L’alienazione dal sacro e il continuo manifestarsi delle ierofanie tradizionali e moderne, tra Pasolini e Jung

Tramontate le ipotesi di un futuro senza religione, il sacro o l’archetipo tendono ad assumere un’apparenza tecnica, accettabile senza difficoltà anche dalla forma mentis illuministica; così, pure attraverso manifestazioni degenerate, quali teorie ufologiche, psicologie sacralizzate o feticci tecnologici, esse continuano a parlarci di una ineliminabile dimensione altra. L’occhio d’improvviso gli splende, il tono della voce si accalora, il discorso conosce l’inconoscibile tenerezza, scrisse Pier Paolo Pasolini («Tempo», 5 aprile 1969) ma non per descrivere l’incontro tra due amanti o il passaggio ad uno stato estatico, quanto l’ultima ierofania possibile: il discorso sul motore. L’ultima emozione in grado di scuotere i giovani spentisi nella società del benessere occidentale: parole di amore e di adorazione innanzi ad un cruscotto, quali estremi rantoli dell’agonia di Dio. Tale agonia, secondo Pasolini, non sarebbe durata ancora a lungo, salde allora le previsioni o piuttosto la “fede” in un futuro assolutamente non religioso infine mai giunto, smentito clamorosamente dal fuoco dei fondamentalismi, come dal rinnovato manifestarsi della religione quale realtà culturale necessaria alla comprensione dell’umano e del sociale fin dentro la modernità più tarda.

Pratiche e credenze religiose risultano infatti tutt’ora ben lungi dal dissolversi, anche nel modo secolarizzato, tra la resistenza, più o meno strenua, delle istituzioni religiose tradizionali, la pretesa antimoderna dei modernissimi fondamentalismi e le tendenze fluide della religiosità New Age; queste ultime spesso assai armoniche agli irresistibili processi disgregativi all’opera in ogni campo. Credenze e riti religiosi invece che scomparire, anche quando la globalizzazione ha mandato in frantumi i rispettivi contesti e le rispettive istituzioni di appartenenza tradizionale, sono caduti preda della forza centrifuga del tempo; offrendosi quali frammenti-merce ai moderni individui consumatori, anch’essi più o meno frantumati. I quali, nel contemporaneo super market del religioso, hanno conseguito la possibilità di acquistare, provare ed eventualmente gettare via in un secondo momento, credenze, pratiche, miti e riti, componendoli liberamente tra loro per ottenere una religiosità personale, unica e privata, scollegata dall’originale provenienza dei frammenti e naturalmente in qualunque momento revocabile, modificabile ad libitum. I templi moderni non si innalzano verso il cielo ad onore di Dio, quanto ad onore del proprio mutevole, umano capriccio consumista.

Così, contrariamente alle previsioni di Pasolini, anche la ierofania del motore ha continuato a manifestarsi, raggiungendo il massimo grado nel feticismo del telefono cellulare: medium del legame sociale e di legami sociali effimeri, nemico di limiti e giuste misure, nella sua rincorsa infinita verso sempre nuovi modelli, fondatore di una temporalità ultima dove tutto è subito e niente può valere, costare o distare più dell’attimo di un clic. Se non possono più Apollo e Dioniso, surrogano pertanto oggi gli smartphone, aprendo ecstasy solari apatiche verso la flebile luminosità dei touchscreen o scatenamenti tellurici, ritmati dalla continua ripetizione di toni e vibrazioni della messaggistica.

In maggior grado che il motore, proprio il telefono cellulare ha infatti portato alle conseguenze estreme quanto già aveva osservato Pasolini. Esso, dopo essersi lasciato adorare, da strumento è giunto a confondersi con la soggettività che ha creduto di utilizzarlo: insieme all’adorazione per questo oggetto privilegiato c’è una tendenza alla fusione e all’identificazione con esso: io sono il mio motore [telefono cellulare]… oppure: io manco di motore [telefono cellulare], quindi sono privo di comunicazione col divino. Non sorprende affatto la cogenza con la quale il moderno capitalismo riesce a suscitare il desiderio di acquisto verso sempre nuovi prodotti, spesso desiderata tecnologici, scatenanti la ierofania del momento, alla quale è sempre più difficile rinunciare; pena la perdita di comunicazione con il divino nonché della propria personalità. Va in oltre da sé, come il pericolo di tali perdite non possa essere scongiurato definitivamente, stante la folle corsa alla novità inesausta dei prodotti e delle credenze, invertendo la tendenza di una storia delle religioni che aveva fin qui manifestato la novità quale elemento di eccezione, lontana dal rappresentare la regola.
Esiste però anche un’altra ierofania moderna o piuttosto una teofania, le cui forme hanno mantenuto una maggiore costanza rispetto a quelle dei desiderata tecnologici; apparentemente meno distante dalle manifestazioni del sacro tradizionali: l’ossessione per gli ufo. Carl Gustav Jung ha dedicato uno dei suoi ultimi studi al fenomeno: Un Mito Moderno, le cose che si vedono in cielo (1958). Attraverso tale opera, sospendendo il giudizio sulla realtà fisica degli ufo, certo concretissimi per coloro i quali li osservano, Jung ha analizzato i dischi volanti dal punto di vista psichico; rendendo pertanto poco significante la distinzione tra l’eventualità di fenomeni psichici capaci di originare una sensazione visiva, confermata da un’eco radar e la comparsa reale di oggetti fisici, incidentalmente utili all’inconscio, al fine di manifestare quanto non può più assumere una forma mitologica tradizionale.

Sempre che tali ipotetiche corrispondenze tra fenomeni fisici e psichici, piuttosto che in termini causali, non possano spiegarsi meglio tramite una constatazione di sincronicità; al modo di quella che secondo Jung, avrebbe affiancato la realtà dolorosa di un’umanità scissa al sincronico rappresentarsi delle due polarità sessuali in ottica di antitesi: con la raffigurazione del principio maschile nella stella rossa dell’Unione Sovietica e del principio femminile nella stella bianca degli Stati Uniti, applicando la lettura simbolica dei colori propria dell’alchimia occidentale.
La forma circolare degli ufo rappresenterebbe così soprattutto, nella geometria archetipale comune (ad esempio la mandala), l’unione degli opposti e l’integrità dell’anima; bisogno inconscio di un individuo moderno, interiormente minacciato da rischi di scissione dell’io e oppresso al di fuori dalla spaccatura dell’umanità tra i blocchi degli Usa e dell’Urss, in bilico sul precipizio spaventoso dell’apocalisse nucleare. Nota di fatti Jung, come spesso gli ufo preferiscano sfidare le leggi fisiche del volo attraverso i cieli degli Stati Uniti ed effettuare le proprie evoluzioni nelle prossimità di aeroporti o installazioni nucleari; mentre diverse teorie ufologiche siano solite spiegare tale propensione, proiettando sugli abitanti di altri mondi l’umana preoccupazione per lo sviluppo dell’arma atomica e la nostra capacità di esplorare lo spazio cosmico. Quanto ai rischi di scissione dell’io, ad essi non è estraneo il modello educativo contemporaneo, di tipo tecnico, estremamente specialistico ed esclusivamente materialista che, rivolto allo sviluppo di una singola facoltà dell’essere umano, esclude l’inconscio e contribuisce alla disgregazione anche della società. No, non sorprende che l’ossessione per gli ufo si sia manifestata prima negli Stati Uniti e di lì progressivamente, assieme allo stile di vita americano, si sia diffusa nel resto del mondo.

Innanzi a questo uomo ultimo, razionale, illuminista, ormai lontano dalle concezioni religiose dei suoi antenati, avvinto dalla fede nel mondo terreno e nella propria potenza, convinto di poter fare a meno di inconscio, dei e spiriti, occorre che l’archetipo assuma in contrasto con i suoi aspetti precedenti una forma concreta, anzi addirittura tecnica, per evitare l’indecenza di una personificazione mitologica. Ciò non di meno va rilevato come neanche tale uomo riesca davvero a rinunciare alla speranza di un intervento divino salvifico, inconsciamente percepita l’impossibilità di superare con le sole sue forze un’epoca divenuta ormai intollerabile; eppure perfino le divinità devono sottostare al primato della tecnica che, già dispiegatosi su tutti i campi del sociale, va appropriandosi anche della dimensione del sacro, alienandola dalle manifestazioni tradizionali quali le religioni, Dio o gli Dei, in favore di nuove espressioni più plausibili scientificamente come teorie ufologiche, ipotesi di fisica quantistica, arti della guarigione o psicoterapie sacralizzate. L’uomo moderno accetta senza difficoltà ciò che presenta un’apparenza tecnica, così anche le più recenti manifestazioni del sacro assumono tale aspetto.

Pare pertanto potersi concludere come la civiltà contemporanea, con il suo primato della tecnica, piuttosto che svilupparsi verso un futuro assolutamente non religioso, tenda piuttosto ad appropriarsi anche della non eliminabile dimensione del sacro; ma non di meno anche come, se pure per tramite di un cellulare connesso ad Internet – meglio se costoso – o di un alieno, percepito come divino perché più ricco di tecnica, l’uomo moderno, alla dimensione del sacro, desideri ancora rapportarsi. Le ierofanie, moderne o tradizionali, continueranno a manifestarsi e ad esercitare un ruolo significativo nel futuro dell’umanità.

 

Alessio Mariani

Simone Weil, tra i più grandi filosofi del Novecento, fuori da un qualsivoglia sistema entro cui ripararsi, rigorosa cercatrice di Verità anche a scapito della Vita

Filosofa, sindacalista, insegnante, operaia, rivoluzionaria, soldato, idealista, anarchica, mistica, ebrea, cattolica, Simone Weil era tutto questo e molto altro ancora, e la sua vita, più delle sue opere, testimonia di una personalità sempre coerente, esplosiva, anticonformista. Nasce a Parigi nel febbraio del 1909 da una ricca famiglia ebrea. Un’anima sensibile quella della Weil, che a soli quattordici anni affronta una prima crisi esistenziale accompagnata da forti emicranie. Superata la crisi ai tempi del liceo, diviene allieva di La Senne e Alain – quest’ultimo rimase un esempio per l’attivismo politico – ottiene la laurea in filosofia nel 1931 all’Ecole Normale Superieure. E’ a questo punto che comincia la carriera vera e propria della Weil divenuta, subito dopo la “licence”, insegnante di filosofia nelle piccole città di provincia di quella Francia ancora scossa dalla guerra. Ad una vita di soli studi ed insegnamento, Simone Weil accosta con vocazione sempre più intensa la sua passione per il mondo sindacalista, rivoluzionario e anarchico, con una dose di ispirazione marxista.

Simone Weil: tra filosofia, mistica e politica

Ma di Marx, la giovane filosofa – radicata ad un’idea più mistica e spirituale – pur accettando la critica al capitalismo e allo sfruttamento della classe proletaria, non condivide il materialismo storico e il determinismo, la concezione di progresso, quella “necessarietà” ineludibile delle cose che fonda l’analisi marxista. Così, dopo un primo periodo di vicinanza con le lotte sindacali (la Weil arriverà a sconvolgere l’opinione pubblica di Le Puy distribuendo volantini di sciopero assieme ai movimenti operai), pur senza iscriversi a nessun partito, Simone abbandona l’insegnamento per dedicarsi pienamente all’esperienza della vita proletaria e nel 1934, per otto mesi lavora come manovale nelle officine Renault. L’alienazione del lavoratore, la monotonia, la frustrazione, lo sfruttamento del salariato inteso come “schiavitù pagata”, sono temi di cui l’esperienza diretta influenza la filosofa con grande intensità.

Lo sperimentare diventa perciò il mezzo principale per comprendere e migliorare un sistema sociale che non guarda negli occhi i più deboli. La volontà di stare dalla parte degli oppressi la porta in Spagna nel 1936, durante la guerra civile, dove si aggrega con i repubblicani che ritiene, nel mezzo del conflitto, la fazione dei “giusti”. Nel caos della guerra comprende, tuttavia, come nella violenza la giustizia tende inevitabilmente a sparire, ed è così che, ferita, torna in patria, attraversando prima l’Italia. Ad Assisi, nella cappella di Santa Maria degli Angeli, Simone Weil ha la sua prima esperienza mistica che la porta a stretto contatto con il Cristianesimo. La potenza esemplare della vita semplice ed umile di San Francesco danno un senso immediato alle sue esperienze. Le sue origini ebraiche, già da tempo rimesse in causa per l’impossibilità di concepire un Dio “degli eserciti”, “delle schiere di Israele”, un Dio che elegge un popolo a discapito di un altro, vengono così sorpassate dalla figura di Cristo, del Dio fatto uomo per l’uomo stesso, un Dio caritatevole e misericordioso che si incarna nel figlio inteso come bene puro, puro amore. La conversione della Weil però, non si ebbe che sul letto di morte, e la sua adesione al Cristianesimo fu sempre seguita da un netto distacco dalla Chiesa istituzionale, che alla religiosità mistica, spirituale e sacra, secondo lei, preferiva i dogmi. Solo sul letto di morte, prima dell’ultimo respiro, alla giovane età di 34 anni la Weil si convertì pienamente dopo essersi trasferita negli Stati Uniti per sfuggire alla minaccia nazista.

Simone Weil quindi, durante tutto l’arco di una vita senza simboli o partiti, è l’espressione dell’emancipazione della donna attraverso una riflessione femminile e in nessun caso femminista (la Weil addirittura si sentiva votata alla verginità, alla purezza: «Il concetto di purezza, con tutto ciò che la parola può implicare per un cristiano, si è impadronito di me a sedici anni, dopo che avevo attraversato, per qualche mese, le inquietudini sentimentali proprie dell’adolescenza. Tale concetto mi è apparso mentre contemplavo un paesaggio alpino e a poco a poco si è imposto a me in maniera irresistibile.). E’ la manifestazione di un pensiero libero che difende la causa dei più deboli a prescindere dal sesso. La sua opera si condensa tutta nella sua vita, in un evoluzione dialettica tra pensiero e azione, dove l’attaccamento alla mistica dell’evasione dall’immaginario collettivo del “noi”, o quello individuale dell’”Io”, può recuperare una concezione di abbandono – verso il prossimo – e disinteresse nell’impersonale, tanto da recuperare i valori del giusto, del bello, del buono e del vero.

“In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio. C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa.”

Comunista senza partito e cristiana fuori dalla Chiesa

Simone Weil è oggi celebrata con spettacoli teatrali, articoli di circostanza, elogi e commemorazioni, ma nessuno indaga a fondo il suo pensiero, il suo nome è sventolato in modo frequente ma superficiale; di lei si conosce l’etnia ebraica e si ricorda la grandiosa coerenza che la spinse a vivere di stenti tra gli operai, rinunciando alle cure che a loro erano precluse, e che alla fine la condusse alla morte; ma poco si sa e si scrive del suo pensiero, della sua opera e della sua stoica solitudine e della sua insofferenza rispetto ad ogni forma più o meno coercitiva di aggregazione, setta o partito (si definì infatti “comunista senza partito” e più tardi “cristiana fuori dalla Chiesa”).

La Weil vive una notorietà di facciata che cela un sostanziale oblio, è un’autrice che con le parole di Hegel potremmo definire “nota ma non conosciuta”, un po’ lo stesso destino che spetta a Pasolini. Se ci riflettiamo, però, è inevitabile: la nostra società oggi non può digerire nulla di Simone Weil.

Il suo pensiero attraversa il Novecento in tutte le sue declinazioni e contraddizioni, smuove le nostre coscienze intorpidite e scardina le certezze ed i pregiudizi più diffusi. Basta sfogliare alcune pagine de La Prima Radice -il suo testo fondamentale- per rimanere sbigottiti di fronte alla profondità dei pensieri, la coerenza delle posizioni, l’efficacia della scrittura, la quantità quasi inesauribile di spunti. L’opera è incentrata sul bisogno di radicamento che per la Weil è il più importante e misconosciuto dell’anima umana, e tra i più difficili da definire. Si è detto che ad esso non corrisponde un bisogno dialetticamente contrario. Il fatto è che il radicamento costituisce il terreno di coltura indispensabile per la soddisfazione degli altri bisogni, cosicché ad essi si oppone non un bisogno correlativo ma la sua negazione, la ‘malattia dello sradicamento’.
La Weil demolisce ad uno ad uno tutti i totem della modernità, che sono poi sopravvissuti e si sono imposti come orizzonte ineluttabile nella post-modernità. Nulla sfugge alla prosa impetuosa della pensatrice allieva di Alain: critica il pacifismo (“il pacifismo può essere dannoso solo perché fa confusione tra due sentimenti di ripugnanza. La ripugnanza ad uccidere e quella a morire. La prima onorevole, ma debolissima; la seconda, quasi inconfessabile, molto forte”), il laicismo militante, che incaponendosi contro la religione senza fanatismo apre le porte ad un fanatismo senza religione (“le tendenze idolatre del totalitarismo possono trovare un ostacolo soltanto in una vita spirituale autentica. Se si abituano i ragazzi a non pensare a Dio, essi diventeranno fascisti o comunisti per il bisogno di darsi a qualcosa”), la cultura accademica, autoreferenziale e avvitata su se stessa (“oggi i professori universitari insegnano a studenti per formare professori che a loro volta insegneranno a studenti per formare altri professori”).

La polemica contro lo scientismo e la considerazione di Hitler

Ma ciò che colpisce di quest’opera è l’ultima grandiosa polemica, quella contro lo scientismo, di cui fa parte la frase citata in apertura di articolo. Qui il pensiero della Weil giganteggia tra quelli del suo secolo, elimina dalla questione della scienza moderna la coltre di fumo che di solito la circonda e la fronteggia senza timori. Il discorso della filosofa è lineare ed implacabile: la scienza moderna ha corrotto l’ideale di scienza così come questa era intesa in età classica. Infatti, ai tempi dei greci la scienza perseguiva, in modo parallelo e non concorrenziale alla filosofia e all’arte, il Bene, che secondo la Weil è il principio che regola il mondo, l’Intelligenza, la Relazione, il Logos, la Giustizia, l’Amore. Tuttavia, con la “seconda parte del Rinascimento” e, più tardi, con la rivoluzione scientifica, avviene a suo giudizio un cambio di paradigma, sottaciuto ma nefasto: la scienza perde di vista il principio regolatore del cosmo, lo stupore aristotelico per l’armonia del mondo, la consapevolezza inebriante della sua sensatezza; ed incomincia ad intendere l’universo come una risultante di forze, contrapposte in modo frontale ed antagonistico. Se “gli antichi erano stati inebriati dall’idea che ogni forza della natura soggiacesse non già ad una forza più forte: ma all’amore”, la scienza moderna ribalta questo discorso: il mondo non è originato da un Senso a cui ogni cosa dolcemente obbedisce, ma è risultato casuale ed accidentale di forze che si affrontano.

La scienza, che fino in età classica perseguiva, come ogni disciplina umana, il Bene, in epoca moderna si pensa “al di fuori del bene e del male; specialmente al di fuori del bene”. Così la Chiesa e la filosofia, cioè la tradizione umanistica occidentale che pensa un mondo regolato dalla giustizia, la stessa giustizia a cui l’uomo anela, sono come marginalizzate, insolentite e via via estromesse di ogni prerogativa dalla scienza moderna, che predica un mondo regolato solo dalla forza.

Ma, osserva la Weil, allora è falso pensare che la scienza sia neutra: essa infatti suggerisce un ragionamento, malcelato ma invadente: se il cosmo è regolato da forze affrancate da ogni giustizia, perché non dovrebbe esserlo anche la società umana? Ed ecco che Simone Weil dice la verità che la modernità non sa dire né affrontare: ecco che mostra il macabro filo rosso che lega la scienza moderna e la politica della potenza, la morte della morale, perfino i totalitarismi.

Cita così la Weil dal Main Kanf di Adolf Hitler: «(l’uomo, nda) sentirà allora che in un mondo dove i pianeti ed i soli seguono traiettorie circolari, dove le lune girano attorno ai pianeti, dove la forza regna ovunque ed è la sola dominatrice della debolezza, costringendola a servire docilmente o a spezzarsi, l’uomo non può richiamarsi a leggi speciali». Ecco qui il ragionamento hitleriano: se nel cosmo, come mostra la scienza, non esiste giustizia ma solo forza, perché dovrebbe sussistere giustizia tra gli uomini? Perché l’uomo e la società dovrebbero fare eccezione nell’universo? Si vede qui espressa con grandiosa chiarezza la parentela misconosciuta tra scienza moderna e nazismo (ed oggi col turbo-capitalismo); la Weil mostra senza veli “la contraddizione”, prima di allora “avvertita solo confusamente”, tra “scienza e umanesimo”, tra trionfo incondizionato della forza ed aspirazione alla giustizia.

Oggi le cose da allora non sono migliorate, semmai sono peggiorate, hanno raggiunto livelli che la Weil non poteva neanche immaginare: la scienza ha acquisito una egemonia totale sulla conoscenza, ed oggi con l’ausilio della tecnica vuole mutare la vita ed il mondo, la società ed il senso comune; la politica si consegna alla scienza e diventa bio-politica.

Simone Weil non considerava Hitler più pazzo dei suoi contemporanei: fu solo più coerente (dice addirittura “coraggioso, di quella particolare specie di coraggio di cui Hitler era capace”), poiché fu il solo a portare il discorso della scienza alle sue estreme conseguenze, a percorrere la strada che la scienza indicava ma non seguiva. Gli scienziati, che predicavano un mondo senza giustizia, in cui trionfasse la forza, ma che poi restavano comodi nella loro società piccolo-borghese, che si accontentavano della loro piccola morale dopo aver stroncato sul nascere ogni anelito alla morale autentica, non erano migliori di Hitler, erano solo più ipocriti. Oggi quest’ipocrisia continua, e continuerà finché avremo la pretesa di fondare una società giusta accettando la menzogna di un cosmo ingiusto, di dare un senso alla vita accettando la superstizione dell’insensatezza dell’universo.

Finché non avremo il coraggio di affermare, con Simone Weil, che se l’uomo tende alla giustizia è già questa la prova indiscutibile che una Giustizia che lo precede, lo trascende e lo sovrasta esiste. Perché “se la giustizia è incancellabile nel cuore dell’uomo, vuol dire che essa ha, in questo mondo, una sua realtà. Allora la scienza ha torto”.

Un pensiero coerente e compatto che disturba diversi intellettuali e accademici

Simone Weil, come ha giustamente notato il critico Berardinelli, non ha confezionato trattati sistematici usufruendo di fondi di ricerca, e per questo dai filosofi di professione, abituati a rimasticare qualunque autore, spesso senza ragioni sufficienti, viene ritenuta a torto un pensatore non sistematico, teoreticamente inadeguato perché frammentario. Niente di meno vero. Simone Weil non ha costruito sistemi, edifici concettuali dentro cui ripararsi. La sua produzione è occasionale, profondamente motivata dagli eventi della sua vita e da quelli politici degli anni in cui è vissuta (il ventennio fra le due guerre mondiali). Ma i suoi articoli e saggi, i suoi diari e aforismi configurano un pensiero straordinariamente coeso e coerente, originale (parola a lei non gradita) nella sua cartesiana lucidità e in una eroica onestà esistenziale. La Weil non si sa come prenderla forse perché non rimanda alle culture dominanti nel Novecento o le respinge, tenendo insieme, non per moderatismo, ma per radicalismo, politica e religione, etica e gnoseologia: e quindi, soprattutto, non viene letta, esige molto dal lettore e disturba in particolare gli intellettuali e la loro categoria oggi prevalente, quella degli universitari.

Per la Weil, che ha raggiunto Dio mediante l’amore (quasi ossessivo) per la verità e non mediante la religione, quindi ispirazione religiosa, psicologia, politica e filosofia sono inseparabili. Amica e confidente di Padre Joseph-Marie Perrin, destinatario delle sue lettere, “Simone Weil ha convertito molti non cattolici, ha deconvertito molti cattolici” come ebbe ad affermare un teologo per testimoniare quale rivoluzionario valore abbia assunto, nel Novecento, un pensiero che si dipana in una piccola costellazione di “libri duri e puri come diamanti, dal lento ritmo incantatorio, dal francese sublime” (secondo le parole di Cristina Campo). Una costellazione al centro della quale si colloca Attesa di Dio, raccolta di scritti – composti fra l’autunno del 1941 e la primavera del 1942 – apparsa postuma nel 1949 per le cure di Joseph-Marie Perrin.

Simone Weil denunciò la scomparsa simultanea dell’ideale e del reale nel nichilismo, la perdita del senso concreto e del soprannaturale come malattia dell’Europa. Che coincide con la perdita del passato: «la perdita del passato è proprio la caduta nella servitù coloniale». Il passato è il deposito di tutti i tesori spirituali, «la perdita del passato equivale alla perdita del soprannaturale». Nel colonialismo inflitto ai popoli extraeuropei la Weil legge il destino del colonialismo afflitto di cui sarà vittima l’Europa. E il passato, una volta perso, «non lo si ritrova più». L’uomo con i propri sforzi costruisce parzialmente il suo avvenire, ma non può fabbricarsi il passato, può solo conservarlo. Privando i popoli della loro tradizione e di conseguenza della loro anima, scrive Simone Weil, la colonizzazione li riduce allo stato di materia umana. Le nazionalità in Europa, notava, saranno presto insidiate dalla frammentazione, dai localismi, dalle patrie regionali. La nazione si troverà schiacciata tra «scale molto più piccole e scale molto più grandi»: alludendo al locale e al globale che verranno.

Intuì l’Europa unita come luogo di riconoscimento delle identità diverse e delle tradizioni. L’Europa, per lei, è una specie di media proporzionale tra l’America e l’Oriente, anzi il perno. Noi europei ci troviamo nel mezzo, siamo letteralmente mediterranei. Solo l’equilibrio annulla la forza. Proiettate questi pensieri nel presente, nell’Europa che rifugge la propria identità e il proprio passato, che non riesce a comprendersi come luogo d’incontro tra Oriente e Occidente e non riesce a capire che la sua centralità, la sua regalità, è nella sua mediterraneità. Quell’intuizione metafisica è pure intuizione geopolitica e strategica. Maledetta apparve ai compagni rivoluzionari, quando preferiva Trotzkij all’ortodossia socialista e sindacalista (ma Simone era a sua volta criticata da Trotzkij); quando denunciava l’irrigidimento dogmatico e violento del comunismo, quando amava la verità sopra il partito e l’umanità sopra le leggi del progresso e della storia. Molesta si rivelò per i repubblicani anarco-marxisti quando li raggiunse in Spagna e cagionò più guai che sostegno ai combattenti. Simone giudicò con orrore i suoi stessi compagni antifascisti per le loro violenze gratuite contro preti e fascisti, anche innocenti. Non furono pochi, del resto, i repubblicani che andarono in Spagna per combattere contro il fascismo ma tornarono inorriditi dal comunismo: capitò anche a George Orwell che poi lo scrisse in Omaggio alla Catalogna e tra gli italiani a Randolfo Pacciardi, che tornò anticomunista. C’è un passo splendido che racconta la purezza dell’impegno rivoluzionario di Simone e la sua sete di martirio: «Mi sdraio supina, guardo le foglie, il cielo azzurro. Giornata bellissima. Se mi prendono, mi uccidono… Ma è giusto. I nostri hanno versato abbastanza sangue. Sono moralmente complice». Simone caricava su di sé le colpe della sua parte ed era pronta a scontarle sulla propria vita.

Simone Weil e gli Ebrei: giudizi al vetriolo

Al vetriolo sono stati i giudizi della Weil (ebrea) sugli Ebrei e sullo sradicamento che avrebbero prodotto nel mondo facendo impallidire le vaghe e paludate allusioni a cui è stato «impiccato» Martin Heidegger. Ne Il fardello dell’identità, troviamo giudizi tremendi. «La maledizione d’Israele – scrive – pesa sulla cristianità. Le atrocità, gli stermini di eretici e infedeli, era Israele. Il capitalismo, era Israele (e lo è ancora, in una certa misura). Il totalitarismo è Israele». E altrove precisa: «Gli ebrei, questo manipolo di sradicati, hanno causato lo sradicamento di tutto il globo terrestre… attraverso la menzogna del progresso. E l’Europa sradicata ha sradicato il resto del mondo con la conquista coloniale. Il capitalismo, il totalitarismo fanno parte di questa progressione nello sradicamento; gli antisemiti naturalmente propagano l’influenza giudaica. Gli ebrei sono il veleno dello sradicamento».

Secondo Simone Weil la mostruosità della religione ebraica fu la pretesa di coniugare divinità e potenza. Mentre in Cristo come in Dioniso, in Osiride come in Zeus, c’è la passione, nel Dio ebraico c’è l’ebbrezza della potenza. «Difficile immaginare un Jahvè supplicante». Da qui la tesi che la storia d’Israele sia storia di massacri e ferocia, la storia di un’idolatria che ha il proprio esito «nell’idea detestabile del popolo eletto». In realtà, arriva a scrivere la Weil, Israele è il popolo eletto soltanto in quanto scelto da Dio per la nascita e la crocifissione di Gesù: «un popolo eletto per essere il carnefice del Cristo».
Simone paragona Mosè a Maurras, il leader della destra francese, perché ambedue concepiscono la religione «come semplice strumento della grandezza patriottica». La Weil vede nell’ebraismo una miscela di fanatismo e di ateismo («un ebreo ateo è più ateo di tutti gli altri»), di religione come volontà di potenza, d’irreligione e culto del denaro. Simone Weil tiene a precisare che «niente certamente ho ereditato dalla religione ebraica» e aggiunge che «se c’è una tradizione religiosa che considero mio patrimonio, questa è senz’altro la tradizione cattolica. La tradizione cristiana, francese, ellenica, questa è la mia; la tradizione ebraica mi è estranea». Giudizi estremi ma d’altronde lei stessa era estrema ed intransigente, né si risparmiava nulla.

Nel 1978 uno scrittore ebreo, Paul Giniewski, scrisse un durissimo pamphlet contro la Weil, accusandola d’ignoranza, odio e malevolenza verso gli ebrei. Arrivò a sostenere che la Weil si mostra indifferente al genocidio del popolo ebraico e per cancellarlo propone una forma di assimilazione, anzi di «arianizzazione». L’obiettivo polemico è il già citato suo testo L’enracinement, curato da Camus, che in Italia pubblicò l’ebreo Olivetti con la curatela dell’ebreo Franco Fortini e col titolo La prima radice, dove Simone Weil difende la centralità delle radici e del dovere, dell’onore e dell’amor patrio, della fedeltà e della tradizione. Ma s’intravede in qualche suo passo quella polemica antigiudaica poi esplicitata in altri scritti, qui pubblicati, e in alcuni passi dei suoi Quaderni. C’è in Simone Weil il rigore assoluto della purezza e l’intransigenza di una cristallina aderenza alla Verità. Ma, come ogni purezza in nome della Verità Assoluta, c’è in lei un forte irrealismo che la spinge a pensare una specie di violenza metafisica nel nome del Bene. La vita è trascurabile cosa rispetto alla Verità, pare voler dire.

C’è però da dire che Simone Weil, morta nel ’43, non seppe la verità atroce dei lager né dei gulag. E non fu mai indulgente verso il nazismo. E poi di quell’assoluta purezza la prima martire fu lei stessa, che sacrificò la vita al rigore del suo amore sovrumano, che rischiò di tradursi in disumano. La Weil patì il risvolto atroce di una santità intransigente e di una bontà spietata verso di sé.

Georges Bataille, che non amava il pensiero di Simone, riconosceva però che pochissime persone gli avevano suscitato interesse come lei. «La sua innegabile bruttezza faceva spavento», ma nascondeva «una bellezza autentica». «Riusciva seducente per un’autorevolezza dolcissima, e molto semplice; era certamente un essere ammirevole, asessuato, con qualcosa di nefasto. Nera sempre, neri i vestiti, i capelli come ali di corvo, la carnagione bruna. Era senza dubbio molto buona, ma nutrita da un pessimismo impavido e un coraggio estremo attratto dall’impossibile, aveva ben poco umorismo». In fondo, nota Bataille, si inflisse la morte per eccesso di rigore e per la sua «asprezza geniale». Chissà se di quelle pagine scabrose, del resto già note in frammenti dispersi, mai raccolte tutte insieme, si preferirà ignorare l’esistenza per continuare l’esercizio d’ammirazione verso Simone Weil o se ne scaturirà via via una serpeggiante emarginazione. Simone Weil nel suo amore assoluto e spavaldo per la verità non ne sarebbe scalfita, tantomeno intimorita. Anzi probabilmente lei voleva “sembrare” in quel modo perché sentiva di esserlo.

 

Fonti: L’intellettuale dissidente, http://www.ilgiornale.it/news/cultura/simone-weil-bruttina-non-stagionata.html, Marcello Veneziani

 

‘Conclave dei sogni’: il rifiuto della modernità di Vigolo

Conclave dei sogni è il libro con cui il poeta Giorgio Vigolo ha radunato le sue poesie nel 1935. La raccolta non appare tesa verso una deliberata ricerca di <<modernità>> nello spirito e nella forma. In alcuni passaggi dell’opera si avverte un sapore ungarettiano, in altri non si può fare a meno di pensare a Palazzeschi. Ma da quella modernità poetica, Giorgio Vigolo si esenta, obbedendo ad una diversa idea della poesia. Viceversa, una tipica contemporaneità possiamo trovarla nella sua cultura, nel sostrato teorico, di cui il suo sentimento ha bisogno di liberarsi. La cultura di Vigolo infatti si colloca tra due tipi categorici, quelli di “filosofo” e di “poeta”, di filosofo che serve al poeta e si fa poeta egli stesso.

In Conclave dei sogni, il poeta romano è mosso verso la sua più matura espressione da un’ansia profonda di ritrovare quell’armonia increata, preesistente al tempo, a cui le parvenze esteriori ed effimere del mondo sembrano alludere, mentre nel loro aspetto la tradiscono: <<Questo è convento/di monaci veri:/cimitero,/monastero/clausura per l’eternità>>. Ansia che potrebbe essere filosofica o comunque di natura conoscitiva, ed ecco che la conoscenza speculativa porge a un certo punto un’utile nomenclatura, una suggestione di immagini o di allegorie alla poesia che sta nascondendo. Alla sua radice c’è sempre la pregante favola platonica della caverna in fondo alla quale si disegnano le ombre, parvenze della vera realtà; più che un mondo organico, dunque, Conclave dei sogni disegna un movimento: le vicende di un’attesa e di un raggiungimento, di volta in volta rinnovate dalle varie occasioni ispiratrici.

Vigolo cerca la nascita di una determnata poesia, di “quella che ritrova la misura e la schiera, l’agmine dei segni primieri” e li restituisce al “dettato antico”. A rappresentare quest’ansia di ricerca non basterà più un simbolo esterno e oggettivo; occorrerà una figura che abbia l’intima esperienza della caduta e la figura del corpo rievoca contnuamente quell’armonia da dove esso è disceso: <<Malinconia di esistere con questo/ volto remoto che ci esprime l’anima/ e la sua storia e i giorni alti e perduti/senza più averne la memoria e il senso>>. Assunto a simbolo inconscio e oscuro protagonista di quelle corrispondenze in cui Vigolo cerca rivelazione e poesia, il corpo indirizza anche dall’interno e verso l’interno i suoi richiami. In questo senso non è un caso che in un’epoca ossessionata dai propri sogni, un poeta, per vie parallele, interroghi anch’egli la psiche. Conclave dei sogni rappresenta in fondo, una chiave per interpretare i sogni, spiegati in immagini:

<<Mura ch’io vidi in un sogno d’infanzia

cadermi addosso a strapiombo di torri, a blocchi d’ocrafulva e di tufo

sulla silenziosa via del sonno>>.

Queste mura e ruderi, l’ocra fulva e il tufo, devono assumersi in un spazio definito da tale musica, magica, ineluttabile che ci porta tutti ad abitarlo, come accade per la famosa ‘siepe’ sul colle dell’Infinito di Leopardi. In Conclave dei sogni, Giorgio Vigolo “petrarchizza” i paesaggi e si dimostra un abile illustratore, basterebbe  leggere solo il poemetto Erebo per rendersene conto, in cui l’aldilà è visto come in una serie di vignette che accompagnano il racconto di un giullare; il poeta le trascrive come altrettanti “dal vero” innalzandole a dono letterario. Al lettore più attento non sfuggirà un’altra caratteristica di Vigolo: la capacità di richiamare la tragedia classica, per cui i personaggi, per entrare nel gioco delle passioni, devono essere eroi, re e sacerdoti.

 

Bibliografia: G. Debenedetti, Saggi critici, seconda serie, Marsilio.

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