Edna St. Vincent Millay, poetessa scapigliata ed impegnata vincitrice del Pulitzer nel 1923

Un secolo fa, nel 1920, Edna St. Vincent Millay, ragazza sognatrice e audace, di astratta bellezza, pubblica A Few Figs From Thistles: non è il suo esordio (alcuni testi, insieme al poema Renascence, pura potenza – “Io vidi, udii, conobbi fino in fondo/ di ogni cosa il Come e il Perché:/ il passato, il presente e il per sempre” –, uscirono nel 1917), ma è il libro che la rende regina del Greenwich Village, la diva degli intellettuali scapigliati.

Per via di quella poesia ambigua, spigliata, sul crinale della carne, l’anno dopo Edna fece il canonico viaggio a Parigi, diventò amica di Constantin Brancusi e di Man Ray, fu femminista, impegnata, conservando, nei versi, sempre, la misura lirica.  “Come la sua poesia, così la sua morte sarà all’insegna di una tragica, ironica leggerezza: scivolerà dalle scale la notte del 18 ottobre 1950, con un bicchiere di vino rosso in mano, dopo molte ore dedicate alla rilettura di una sua traduzione dell’Eneide”, scrive Silvio Raffo, che delle Poesie di Edna è il gran traduttore.

Per gran parte della sua carriera, la vincitrice del Premio Pulitzer Edna St. Vincent Millay è stata una delle poetesse di maggior successo e rispettate in America. È nota sia per le sue opere drammatiche, tra cui Aria da capo, The Lamp and the Bell, sia per il libretto composto per un’opera, The King’s Henchman, e per versi lirici come “Renascence” e le poesie presenti nelle raccolte A Few Figs From Thistles, Second April, e The Ballad of the Harp-Weaver, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1923.

Come il suo contemporaneo Robert Frost, Millay è stata una delle più abili scrittrici di sonetti del ventesimo secolo, e come Frost, è stata in grado di combinare atteggiamenti modernisti con forme tradizionali creando una poesia americana unica. Ma la popolarità di Millay come poeta aveva almeno altrettanto a che fare con la sua persona: era nota per le sue letture e spettacoli avvincenti, le sue posizioni politiche progressiste, la rappresentazione franca sia dell’etero che dell’omosessualità e, soprattutto, la sua incarnazione e descrizione di nuovi tipi di esperienza ed espressione femminile.

Dalla fama quasi universale negli anni ’20, la reputazione poetica di Millay è diminuita negli anni ’30. Pochi critici pensavano che avesse speso bene il suo tempo traducendo Baudelaire con Dillon o scrivendo la discorsiva Conversation at Midnight (1937). La sua franchezza finì per sembrare antiquata quando la poesia intellettuale del Modernismo internazionale divenne di moda. Nel 1931 Millay disse a Elizabeth Breuer in Pictorial Review che ai lettori piaceva il suo lavoro perché trattava temi antichi come l’amore, la morte e la natura. Quando Winfield Townley Scott recensì Collected Sonnets e Collected Lyrics in Poetry, disse che i “letterati” avevano rifiutato Millay per “disinvoltura e popolarità”.

Negli anni ’60 il Modernismo sposato da T. S. Eliot, Ezra Pound, William Carlos Williams e W. H. Auden aveva assunto una grande importanza, e la poesia romantica di Millay e delle altre poetesse della sua generazione fu largamente ignorata. Ma la crescente diffusione del femminismo alla fine ravvivò un interesse per i suoi scritti, e lei riguadagnò il riconoscimento come scrittrice di grande talento, una che creò molte belle poesie e parlò liberamente nella migliore tradizione americana, sostenendo la libertà e l’individualismo; difendere i principi umanisti radicali e idealistici; e nutrendo ampie simpatie e un profondo rispetto per la vita.

La belva che mi strazia ovunque io vada,
questa passione, questa obliosa brama
che mi soggioga al declinante autunno,
mi lascerò, saziata, in primavera.
Chiusa la piaga, sparirà la febbre,
in seno il cuore scioglierà il suo nodo;
prima che torni il picchio avrò scordato
il tuo sguardo, mio oriente e occidente.
Ma da un simile artiglio non sarò
mai più sicura, anche se amassi ancora:
lungo il mio corpo, vigile nel sonno,
tagliente al bacio, neve alla carezza,
come una spada questa cicatrice
fra me e il turbato amante resterà.
*
La notte è mia sorella, io nel profondo
dell’amore annegata, giaccio a riva,
acque e alghe a fior d’onda mi lambiscono,
mi ferirà la draga, e c’è di più:
lei, solo braccio teso dalla sabbia,
unica voce il cui respiro sento
a sgelarmi le nari, ad aprirmi la mano,
lei potrebbe avvisarti, se tu udissi.
Ma di certo è impensabile che un uomo
in sì dura tempesta lasci il quieto
focolare e s’imbarchi al salvataggio
di un’annegata per portarla a casa,
sgocciolante conchiglie sul tappeto.
Buia è la notte, e per me piange il vento.
*
Verrà il momento, polvere superba,
che a giacere con me sarai gettata.
Che sia il sangue fremente, o come ruggine
su un infranto congegno. E così sia.
Se non oggi, più tardi; se non qui,
sull’erba verde, in sospirosa ebbrezza,
al di sotto, da buone amiche, cara,
insieme dormiremo nella notte.
E, stanne certa, più violento e rude
che ogni ardore del corpo voluttuoso
sarà il bacio umiliante della tenebra
che alfine chiuderà l’altera bocca.
La morte non ha amici: presto o tardi,
torni a nutrire il drago con la luna.
*
Veglia i sentieri della mia passione
come notturna tenebra il pericolo.
Deserti intorno. Da me s’allontani
chi è come il bimbo che l’ombra atterrisce,
fugga da questo luogo infido dove
tremule, oscure e pallide le rose
ondeggiano nell’aria senza stelo
e raggela le mani la rugiada.
Chi è come il bimbo che non ha paura
del buio della notte, lui soltanto
rimanga qui, gli occhi d’amore ardenti,
scaldato dalla febbre delle vene
giaccia quieto con me, protetto dall’insonne
Bellezza e dalla sua tenera spina.

Edna St. Vincent Millay

 

Fonte: https://www.poetryfoundation.org/poets/edna-st-vincent-millay

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