeutica: talvolta per la scarsa ricettività del paziente, talvolta per la scarsa efficacia del curatore o della cura. Spesso le persone usano gli psicofarmaci perché come dicevano gli analisti un tempo almeno questi inibiscono il sintomo, anche se non eliminano il problema psicologico. Prima di continuare su questa falsariga espliciterò alcune mie convinzioni: tutti avremmo bisogno di uno psicologo, anche gli stessi terapeuti avrebbero tutti bisogno di un supervisore, per una buona salute mentale pubblica.

Per quanto riguarda i benefici interiori dell’umanesimo possiamo citare tre pratiche psicologiche abbastanza recenti: la biblioterapia, la psicosintesi di Assagioli, l’arteterapia. Per chi volesse approfondire la biblioterapia consiglio di leggere i due libri dello scrittore Miro Silvera, editi entrambi da Salani. In questo caso il terapeuta consiglia di leggere dei volumi per far acquisire una maggiore autoconsapevolezza ai pazienti.

Esiste catarsi e beneficio psichico sia nella fruizione di opere d’arte che nell’esprimersi artisticamente. Male che vada anche il più goffo tentativo di esprimersi artisticamente è un modo per conoscersi meglio, per una migliore esplorazione di sé. La psicosintesi di Assagioli prevede anche lo scrivere un diario interiore perché l’io raggiunga il Sé transpersonale. Scrivere per Assagioli è un modo efficace per conoscere le proprie sub-personalità, per approdare a ogni tipo di inconscio, anche quello individuale superiore, fatto di simboli, e anche quello collettivo, costituito da archetipi.

Secondo Assagioli esiste un inconscio inferiore, quello freudiano, un inconscio medio, costituito dalla razionalità, e uno superiore, sede della creatività. Secondo lo schema psichico o diagramma dell’ovoide di Assagioli tutte le istanze psichiche sono comunicanti, esiste un continuo interscambio tra conscio e inconscio:  ecco perché le linee che collegano i vari nuclei psichici sono tratteggiate nella figura. Il diagramma dell’ovoide è fondamentale perché l’individuo compia il suo percorso di individuazione. Ma ancor prima del geniale Assagioli, considerato dallo stesso Jung e ideatore di una delle più importanti scuole di psicoterapie italiane, era nota a molti la scrittura come autoterapia. Così come l’arteterapia era già nota agli antichi greci.

Le tragedie greche avevano un effetto catartico collettivo. Per quanto riguarda l’arteterapia si sono diffuse molto la musicoterapia e la teatroterapia. Fondamentale per questa scuola  è la figura carismatica dello psicoterapeuta, che dovrebbe essere anche un artista a tutti gli effetti. Invece molto spesso non lo è e conosce solo teoricamente senza averle sperimentate di persona le tappe del processo creativo. Ci sono tanti presunti professionisti che in realtà sono improvvisati.

Così facendo, i pazienti/discenti sono allo sbaraglio. Però sgombriamo il campo da ogni equivoco: i pazienti non devono avere aspettative troppo elevate e pensare di guarire completamente con queste pratiche psicologiche o di diventare artisti a tutti gli effetti. In definitiva l’arte non ha salvato tutti gli artisti. Molti hanno dovuto convivere malamente lo stesso con la loro nevrosi o psicosi. I suicidi tra gli artisti sono ricorrenti. Lo stesso psicodramma di Moreno può risultare davvero terapeutico e formativo perché è il cosiddetto teatro della spontaneità,  è un’occasione di incontro.

Con lo psicodramma avevano luogo molte trasformazioni e molte rivoluzioni interiori: questo spaventava i dittatori sudamericani che infatti lo proibirono. Anche i cosiddetti libri di filosofia pratica possono farci evolvere interiormente e aiutarci nel nostro cammino. La  consulenza filosofica può aiutare, tant’è che in America è diffusa. Un’ultima cosa: perché queste pratiche psicologiche facciano effetto bisogna che la persona creda veramente in chi la guida, in quello che sta facendo e nei benefici interiori dell’umanesimo. Una volta consigliai a un amico depresso, che era stato lasciato dalla ragazza, tre libri: Lettera alla madre sulla felicità di Alberto Bevilacqua, La conquista della felicità di Bertrand Russell, E liberaci dal male oscuro di Cassano.

I primi due libri erano umanistici. Il terzo era sulla depressione ed era scritto da uno psichiatra. Ebbene non li apprezzò.  Non stimava me né quegli autori e credeva, avendo una formazione scientifica, che l’umanesimo fosse un’enorme perdita di tempo. Invece anche i libri possono essere antidepressivi. Anche queste scuole psicoterapiche fanno parte della terapia della parola. Anche i libri possono cambiare e migliorare a lungo termine la nostra neurochimica. Per quanto riguarda esprimersi artisticamente allo stesso modo ogni sintomo può diventare un simbolo. Le recenti scuole psicoterapiche suddette comunque non hanno influenzato ancora la letteratura, come fece a suo tempo la psicoanalisi, con Virginia Woolf, Kafka, Joyce, Svevo, Moravia, Gadda.

In poesia in fondo gli automatismi psichici dei surrealisti e il paroliberismo dei futuristi scaturiscono dalle libere associazioni freudiane, così come i monologhi interiori e i flussi di coscienza di tanti scrittori derivano dalla scuola psicoanalitica. La psicosintesi, la biblioterapia, l’arteterapia non hanno fatto altro che confermare conoscenze già note agli umanisti, pur non sottovalutando l’apporto significativo di questi maestri di pensiero. Freud invece è stato un grande innovatore e grazie a lui gli artisti hanno iniziato a esplorare l’inconscio in modo mai così approfondito, anzi prima della psicoanalisi molti lo rimuovevano.

Perché un’opera sia veramente artistica, secondo il diagramma dell’ovoide di Assagioli, l’io deve approdare al Sé transpersonale, almeno in modo parziale e provvisorio, e anche all’incontro collettivo, anche esso in modo almeno parziale e provvisorio: un’opera artistica quindi si caratterizza prima di tutto per la sua universalità a livello psichico. Dispiace che la letteratura difficilmente sia mitopoietica,  ovvero non crei più miti, grazie a cui si potevano fissare degli archetipi nella psiche dei fruitori.

I greci avevano il nichilismo, ovvero la concezione secondo cui persone e cose sono nel niente, esistono nel divenire e poi ritornano nel niente, ma avevano anche una letteratura mitopoietica,  che trasmetteva dei valori perché in ogni mito c’era un principio etico e ogni favola aveva una sua morale. Questo era l’antidoto efficace al nichilismo.

Oggi solo il cinema in parte è mitopoietico, ma più che miti spesso lo show-business crea mode e idoli di cartapesta, che dopo qualche mese vengono sostituiti e fagocitati. Oltre ad avere un bombardamento pornografico e un bombardamento di notizie l’uomo contemporaneo è bombardato da miti di ogni genere di brevissima durata.

 

 

Mito: fascino e magia senza tempo

Nonostante la familiarità che tutti abbiamo con i racconti della mitologia, il mito rimane un oggetto misterioso che ogni cultura sembra forgiare secondo criteri propri e che non smette di affascinare; perché il mito è un qualcosa che accade ogni giorno.

Mito: origini

L’idea di una sfera mitologica come universo organico di racconti che precederebbe il nascere del logos e della filosofia è tuttavia estranea ai greci. L’opposizione tra mito e logos si svolge in modo lento e tortuoso: la Grecia rimane una terra di frontiera, dove il “favoloso” sopravvive accanto alla ragione “scientifica”.

Nel progetto politico di Platone, l’identità del mito e della parola parlata acquista un’evidenza estrema che investe la vita della città. Il parlato deve essere al servizio degli ideali della città.

Perché continuiamo ad essere affascinato dal mito, dal “c’era una volta”, tanto che spesso lo facciamo entrare nel nostro quotidiano?

Tra linguaggio e memoria

Se la prima mitologia è considerata da molto l’effetto di una malattia parassitaria del linguaggio, le cui tracce sono ancora riconoscibili sulla superficie scritta delle società più razionali, la mitologia in senso moderno è quindi un’invenzione della scrittura: nasce quando il segno scritto immobilizza il flusso della parola viva che si ripete in una infinità di varianti.

Per salvare una certa idea di mitologia, come sostiene Marcel Detienne, si evoca fin troppo spesso, l’inventività della memoria e dell’oblio, vissuti in perfetta unione con la naturalezza di Filemone e Bauci, favola contenuta nelle Metamorfosi di Ovidio, in cui si racconta della virtù dell’ospitalità che viene ricompensata.

Il mito nella modernità

Solo oggi è diventata viva e presente in modo quasi veemente la lotta della memoria e dell’oblio, da quando si sono moltiplicate le società, dove gli storici non sono diventati altro che dei funzionari e dei burocrati ufficiali, in cui la lotta contro il potere costringe uomini e donne ad alzarsi di notte, per ripetere, contro ogni speranza, le parole dei loro defunti privati della scrittura, o i versi fuggitivi e indimenticabili dei poeti messi al bando e assassinati?

Ma c’è paradiso per la memoria e per l’oblio? O forse non vi è altro che il lavoro dell’una e dell’altra  e i modi di lavoro che hanno una storia. Una storia ancora da iniziare. Ma nulla è più familiare del mitologia, perché come sosteneva Levi-Strauss, “un mito è riconosciuto come tale da ogni lettore, in ogni parte del mondo”.

Cos’è che ci affascina maggiormente della mitologia in un mondo senza miti, dove nello spazio di due o tre generazioni, tutto ciò che viene detto è soggetto a cambiamenti continui e inevitabili, qualunque siano l’autorità e il numero “dei ministri della memoria”?

Forse proprio questo flusso di parole, storie e racconti a cui ognuno di noi può togliere o aggiungere qualcosa, magari di più gradevole, come diceva Fontanelle, ma non con lo scopo di colorare qualcosa di già “falso”.

Alle nostre orecchie, il memorabile è inconsciamente e necessariamente vero e mai ci stancheremo di ripetere e ascoltare certe storie.

La mitologia allora non sarà proprio frutto di una memoria estranea ai processi della scrittura e libera dalla tirannia del testo? Solo la memoria inventiva, sorella dell’oblio, potrebbe salvare del tutto la mitologia o sottrarla all’erranza in cui i greci l’hanno condotta, durante le nostre letture.

L’opinione di Barthes

Su questo particolare aspetto, può venirci in soccorso Roland Barthes secondo il quale la mitologia può avere solo un fondamento storico, perché il mito è una parola scelta dalla storia e non può sorgere dalla ‘natura’ delle cose”.

In sintesi Barhes vuole dirci che il mito è un sistema di comunicazione, avendo tutte le caratteristiche di un messaggio. “Il mito – afferma – non nega le cose, anzi, la sua funzione è di parlarne; semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura e come eternità”.

Di una cosa si è sicuri, il mito non è un qualcosa di negativo negativo, ma, come farlo vivere in modo “eterno” in una società idolatra e non più iconoclasta come la nostra?

Sempre sulla scia di Barthes, per il quale vi è bisogno di una scienza della mitologia basata sulla semi-oclastia, probabilmente sarebbe opportuno riconoscere nelle narrazioni mito-logiche un elemento eternizzante da demitizzare, riconducendo tali favole al loro inaggirabile fondamento storico.

In fondo la nostra ragione si fonda anche su alcune finzioni. E nemmeno questo può rappresentare qualcosa di necessariamente negativo.

 

Fonte: L’invenzione della mitologia, Marcel Detienne

 

Mythology: timeless fascination

 

‘Gli occhi di Nausicaa’, la silloge junghiana di Marina Cherubini

Marina Cheubini è nata a Brescia il 6 agosto 1988. Dopo la maturità scientifica si è laureata in “scienze filosofiche”.  Nel 2013 ha  scritto la  prima raccolta di poesie: “Componiti, Mistero”,  vincitrice della XXXIV edizione del  Premio “Letteratura”, attribuitole dall’Istituto Italiano di Cultura di Napoli. Ecco ora  questa sua seconda silloge, “Gli occhi di Nausicaa”, edita da QuiEdit.

In questa sua ultima raccolta si possono trovare molti componimenti pregnanti e di ottima fattura. Estetica e mitologia vanno a braccetto con sobrietà e senso della misura. Una ricerca poetica di questo tipo sottende una lettura ben digerita ed assimilata di Jung: significa far parlare gli archetipi e l’inconscio collettivo, ricercare il proprio Sé, cercare di compiere il proprio percorso di individuazione.

Con ponderatezza sceglie la via del prerazionale, ma lo fa, per l’appunto, con circospezione e prudenza, senza gettarsi a capofitto nei meandri dell’ignoto: la sua coscienza è sempre vigile. L’autrice si situa poeticamente in una posizione intermedia tra interno ed esterno, anche se il suo viaggio deve intendersi innanzitutto come esistenziale ed interiore. In questa sua ricerca è tutta tesa all’essenziale, i suoi versi non tracimano né strabordano mai.

L’autrice Marina Cherubini

Va sottolineata ne Gli occhi di Nausicaa, anche l’ironia e il divertissement, che caratterizzano questa opera: se la mitologia ne è il pilastro, l’ironia ne è il substrato; in ogni modo sia le fondamenta che la struttura di questo libro sono benfatte e solide. Le basi, come si suol dire, ci sono. La poetessa non ricerca l’empatia e non esprime nella pagina il suo disagio.

La priorità dell’autrice non è assolutamente quella di persuadere, stupire il lettore. Non ammicca mai né c’è traccia nei suoi scritti di compiacimento. Il suo è un isolamento, che non conduce alla solitudine, ma al raccoglimento, alla contemplazione disinteressata. Il fine ultimo non è quello di impressionare né quello di fare in modo che il lettore si immedesimi. Non fa leva su una presunta sensibilità spiccata, come fanno in molti.

Ne Gli occhi di Nausicaa non si assumono pose. Non si parla della propria condizione psicologica, sociale, esistenziale. La soggettività della raccolta poetica trascende i puri dati biografici. L’autrice non vuole che il lettore si identifichi in quello che scrive, probabilmente. Vuole ascoltare la vera musica del mondo, togliendo i rumori assordanti che la disturbano. Vuole far riaffiorare la parte più atavica ed ancestrale di sé stessa, indipendentemente dalla partecipazione del lettore.

Per perseguire questo obiettivo non tratta dell’idea della morte, non fruga nei ricordi, non si cala nella dimensione del futuro. Ci sono essenzialmente l’eterno presente, sé stessa e gli archetipi. Tutto ciò è un atto di onestà intellettuale. La poetessa utilizza come filtro la mitologia, che si interpone e media tra lei ed il lettore, senza mai mettersi totalmente a nudo interiormente.

Le sue non sono effemeridi. Chi cerca una scrittura confessionale la trovi altrove. Infatti sconfina dall’io, scende nei più profondi scantinati, che non sono quelli dell’inconscio freudiano, ma quelli dell’inconscio collettivo. La poetessa trova in Nausicaa, principessa dei Feaci, il suo archetipo: in fondo è lei stessa ad aiutare Ulisse, l’ospite, lo straniero, in una parola sola l’Altro. Ma oltre al piano mitologico c’è quello più prettamente esperienziale perché la  poetessa cerca anche  il rispecchiamento tra realtà e mondo interiore.

Ne Gli occhi di Nausicaa il paesaggio non è mai definito. Ma cosa importa delineare con esattezza un luogo preciso? Un luogo o nessun luogo è l’identità stessa cosa ai fini del suo discorso.

Il luogo è un luogo dell’anima. Fondamentale piuttosto è la correlazione tra il mondo e le sensazioni, tra la realtà esterna e gli stati d’animo, anche se letterariamente il paesaggio non si concretizza e non è facilmente riconoscibile.

Fondamentale è l’ipostatizzazione della parte più profonda di sé, attraverso l’auscultazione dei moti del suo animo e lo scavo interiore. L’armonia col mondo, la completa conciliazione con esso è cosa ardua da trovare, anche per gli esseri più spirituali. La Cherubini si pone comunque ad un livello ulteriore di conoscenza e di approfondimento della realtà.

Gli occhi di Nausicaa, sebbene supportata da una poetica e da certi riferimenti culturali, è leggibile e comprensibile a tutti e questo a mio avviso è un pregio non di poco conto in un periodo in cui le citazioni colte, i richiami intertestuali e gli intellettualismi si sprecano.

Va detto, ad onor del vero, che spesso molti poeti contemporanei mischiano l’immischiabile, fanno delle misture improponibili, cercano nei modi più inverosimili di dare forma all’informe. È un poco come cercare di conciliare l’inconciliabile, come versare nello stesso bicchiere il latte con la birra.

Secondo un vecchio assunto della psicologia il tutto è superiore alla somma delle parti. Ma si potrebbe anche dire che il tutto è la sintesi delle parti.

Invece con Gli occhi di Nausicaa, la poetessa non si cimenta in arditi esperimenti poetici e trovo che sia meritevole per il fatto di non eccedere né strafare mai. Il componimento che mi è piaciuto di più, ma ciò dipende anche dal gusto personale naturalmente, è “Good morning” perché la Cherubini nella notte intravede l’Ombra e l’attraversa definitivamente:

Notte sbadiglio, notte schiamazzo, a

richiamarti fuori sul terrazzo,

guardando alla luna come alla

notte il sole; notte corazza,

coperta di stuole, notte profeta,

sarà ciò che vuole;

del nostro mattino nessuno ha certezze,

o forse un profumo e del sonno carezze.

Sentire la Notte desueta meschina,

sentirla covare e tornare mattina,

aprire la bocca per dire qualcosa,

e riporla in fretta, profumo di rosa.

La Pagina notte s’è aperta e s’è chiusa,

corazza di stelle e spada disusa;

ormai è finito il tuo canto incantato,

sottratto alle vesti del tuo muro innato;

la luce ci prende solenne

e risveglia: lo sguardo la sente e la luna farfuglia.

Giocano gli occhi a rispondere al cenno

e le finestre sbattono: si stanno aprendo.

 

L’autrice in estrema sintesi è ben consapevole che la letteratura europea non potrà più essere mitopoietica, ma questa sua operazione di ritornare al mondo greco è, oggi come oggi, originale. E poi perché cercare un discrimine tra avanguardia e tradizione? Bisogna guardare soprattutto alla bontà dell’opera ed a mio avviso in questa raccolta c’è semplicemente del buono.

 

Di Davide Morelli

‘L’anatomia della sirena’, il romanzo sentimentale dal sapore mitologico di Simone Delos

“L’anatomia della sirena”  (Bertoni Editore), di Simone Delos è un romanzo del genere mainstream/ introspettivo/ sentimentale scritto senza filtri e con abilità poetica. La trama non è mai scontata e i personaggi sono ben caratterizzati oltre al fatto che l’autore ne fa di ognuno di loro un quadro introspettivo eccellente. “Le sirene esistono.”  

Si chiude proprio così il romanzo di Simone Delos, dove l’inganno arriva proprio dal protagonista della storia il pittore maledetto Kostantinos. È una creatura orribile, infatti raffigura il Crono della mitologia, ed è nato proprio da una leggenda che narra di una sirena che si nascondeva su un lontano scoglio nell’Isola greca di Praxos, Tutti i principali personaggi del romanzo sono raccontati e descritti per metà tra uomo e animale, come: Febo che rappresenta Apollo e Diana che raffigura Artemis, non sono altro che i figli di Kostantinos.

I figli del pittore hanno avuto un destino crudele sin dai primi anni di vita, infatti per un subdolo gioco di potere, non hanno avuto un’infanzia felice e sono così diventati difettosi. Nonostante gemelli, si sono ritrovati divisi. Biancalana è troppo grande ed è anche un professore omossessuale e nonostante la sua brillante intelligenza non è considerato completamente un uomo. L’autore analizza e parla molto in questo romanzo dell’incompletezza dei corpi. In sottofondo c’è un ipotesto classicheggiante che racconta episodi mitologici come fossero metafora e guida dei personaggi. Elemento di assoluta originalità e che permea l’intero romanzo di atmosfere epiche.

Il vero motore che alimenta tutta la storia di questo romanzo è l’odio che i due gemelli hanno per il padre, quest’ultimo a sua volta odia i figli per via della morte della compagna. Nel libro metaforicamente i personaggi rappresentano tutti delle sirene e sono metà umani e metà animali, sono come il sole e la luna, sono esseri umani e mostri, pieni di luce e ombre. Kostantinos era emigrato in Italia per amore, ma la sua vita viene trasformata e contornata da odio, menzogne e tradimenti. L’orrore più grande arriva proprio da figli che gli presentano il conto più salato. Chissà se il protagonista riuscirà a redimersi e a trovare un briciolo di felicità, mentre oramai il ricordo della sua Grecia svanisce dalla sa mente e le immagini si fanno sempre più cupe ai suoi occhi.

Il mito, dunque sembra tornare di moda, fortunatamente. Il romanzo si presta ad una versione cinematografica sulla scia del successo della fiction RAI  “Sirene”.

 

Che, vuoi per le medicine, vuoi perché forse un uomo

ha un limite, che per quanto avesse ormai l’orgoglio

disintegrato, un piccolo pezzo di coscienza può ancora

sanguinare, e si mette a sanguinare all’improvviso

macchiando di sangue tutto, anche gli occhi.

Successe una volta che il ragazzo greco mise la mano

sulla maniglia della porta con l’intenzione di uscire e fare a

pezzi cose e persone, pur sapendo che non sarebbe stato

sufficiente a ripagare le ingiustizie, i soprusi subiti.

 

SINOSSI DELL’OPERA. Kostantinos è un pittore. Una ricca famiglia di produttori di olio, una Grecia che nei primi anni Sessanta è ancora integra. Emigra in Italia per amore e lì trova la sua fortuna. Compromessi, menzogne, orrori. Rinnegherà la sua terra e venderà al demonio la vita dei suoi figli, che crescono separati e sempre a un passo dalla follia. Saranno proprio loro, i due gemelli, a presentargli il conto del destino. Mentre la Grecia si disintegra, scopriranno che un tentativo di felicità è possibile, e passa dal perdono alla presa di coscienza che insieme sono più forti anche delle ferite che non si rimarginano.

 

BIOGRAFIA DELL’AUTORE. Simone Pera, in arte Simone Delos è nato a Roma il 26 Marzo 1979. Non è indulgente con se stesso. È una persona per la quale, la vita, spesso è succo di limone spremuto su una ferita aperta. Si perde, spesso, a osservare cose. Oggetti, strade, nuvole. Ha la netta sensazione di non stare al passo del tempo che scorre. Semplicemente non lo gestisce. Si entusiasma per cose futili, e resta a volte indifferente per quelle comunemente considerate importanti. È volubile, umorale e non sempre di buona compagnia. Ha compreso valori che non rispetta. Ascoltato insegnamenti che non mette in pratica. Gli piace il suono di certe parole, ama gli animali. Gli piace la sera quando arriva, il silenzio e l’odore della carta stampata. Troppe cose, ancora, lo destabilizzano. L’unica cosa che lo spinge all’apice lo spaventa. Scrive poco rispetto a quanto vorrebbe. Lo fa stare bene poggiare la testa accanto a quella del suo cane. Seguirne il respiro. Preferisce i finali agli inizi. Il resto sta tutto in quelle poche righe che strappa alle sue mani. È impiegato presso Tim.

‘Horcynus Orca’, il mitico poema della metamorfosi di Stefano D’Arrigo: quando l’epica è uccisa dalla Storia

Soltanto dopo aver letto e riletto Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, romanzo sfrontato, inizialmente rifiutato dall’editoria, il quale getta un ponte nientemeno che tra Storia e Mito, si scopre che anche George Steiner, si era confrontato con l’ambiziosa lingua che – durante le letture che il professor Frasnedi era solito fare ai suoi studenti – mi aveva fatalmente colpito. Poche parole di Steiner, in un articolo apparso sul Corriere della Sera, descrivono l’emozione della lettura e dell’incontro-confronto con una lingua che ha un’intonazione nuova e riconoscibile e che, anche a me, sembrò fin da subito aver qualcosa da dire:

[…] mi trovai, matita in mano, a leggere e rileggere la stessa pagina nello sforzo di capire; consapevole che molto di quel che c’ era scritto mi sarebbe rimasto oscuro. Non importa. Il moto oceanico della storia, il fantastico potere dell’intreccio di motivi arcaici mitologici e della feroce realtà della Seconda Guerra Mondiale, la capacità di D’Arrigo di dare una vita violenta e lirica agli elementi del tempo e del paesaggio, del mare e della terra, mi fecero superare ogni barriera linguistica e grammaticale.

I procedimenti sintattici e retorici, le “riscritture interne” che caratterizzano lo stile di Horcynus Orca, hanno spesso la funzione di «stabilire un contatto privilegiato col lettore».

Horcynus Orca “non ha un principio, uno svolgimento, una conclusione. E’ un continuo divenire, un costante andare, un eterno ritorno. Parole, idee, ricordi, suoni, immagini, fantasie, colori, sapori, dolori, passioni sono tutti là dentro, in quella profonda gola narrativa che è “L’Orca”. La storia personale di Stefano D’Arrigo é strettamente intrecciata con quella del suo poema epico moderno, Horcynus Orca, appunto. Un lavoro che ha impegnato l’autore siciliano per quasi vent’anni in continue riscritture e aggiunte, invenzioni stilistiche e lessicali, rimandi all’epica classica e alle nuove tecniche di scrittura del ‘900. Un impegno costante che ha contribuito a trasformare “I fatti della fera” (questo il titolo originario) in un mitico ed epico poema della metamorfosi, facendo del libro la risposta europea a Moby Dick di Melville.

‘Ndrìa Cambrìa, dopo l’8 settembre del ’43, è un marinaio della fu Marina Regia che, sbandato, intraprende il viaggio di ritorno a casa da Napoli a Cariddi sulla punta siciliana dello Stretto di Messina. È il classico viaggio di ritorno dell’eroe dalla guerra: l’evidente riferimento immediato è l’Ulisse omerico, letto però con la lente distorcente dell’Ulysses joyciano.

L’eroe di D’Arrigo ritrova un mondo devastato materialmente e spiritualmente, definitivamente altro rispetto a quello che aveva lasciato; un mondo nuovo, allucinato e orribile che gli si manifesta per “arcana e enimmata”: gli incontri, i discorsi che si sente fare, i fatti cui assiste e partecipa non sono più inquadrabili dentro le coordinate esistenziali che l’avevano visto crescere e farsi uomo, ma devo essere rivisti nella penombra di nuove coordinate che stentano, però, ad apparire, a farsi chiare. Ma in quanto eroe ‘Ndrìa non si rassegna, soffre e lotta per far rivivere il mondo com’era, si oppone ostinatamente a quello nuovo e sconosciuto, vorrebbe fare della Storia una parentesi vinta e reinglobata nel Mito. Un eroe che l’autore, già al di là di quella storia, già conscio dell’irrimediabile trasformazione, vota alla sconfitta.

Horcynus Orca é una lettura che manifesta l’immensa ricchezza tematica con cui  D’Arrigo ha voluto caratterizzare la sua opera. Le scelte lessicali misteriose, i parallelismi tra i suoi personaggi e quelli dei grandi poemi epici, come l‘Odissea e l’Eneide, l’Orca vista come simbolo accostabile al Leviatano, sono tutti elementi che affascinano e sfidano il lettore, invitandolo ad avventurarsi nella grandiosa costruzione su cui D’Arrigo ha trascorso una vita.

Il lettore è guidato ad apprendere una nuova lingua, a coglierne il senso rispondendo attivamente al testo. Per capire come il percorso della scrittura renda comprensibile e arricchisca le potenzialità significanti del lessico confrontiamo FF e HO riguardo alla prima
occorrenza di tangeloso. In HO si nota un rafforzamento del sistema di riscritture e glosse interne al testo:

[Cata] Se ne stava in un’aria queta ma delicata, e in quest’aria tutta tangelosa appariva contornata da una maestosità senza ragione e senza forza
[Cata] Se ne stava là, posata più che seduta sul bordo della cofana, fra le due vecchie all’impiedi, tutte in muti riguardi, sola con quel suo sorriso strano, terribile, beato: in un’aria delicata, in vetrina, come qualcosa di intoccabile dietro un vetro, in un’aria tutta tangelosa, dove appariva contornata da una maestosità senza ragione e senza forza.

Il significato di tangelosa è orientato dal cotesto. In HO si può vedere come l’espressione venga levigata per focalizzare con più precisione il complemento di luogo e l’aggettivo che potrebbe dare il senso di tutta la scena. I due punti hanno il ruolo di scandire il ritmo. Prima è stabilita un’ambientazione, subito inscritta nell’evidenza dell’avverbio di luogo cataforico, e poi dispiegata nei dettagli nei cola seguenti.

Poi, la scrittura si fa più impressionistica, cerca di cogliere il senso che si cela appena sotto l’evidenza del reale. Rispetto a FF, in HO viene isolato questo momento, ed evidenziata la dimensione indugiante, in cui per approssimazioni successive si giunge all’«aria tutta
tangelosa».

Questo indugiare è l’effetto della sintassi giustappositiva, con i complementi che si accumulano (con una disposizione a chiasmo delle ripetizioni: in un’aria delicatavetro-vetrina-in un’aria tangelosa) e conducono il lettore a interpretare l’aggettivo in base al cotesto. L’interpretazione rimarrà sicuramente nello spazio dell’incertezza, ma la comprensibilità è assicurata. Nelle successive occorrenze98 del termine non ci sarà più bisogno di “inquadrarlo”, e allo stesso tempo queste occorrenze saranno altrettanti inviti a rielaborarlo ed acquisirlo nella lingua della lettura.

Horcynus Orca si potrebbe forse intendere come un rimpianto per la scomparsa dei dialetti e delle modalità di conoscenza e di vita ad essi associati. L’allentarsi del legame tra il nome e la cosa, la scoperta di un mondo e di una lingua in cui “la fera non è fera”, permette l’intrusione del nome italiano del delfino nel codice linguistico di ‘Ndrja; il nuovo nome dà il via ad un riassestamento cognitivo, una rotazione reciproca dei nomi intorno alla cosa in sé, che non ha più un senso univoco.

Si può dire che sia tipico di Horcynus Orca creare “spirali linguistiche” che tentano di conferire senso al lessico attraverso una paziente messa a fuoco; d’altra parte la “profondità di campo” lascia scorgere la rete di relazioni che collega il primo piano allo sfondo, cioè che conferisce senso ai singoli elementi inscrivendoli nel sistema linguistico complesso del romanzo. In questo sistema al nome fera sono collegate, come si è visto, aree semantiche e attributi relativi alla malignità e alla finzione.

Come ebbe a dire Giuseppe Pontiggia: “‘Horcynus Orca’ è un mitico e epico poema della metamorfosi. La concezione del mondo come metamorfosi affonda le sue radici nella religiosità mediterranea… Per questo D’Arrigo ha potuto creare un epos moderno, riprendendo, come Joyce nell’Ulisse, un tema mitico: perché in un’età in cui il mito dominante è quello di dissolvere i miti arcaici, solo la tragedia incommensurabile della loro perdita può essere il tema della tragedia”.

L’opera di D’Arrigo, che rappresenta un universo personalissimo e autosufficiente, dove si indossa ma maschera per proferire la Verità, può essere letta secondo le più diverse chiavi di lettura, simboliche, allegoriche, sociali, politiche, ma che è prima di tutto un grandioso progetto letterario, una sorta di “riesumo” dell’epica  rivissuta come approccio letterario al mondo. Quella di D’Arrigo è un’epica orientata verso il nero della morte, e talvolta sembra perdere quell’equilibrio, quella compresenza tra fatalità tragica e rinascita vitale che è una delle peculiarità del movimento epico. È un’epica nella quale il Mito è come ucciso dalla guerra, dalla Storia.

Poteva calarsi a Scilla, per dire, e da l“dirigere, visav“ o quasi con la rocca scillota, a Cariddi, anche se questo significava bordeggiare per tutta la sua lunghezza, dicinque miglia all’incirca, la linea dei duemariò.
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