Matteo Totaro, docente ed editore: “L’abbattimento dei costi di stampa dei libri ha portato a una proliferazione inarrestabile di edizioni”

Matteo Totaro è un giovane insegnante, editore e tipografo, originario di Monte Sant’Angelo (Foggia), per cui non vale l’espressione riservata ai professionisti del mondo del libro di oggi, Vanitas vanitatum, ovvero ossessionato dalla visibilità, dalla politica, da vendette e spocchia.

Totaro vive a Monte Sant’Angelo fino al termine degli studi classici, quando si trasferisce a Bologna per frequentare la facoltà di Lettere dell’Alma Mater Studiorum. Amante della poesia e della musica, soprattutto grazie a Eugenio Montale, intraprende un percorso di ricerca sulla poetica del cantautore Paolo Conte e si laurea con una tesi sullo scrittore e libraio Roberto Roversi.

Vincitore di concorso indetto per l’insegnamento nella scuola secondaria, Matteo ottiene la cattedra di Italiano e Storia nel Liceo “Primo Levi” di Vignola. Docente appassionato e scrupoloso, segue i suoi studenti con partecipazione anche nel lungo periodo della chiusura degli istituti a causa del covid, sperimentando nuove forme di apprendimento online.

In una piccola piazza di Monte Sant’Angelo, Matteo Totaro ha aperto la sua private press Officina del giorno dopo, in ricordo e memoria di Officina, la rivista fondata a Bologna nel 1955 da Roberto Roversi, Pier Paolo Pasolini e Francesco Leonetti.

Consapevole di quanto sia difficile far innamorare i proprio studenti della letteratura in una società tecnocratica e pubblicare poeti in virtù del fatto che una raccolta cartacea non rappresenta più il raggiungimento di un obiettivo importante per l’autore, ma una semplice tappa di un percorso che spesso si interrompe dopo la prima raccolta, Matteo Totaro è caparbio e determinato a proseguire sulla strada intrapresa muovendosi in uno spazio particolare in cui le regole editoriali ufficiali contano poco, non lavorando su commissione e selezionando con cura gli autori e gli artisti con cui collaborare.

 

 

 

 

1 Quando ha iniziato ad appassionarsi alla poesia e come viene trattata in Italia?

 

È stato con Montale, alla fine del quinto anno di liceo classico. Sono rimasto affascinato dalla musicalità di alcuni versi e dall’originalità di certe immagini. In particolare ricordo la potenza evocativa della poesia “Falsetto” e l’ineluttabilità dell’epifonema con cui si chiude il testo, come l’onda che abbraccia e inghiotte la protagonista Esterina. Poi a Bologna ho conosciuto Roberto Roversi, prima attraverso i testi che aveva scritto per Lucio Dalla, poi personalmente. È stato lui a insegnarmi tutto, ma senza salire in cattedra e assumere il ruolo di Maestro. Mi bastava osservarlo muoversi tra le sue librerie per imparare sempre qualcosa di fondamentale; è stato un apprendimento per osmosi. Devo a lui l’amore per l’oggetto libro e la curiosità per il mondo delle private press che prima di questo incontro mi era completamente sconosciuto.

Che dire, poi, sulla poesia oggi… Conosco direttamente quello che si direbbe “il mondo della poesia contemporanea”, ma solo indirettamente, attraverso libri e riviste, quanto successo negli ultimi decenni del secolo scorso; per questo ogni possibile paragone sarebbe poco significativo. Mi pare comunque che oggi ci sia un grande fermento, dovuto anche alle possibilità che hanno i poeti di raggiungere un numero enorme di lettori attraverso i social. L’abbattimento dei costi di stampa dei libri ha portato a una proliferazione inarrestabile di edizioni, per cui è diventato difficile negli ultimi anni orientarsi nel mondo della poesia, perché chiunque, con un piccolo contributo economico versato alla casa editrice di turno, può pubblicare. Uscire con una raccolta cartacea non rappresenta più il raggiungimento di un obiettivo importante per l’autore, ma una semplice tappa di un percorso che spesso si interrompe dopo la prima raccolta. Sarei curioso di sapere quanti sono i poeti che “smettono” dopo una o due pubblicazioni. Dall’altro lato c’è, effettivamente, anche il mondo “ufficiale” della poesia, fatto di gente molto competente ma che spesso pecca di “amichettismo”, per usare un’espressione brillante coniata dallo scrittore Fulvio Abbate. Ma questo è un altro discorso.

 

2 Quali sono i maggiori problemi che un docente deve affrontare nella scuola di oggi e cosa manca ancora a quest’ultima?

 

Parlando della materia che insegno, Lingua e letteratura italiana, di sicuro il primo ostacolo che un docente si trova a dover affrontare è il disinteresse degli studenti per un mondo che questi ultimi ritengono lontano e incomprensibile. È l’incubo in cui sprofonda Alice nel libro di Lewis Carroll, un mondo (apparentemente meraviglioso) in cui il soggetto non ha libertà di agire perché non conosce i principi che lo regolano. A questo problema se ne aggiunge un altro: oggi la scuola non è più l’unica agenzia formativa a cui gli studenti possono rivolgersi, anzi è probabilmente la meno “accattivante” tra quelle disponibili. Questo, in sintesi, il problema strutturale, a cui si aggiungono altre questioni meno importanti ma comunque significative, come l’eccessiva “burocratizzazione”, che nella maggior parte dei casi frena l’entusiasmo anche dei docenti più intraprendenti, o la partecipazione dei genitori degli alunni ad alcuni momenti scolastici dai quali fini a poco tempo fa erano (giustamente) esclusi.

 

3 Lei che insegnante è? Qual è il suo metodo?

 

Penso che alla base di tutto debba esserci la sincerità, verso gli studenti e verso la materia che si insegna. Non si può trasmettere ciò che non si ama. Per questo motivo scelgo di focalizzarmi sugli autori che davvero mi piacciono, anche a costo di contravvenire a quelle che sono le indicazioni ministeriali. Mi piace portare in classe le mie passioni; egoisticamente a volte utilizzo la scuola come una palestra in cui sperimentare gli interessi culturali (in primis letterari, ma anche musicali o cinematografici) che coltivo nella vita privata. Ammetto di usare gli studenti come cavie, ma mi pare che l’esperimento funzioni. Quando i ragazzi capiscono che il docente ama davvero quello che porta in classe allora lo ascoltano, si fidano, perché comprendono che non sta mentendo. Per questo motivo non nego ai miei alunni la possibilità di seguirmi sui social, perché lì condivido quasi esclusivamente contenuti culturali e questo rappresenta per loro la prova del fatto che il mio non è solo un lavoro ma una vera passione, quasi una ragione di vita.

 

4 Come si muove nel mercato editoriale italiano?

 

Per quanto io la consideri una casa editrice, la mia piccola tipografia si muove in uno spazio particolare in cui le regole editoriali ufficiali contano poco. Non lavoro su commissione e non devo vivere di questa attività; perciò posso permettermi di aprire il mio atelier “per ferie”, quando la chiusura della scuola mi consente maggiore libertà. Seleziono con cura gli autori e gli artisti con cui collaborare e i pochi esemplari dei libretti che stampo vengono venduti privatamente a collezionisti e amici. Non c’è un distributore e non ci sono librerie che hanno in conto vendita i miei lavori: sono un editore autarchico!

 

5 La soddisfazione più grande che le ha dato la sua Officina del giorno dopo?

 

Quando ho pubblicato il primo libretto con tre poesie inedite di Roberto Roversi ho ricevuto una telefonata da una giornalista che mi ha intervistato e dedicato una pagina intera nella sezione cultura di Repubblica Bologna. È stato un bel modo per iniziare questa avventura…

 

6 Quali autori vorrebbe venissero riscoperti e studiati di più?

 

Ogni docente è libero di costruire il proprio percorso didattico all’interno del mare magnum della letteratura italiana. Dico sempre ai miei studenti che non esiste “una sola storia della letteratura”, ma tanti possibili itinerari. Certo, alcune tappe sono imprescindibili: non si possono saltare a piè pari Dante, Leopardi, Montale. Se dovessi fare il nome di un autore da riscoprire, ovviamente farei quello di Roberto Roversi, spesso citato per aver fondato con Pasolini la rivista “Officina”, o per aver scritto i testi di tre album di Lucio Dalla, ma più raramente per il suo lavoro di poeta, romanziere, sceneggiatore teatrale e cinematografico.

 

7 E’ ancora possibile in Italia un’idea di letteratura che sondi le possibilità del linguaggio?

 

Certo. Mi pare che la maggior parte della poesia contemporanea vada in questa direzione. E a tratti mi pare un limite, se mi è permesso dirlo.

 

8 Niccolò Ammaniti dimettendosi dopo aver vinto il Premio Strega, dichiarò a Repubblica: «Non fanno per me queste stanze in cui i libri non contano niente, così come non conta come sono scritti e chi li leggerà, semmai conta quanto potere riescono ad alzare, con quanta polvere copriranno le vergogne di un sistema simile alle logiche di quelli criminali». Lei si rivede in queste parole, cosa ne pensa dei premi letterari in Italia?

 

È una domanda che bisognerebbe rivolgere agli scrittori più che a me. Spesso mi capita di confrontarmi con loro sull’argomento. Molti condividono le parole di Ammaniti ma poi non si tirano indietro quando c’è da ritirare un premio. Roberto Roversi era davvero irreprensibile da questo punto di vista. Mi confessò di non averne mai ritirato uno (in anni in cui i premi letterari erano molto più importanti di oggi, soprattutto a livello economico). L’unica volta in cui fu costretto a farlo fu quando il postino gli fece firmare una raccomandata davanti al portone di casa. All’interno c’era un assegno a tre zeri per un premio vinto.

 

9 Le pubblicazioni a cui è particolarmente legato e perché

 

Mi piacciono i libri belli esteticamente. Chi l’ha detto che un libro non si sceglie (anche) dalla copertina? Da qualche anno sugli scaffali delle librerie mi capita spesso sotto gli oggi una collana di un noto editore italiano che presenta sulla copertina, nell’angolo alto di destra, un taglio in diagonale. Sto aspettando che qualcuno mi spieghi la logica di questa scelta estetica. Scherzi a parte, amo le edizioni stampate in tipografia in pochi esemplari numerati. Potrei citare tanti editori ma mi limito ad Alberto Casiraghy di “Pulcinoelefante”.

 

10 Prossimi obiettivi e un nome su cui sta puntando.

 

L’obiettivo principale è sistemare definitivamente la mia tipografia e lavorare con più costanza. Lo scorso anno ho dovuto affrontare un trasloco, e solo i tipografi sanno cosa significa trasferire una tipografia. Le macchine e i caratteri pesano tantissimo: spostare piombo e ghisa non è un gioco da ragazzi. Quindi punto a risistemare il materiale a disposizione e a riconfigurare il mio nuovo spazio in base alle necessità.

Ho letto tanti poeti interessanti negli ultimi mesi ma per scaramanzia non faccio nomi. Sono contento, invece, di aver pubblicato due autori che sono finiti nella cinquina della prima edizione del premio Strega Poesia 2023; mi riferisco a Vivian Lamarque e Stefano Simoncelli. Autori che apprezzo molto e con i quali ho anche un rapporto d’amicizia. La possibilità di incontrare gli scrittori che amo e di collaborare con loro è uno dei motivi principali che mi hanno spinto a intraprendere questa attività un po’ folle. In fondo i libri sono solo pezzi di carta, dotati però di un potere magico: il potere “di far incontrare le persone”, come mi confessò tempo fa Alberto Casiraghy rispetto ai motivi che lo hanno spinto a pubblicare in trent’anni più di 10.000 plaquette!

Considerazioni di un umarell sulla vita e la morte

Queste riflessioni sono scontate. Sono i piccoli pensieri quotidiani di un umarell, che giorno dopo giorno guarda come procedono i lavori della ristrutturazione dell’ecomostro davanti casa. Questi lavori sono fatti a circa duecento metri da casa mia e non mi disturbano per niente. Non sento i rumori. Non ho problemi con la polvere. Prendo il caffè in cucina e mi metto a riflettere. Guardo fuori dalla finestra. Anche questo è un modo di passare il tempo. Ogni cosa ha il suo tempo e ogni tempo ha le sue cose, secondo l’Ecclesiaste.

Non sono più giovane. Esco raramente, il minimo indispensabile. Telefono pochissimo. Una telefonata ogni settimana. Eppure da giovane avevo tante amicizie. Ora resta qualche ricordo sbiadito. Gli amici di un tempo li ho persi per strada. Ognuno ha la sua vita. Non voglio essere malinconico. È una semplice constatazione di fatto. Ci sono gli impegni lavorativi, familiari per molti amici. Il tempo libero a disposizione è poco. Ma forse siamo troppo cambiati e non ci sapremmo più veramente riconoscere.

Forse le mie sono nostalgie di uno che ha molto tempo da perdere. Forse come dicono banalmente alcuni il senso della vita è vivere. Forse ogni elucubrazione è qualcosa che ci allontana dalla vita stessa. Forse la vita e Dio scelgono come prediletti persone molto semplici e perciò innocenti. Forse molti ragionamenti sono intellettualismi vuoti; sono ciò che Freud chiamava razionalizzazioni, ovvero dei meccanismi di difesa dell’io.

Da giovani comunque si cerca di vincere la morte con l’amore, con il sesso. Dirò di più: la morte molto spesso resta sottotraccia. Non ci si pensa. Da adulti avviene una scissione nella psiche. Da una parte il desiderio biogrammatico di immortalità, che alcuni vogliono soddisfare facendo figli oppure cercando la posterità.

Dall’altra parte come scrisse Totò nella sua celebre ‘A livella “Nuje simmo serie, appartenimmo à morte!”. Dall’altra parte la rassegnazione che tutti gli uomini appartengono alla morte, per quanto cerchino di divincolarsi invano dalla sua morsa. L’amore sembra vincere la morte, ma anch’esso è destinato a finire.

Scrive in una sua poesia Sanguineti:Ho insegnato ai miei figli che mio padre è stato un uomo straordinario:/ [( potranno/ raccontarlo, così, a qualcuno, volendo, nel tempo): e poi, che tutti/ gli uomini sono straordinari:/ e che di un uomo sopravvivono, non so,/ ma dieci frasi, forse ( mettendo tutto insieme: i tic,/ i detti memorabili, i lapsus):/ e questi sono i casi fortunati”.

Il grande poeta genovese ci ricorda che per quanto ci si sforzi di lasciare una traccia i posteri saranno dormienti, per dirla alla Eraclito. Mi ricordo del Caffè delle giubbe rosse, frequentato decenni fa da Montale, Luzi, Parronchi, Bigongiari, e altre illustri personalità. Leggevo dalla Repubblica dei poeti al Mulino di Bazzano negli anni ’70, ideata da Adriano Spatola, Corrado Costa, Giulia Niccolai.

Leggevo di Pennabilli, un paese ad hoc per la poesia di Tonino Guerra. Cercavo notizie sulla rivista “Prato Pagano” negli anni ’80, diretta da Gabriella Sica, a cui collaborarono Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Silvia Bre. Ebbene alla fine tutto passa. Solo pochi studenti di lettere, pochi studiosi di letteratura, pochi appartenenti alla comunità poetica si ricorderanno di queste belle esperienze poetiche, che meriterebbero di essere ricordate dai più. Ma l’oblio è tiranno.

L’oblio cala anche su molti protagonisti dello show-business, del cinema, della musica. C’è poco spazio per le commemorazioni veramente sentite, che non siano una mera passerella di personaggi in cerca di visibilità con i loro perenni “io l’ho conosciuto”, “a me una volta confessò”, “quando collaborammo assieme”, scadendo spesso in un amarcord falso e melenso. Molto probabilmente saranno in tutt’altre faccende affaccendati i posteri, indipendentemente dal fatto che molti morti lascino una cospicua eredità morale, intellettuale, creativa.

Da tempo ho accettato il dominio incontrastato dell’oblio. Che se ne fa uno della gloria postuma? E poi è una bella pretesa la posterità: per essere ricordati bisogna aver fatto qualcosa di memorabile. Non solo ma in Italia le culle sono vuote. Gli italiani fanno sempre meno figli. E allora in futuro chi leggerà poeti e scrittori italiani?

Quando l’italiano sarà una lingua morta anche la letteratura italiana sarà definitivamente morta o quasi. Ma non siamo catastrofici e non poniamo limiti alla Provvidenza. Per ora  in Italia solo nel 2021 sono 85.551 i titoli usciti (il 22% in più rispetto al 2020 e il 16% in più rispetto al 2019). Durante gli anni pandemici l’editoria ha fatturato di più. Certo ci sono moltissime  pubblicazioni a pagamento, moltissime copie che finiscono al macero.

Non tutti i libri avrebbero ragione di esistere, ma per ogni autore il suo libro deve essere stampato. In fondo la pubblicazione di un libro, seppure a pagamento, in alcuni piccoli paesi di provincia è una sorta di piccola promozione sociale oltre a essere quella che i letterati chiamano una “legittimazione culturale”, ovvero se si vuole essere presi in seria considerazione dai critici ci vuole la pubblicazione cartacea.

Riviste letterarie, literary blog spuntano come funghi. Naturalmente quando si scrive per il web spesso ci si chiede se anche questo sia tutto inutile, destinato a scomparire nel mare magnum di Internet. Ci sono meno presentazioni di libri ma molte più dirette Facebook. C’è molto fermento. Tutto quindi lascia ben sperare. Roberto Vecchioni nella sua canzone “La stazione di Zima” (ricordando il poeta russo  Evtusenko) scrive che “ci facciamo del male perché non ci capiamo niente”. Siamo confusi, smarriti di fronte al mistero della vita, dell’amore, della morte.

Come scrive in un suo aforisma Morandotti “tutto sarebbe più semplice se nascessimo con le istruzioni per l’uso e la data di scadenza”. La vita è complessa perché fatta a strati molteplici come una cipolla (come Tommaso Landolfi definì la sua opera) e allo stesso tempo ci sono quelli che Guénon chiama gli “stati molteplici dell’essere”.

Senza pensare al fatto che è sempre ardimentoso prendere coscienza pienamente della nostra coscienza. La vita è già molto difficile viverla. Capirla è quasi impossibile. Ci sono dei momenti in cui abbiamo delle epifanie e ci sembra di aver afferrato tutto. Ma un istante dopo ritorna l’opacità. Forse non siamo fatti per capire la vita. Eppure ognuno ha le sue certezze in tasca, ha le sue piccole verità, costruite sulla base delle sue conoscenze e della sua esperienza, sempre limitate rispetto alla materia infinita della vita.

Sorgono spontanee dal basso  delle domande, ma di difficile soluzione, visto che non c’è un comune accordo: alcuni dicono che esistono delle leggi generali nella vita e altri dicono che ognuno è fatto a modo suo e ha la sua storia. Abbiamo in testa molti interrogativi, dubbi ed ipotesi soprattutto riguardo l’amore.

L’amore non va tradotto in senso letterale e non bisogna lasciarsi sopraffare dal nonsenso della morte. Continuiamo però a sbagliare, nonostante avvertenze e controindicazioni sulla vita. Il tempo scorre inesorabile fino al guasto irreparabile per vizio, destino o logorio….Così sarà per quel poco che ci rimane….forse Dio sa solo giudicare e non spiegare le  nostre scelte: siamo noi uomini, sospesi tra bisogni primari e cose ultime, il paradosso dei paradossi. Io ultimamente mi chiedo sempre più spesso se qualcosa veramente ci appartiene e se noi veramente apparteniamo a qualcosa di più grande.

Non è un caso che per Gadda la realtà fosse uno gnommero e per Montale una matassa che lui non era mai riuscito a sbrogliare. Tutto è un grande mistero se si pensa che ogni vita è un segmento, che talvolta i segmenti si intersecano, che si incontrano oppure che corrono paralleli per sempre. A volte facciamo un tratto di strada assieme a certe persone che poi ci lasceranno o che poi noi lasceremo. Resta qualcosa alla fine? Qualcuno lascerà a noi il testimone? Noi lo lasceremo a qualcuno il testimone? Ci vuole anche del tempismo per saper raccogliere il testimone.

Come ebbi a scrivere in alcuni scarni versicoli qualche anno fa:

Recitiamo un copione o un canovaccio?

Si recita a soggetto? Si naviga a vista?

Oppure forse siamo dei bastoncini disuguali

di Shangai e non sappiamo chi ci ha mischiato

e neanche quali mani supreme ci muovono

e giocano con noi? Le nostre vite sono forse linee

che talvolta si intersecano, talvolta corrono parallele,

talvolta combaciano per tratti più o meno lunghi?

Dal punto di una linea non si può comprendere tutto

questo groviglio inestricabile, questo mondo di linee:

ecco perché forse non si può capire

mai il mistero della nostra vita e di quelle altrui.

Forse non c’è alcuna logica nei nostri istanti.

Troppe le variabili e le variazioni infinitesimali.

In ogni caso è impossibile cogliere tutti i nessi.

Anche se fossimo linee

(regolari, frastagliate o curve chissà?).

il disegno non è lineare e ci trascende.

 

Sappiamo veramente apprezzare gli altri e gli altri ci sanno veramente apprezzare? Oppure è tutta fatica sprecata? Forse niente vince la morte. Forse ogni lavoro, ogni passione è un passatempo per non pensare alla morte, come intuì Pascal. Noi dobbiamo per forza pensare ad altro. Si finisce anche per pensare che il problema è sempre un altro. Allora molti per scongiurare la morte cercano di inebriarsi a più non posso della vita. Il loro è un vitalismo disperato.

‘Recisioni e suture’, il melodramma in versi di Giuseppe Castrillo

“Recisioni e suture” è una raccolta di poesie scritte da Giuseppe Castrillo, docente di Lettere italiane e latine, originario di Pietravairano (Caserta), dove ha vissuto quasi ininterrottamente per più di cinquant’anni e, attualmente, residente a Piedimonte Matese (sempre in provincia di Caserta).

Si tratta di una raccolta di versi che diventano incontri, ricordi e sensazioni di diversi momenti della vita, rimpianti e dolori che attraversano il corpo e i pensieri, ma sempre tendenti alla ricerca di una nuova meta, una pace interiore. Tagli che vengono ricuciti – come suggerisce il titolo dell’opera – per favorirne la cicatrizzazione.

E proprio riguardo al nome dato alla raccolta delle liriche, pubblicata nella collana “I Diamanti” della Aletti editore, l’autore confessa che il titolo «è frutto del legame con suo padre che è stato per più di quarant’anni medico condotto, come si diceva un tempo».  «Credo infatti – precisa Castrillo – che la vita, a volte, sia un’operazione chirurgica: qualcuno e qualcosa vengono recisi dal proprio cuore, dalla propria mente, ma poi il ricordo e la memoria suturano le ferite e fanno riaffiorare quelle persone, quei fatti, quelle cose che furono recisi, tagliati, asportati».

La poesia diventa, allora, il culmine di un percorso passato dalla lettura dei fumetti ai classici e alla narrativa, plasmato, poi, nella scrittura di saggi critici e poetici. Un “taccuino del trito sentire” – come recita il sottotitolo del libro. «Per me – racconta l’autore – è un gioco di memoria, di raccolta di luoghi visti e ripresi, di persone abbondonate dentro di me e riportate in vita.

La poesia mi viene incontro come una compagna che non cerco, un ospite inatteso con i quali comincio una conversazione che non vorrei mai interrompere, di cui ho bisogno perché volendo parlare sempre più di rado con le persone fisiche. Grazie alla poesia parlo con le cose che vedo e che ricordo di aver visto, con i paesaggi e con chi mi appartiene».

Nella sua prefazione Cosimo Damiano Damato parla della raccolta dei versi come di un «melodramma napoletano», dove ogni addio, ogni esplosione di libertà, ogni perdizione, pentimento e la morte, come ultima fotografia da scattare, vengono scattati «con gli occhi, occhi meridionali, occhi capaci di cantare come solo gli occhi napoletani sono capaci di tanto melodramma epico e per sempre».

Un continuo susseguirsi di luoghi e memorie, che si alternano e formano il vissuto. «La mia raccolta – afferma Castrillo – è stata scritta ascoltando l’invito/ammonizione di Montale: “Non recidere forbice quel volto”, evitando che i segmenti del tempo di una vita cadano nel fango. Per me  il “tagliare e ricucire” è non solo la metafora della vita, ma la lezione del vivere: in natura nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Io aggiungerei al “si trasforma” di Lavoisier tutto si reintegra, tutto si riplasma».

I poeti liguri del ‘900: Sbarbaro, Barile e Montale

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, che fece da cerniera tra la poesia classicheggiante della tradizione e il simbolismo francese, e Mario Novaro, autore di un solo libro di poesie (ricco di risonanze) e fondatore della rivista antologica più ricca del primo ‘900 “Riviera ligure”, furono indicati da Carlo Bo come poeti che avevano favorito il deciso rinnovamento della nuova poesia del ‘900.

Camillo Sbarbaro pubblicò nel 1914 la sua raccolta di poesie intitolata “Pianissimo”: anche per lui il riferimento culturale più evidente era il simbolismo francese, sul quale aveva innestato i temi che maggiormente gli stavano a cuore: l’assenza di certezze, lo scorrere del tempo, la città come solitudine, la natura come sola occasione di salvezza, il rifugio nei sentimenti familiari.

Per rappresentare tutti questi temi, la sua poesia era composta da una scrittura essenziale e disposta in strofe ampie e ben costruite e voleva verso un tono dimesso.

Esaminiamo il primo testo della raccolta pianissimo, “Taci”: qui il poeta impostava un dialogo intimo con la propria anima “stanca di godere / e di soffrire” e “rassegnata”, quindi sconfitta e piegata dalla misera realtà, senza “rimpianto per la miserabile / giovinezza”, senza speranza per il futuro e tuttavia in questa totale assenza di ragione per vivere, ancora “camminiamo io e te come sonnambuli” e quindi in assoluta estraneità a tutto ciò che è attorno e che non mi/ci appartiene, in una disperata mancanza di comunicabilità, senza che sia possibile stabilire un minimo e reale rapporto con cose e persone in quello che è dunque un ‘deserto’ di sentimenti e di passioni anche perché nessun ideale, nessun obiettivo da raggiungere si manifesta.

La stessa immagine dell’inutile vivere tornerà anche nella successiva poesia della raccolta.
L’affanno del vivere e la solitudine che condannava l’uomo moderno cittadino, erano i temi centrali della poesia di Sbarbaro: il solo conforto possibile era dato dagli affetti familiari.

Nei versi di Angelo Barile invece troviamo una visione profondamente religiosa, in cui i sentimenti di serena compartecipazione alla vita vincevano sulla solitudine e il dolore veniva inteso come preparazione alla felicità eterna.
Questa sua visione positiva è rappresentata nella poesia “Osteria della Bella Brezza”: viene utilizzato un tono molto cordiale e lo scenario è un borgo marinaro (minutamente descritto); tutto è all’insegna della concordia e della laboriosa armonia di un paese accomunato dalla fatica dell’andare per mare.

Barile trasmette al lettore lo stesso senso d’attesa dell’aldilà nella poesia “Lamento per la figlia del pescatore” : qui viene affrontato il tema doloroso della morte di una giovane; quella sventura sconvolgente viene mitigata della certezza che “ora canti sull’altra tua riva” e suo padre affida la sua sofferenza ad un semplice gesto di pescatore: “ha dipinto / le sue barche di un filo di lutto”, così che pensa sempre a sua figlia.
Con Barile ci troviamo davanti ad uno dei pochi poeti del ‘900 che ha una visione positiva della vita e della sua prosecuzione anche dopo la morte.

Da Sbarbaro a Montale, abbiamo una continuità segnata principalmente da due cose: dalla dedica di Montale del suo primo libro “Ossi di seppia”(opera rappresentativa di Montale, nella quale ritroviamo come paesaggio predominante quello ligure della riviera assolata e incolta, che rispecchia il sofferto mondo interiore dello stesso autore) a Sbarbaro, inoltre i due hanno in comune il motivo ispiratore della loro maggiore poesia: il male di vivere dell’uomo moderno che di giorno in giorno si scopre sempre più fragile e privo di certezze, mentre intorno avanza l’apparente progresso che lo soffoca.

Questo è in particolar modo il primo Montale che si dedicò al bel canto; aveva vissuto l’esperienza della guerra e si era dedicato sempre più alla poesia.

“Spesso il male di vivere ho incontrato”  si basa sul contrasto tra il male connaturato alla vita, rappresentato da tre metafore: il ruscello ostacolato dai detriti, la foglia arsa dal caldo e il cavallo stroncato dalla fatica; si basa anche sul bene apparente, rappresentato anch’esso da tre metafore: una statua nella canicola, una nuvola lontana e un falco che vola in alto.

In “Meriggiare pallido e assorto”  il poeta usando dei verbi all’infinito avverte il fastidio fisico procurato dal calore delle ore centrali della giornata e subisce una natura ostile e per nulla consolatrice, simbolo della condizione di solitudine dolorosa e di isolamento dell’uomo moderno, ribadita l’immagine finale della ‘muraglia’ (simbolo di separazione) sopra la quale ci sono dei ‘cocci aguzzi di bottiglia’ così nessuno può scavalcarla.

Montale manifesta la sua idea di poesia e si interroga sul suo ruolo e su ciò che la poesia può valere nel suo tempo e Montale perciò, facendo riferimento al concetto espresso da Palazzeschi nella conclusione della poesia “Lasciatemi divertire”, dice di non avere messaggi, ma ha solo la certezza di non poter offrire certezza.

Nella poesia successiva ad “Ossi di seppia” troviamo un Montale ‘diverso’ poiché si preoccuperà del mondo esterno, anche rispetto alla situazione della guerra; infatti Montale sarà interprete del grande dramma della Seconda Guerra Mondiale vissuto dall’umanità.

Nella raccolta “Le occasioni” passerà un messaggio meno immediato. Per esempio guardiamo “Casa dei doganieri” in cui il destino incerto dell’anonima donna protagonista renderà tutto indecifrabile tanto che non sarà possibile capire chi morirà veramente, chi è partito e chi è invece rimasto nel mondo ingannatore di ciò che appare vivo ed è invece retto da un ingovernabile destino.

Nel dopoguerra Montale si trasferisce a Milano e lavorerà per il “Corriere della sera”. Dopo scritte un terzo libro in cui raccolse tutte le poesie riguardanti la guerra. Per esempio “Primavera hitleriana” è una poesia ultimata nel 1946, ma suggerita dalla visita compiuta a Firenze nel 1938 da Hitler, accolto dalla popolazione con favore e comunque senza che nessuno assumesse posizioni critiche nei suoi confronti, tanto da risultare così indirettamente tutti complici poiché ‘più nessuno è incolpevole’.

Con quest’affermazione Montale volle significare che non solo il consenso ma anche l’indifferenza nei confronti del male è una forma di scelta e dunque nessuno può ritenere di non aver avuto responsabilità nell’aver favorito il nazifascismo e tutti coloro che non vi si opposero nei fatti furono dei ‘miti carnefici’.

La salvezza sarà portata da una donna-angelo che si sacrificherà per l’umanità portando “un’alba che domani per tutti / si riaffacci, bianca ma senz’ali / di raccapriccio”, mentre l’immagine iniziale che aveva accompagnato la visita di Hitler era quella delle falene impazzite attorno ai fanali che cadevano stordite per terra formando un tappeto.

Se il Montale maturo sarà interprete del grande trauma Seconda Guerra Mondiale, il vecchio Montale sarà interprete anche dei sentimenti più intimi e privati anche se troviamo sempre il tema riguardante il senso dell’indefinibile, la consapevolezza dell’assenza di certezze.

 

Fonte Academia.edu

“Forse un mattino andando” di Montale: l’antinomia della percezione

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,

arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:

il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro

di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come su uno schermo, s’accamperanno di gitto

alberi, case, colli per l’inganno consueto.

Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto

tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.”

 

Montale in “Forse un mattino andando”, immagina di camminare al mattino in un’aria cristallina, rarefatta. Tutto ad un tratto immagina di volgersi e vedere il nulla. Lo scrittore Italo Calvino, in occasione della celebrazione degli ottanta anni di Montale, ha fornito una spiegazione originale, a tratti alquanto suggestiva di questa poesia.

Per Calvino il cardine della lirica è l’espressione “Il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me”. Calvino scrive che la mancanza di un occhio dietro la nuca è sempre stato un limite percettivo per l’uomo. Sostiene però che una delle invenzioni più strabilianti della tecnologia moderna sia lo specchietto retrovisore delle automobili perché permette di vedere il campo posteriore, prima di allora invisibile.

Eppure nonostante queste argomentazioni scrive che il poeta anche con uno specchietto retrovisore vedrebbe alle sue spalle “una voragine vuota senza limiti”. Calvino cita un animaletto mitologico nella zoologia fantastica di Borges: l’hyde-behind. Nei boschi i taglialegna per quanto possono voltarsi velocemente non potranno mai vedere davvero l’hyde-behind. Secondo Calvino nella poesia il protagonista riuscirebbe a scorgere l’hyde-behind nella sua vera essenza: ovvero il nulla.

Secondo l’interpretazione di Calvino il tema principale della lirica sarebbe percettivo-conoscitivo. Intendiamoci: se fosse unicamente un problema percettivo si tratterebbe di una zona morta della percezione, di quella che gli esperti del settore chiamano macchia cieca. Il tema principale di “Forse un mattino andando” secondo Calvino è come possa esistere una porzione di reale inconoscibile o almeno sconosciuta ai propri occhi ed infine alla propria coscienza. “

L’uomo che si volta “e vede il nulla alle sue spalle, riesce forse a girarsi più rapidamente della messa a fuoco del suo campo visivo, che per questo motivo in quel determinato frangente non è ancora abbastanza nitido ed esteso da fornire immagini dell’ambiente circostante. Percepisce il nulla o meglio “il nulla che c’è”.

Quel vuoto sarebbe quindi la risultante di un suo corto circuito mentale, di cui è cosciente, così come è consapevole qualsiasi persona, quando chiude gli occhi abbacinati dal sole, che i fosfeni sono barlumi causati da una reazione chimica delle pupille, quindi da un atto individuale, soggettivo. Secondo l’interpretazione di Calvino l’uomo che si volta non lascia il tempo alle immagini di accamparsi sulla superficie bidimensionale delle retine, oppure il suo voltarsi repentino è più veloce dell’impulso nervoso (ma quando mai?), che trasporta l’input sensoriale tramite il nervo ottico alla corteccia visiva.

Sia l’interpretazione di Calvino della poesia porta a concludere che “l’uomo che si volta” ha scoperto un’antinomia della percezione, una fallacia ottica, che arresta in quel momento il desiderio di conoscere e di esperire, infatti si ritrae e si ripiega su sé stesso, nel suo segreto. Tutto questo è basato su un presupposto: ogni uomo nel corso della sua vita servendosi di inferenze visive riesce a creare delle invarianti percettive, ed insieme a queste un mondo fenomenologico completo e coerente.

La certezza soggettiva della coerenza di questo mondo va in frantumi nella poesia di Montale. Ma Calvino non ne fa solo una questione percettiva, ma anche conoscitiva. Infatti scrive che quel qualcosa che avviene non riguarda il nervo ottico, bensì il cervello umano. La vera tematica di questo “osso di seppia” e probabilmente sia esistenziale che metafisica, non percettivo-conoscitiva.

“Il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me” riveste la stessa connotazione esistenziale di altre espressioni montaliane come “la maglia rotta nella rete” e “l’anello che non tiene”.  Montale in questa poesia rifiuta “l’inganno consueto” della molteplicità fenomenica. Rifiuta qualsiasi rappresentazione gnoseologica del mondo.

Il critico Contini scrive a proposito della condizione esistenziale di Montale: “la differenza costitutitva fra Montale e i suoi coetanei sta in ciò che questi sono in pace con la realtà, mentre Montale non ha certezza del reale”.

Jacomuzzi invece scrive: “Mentre nell’ambito e nella tradizione della poesia pura la condizione metafisica è essenzialmente un dato acquisito, una ipotesi non verificata, in Montale essa si atteggia come problema, come un dato da interrogare, un significato da cogliere”.

Il senso di questa poesia di Montale per me è la sua disillusione, il suo disincanto nei confronti della realtà fenomenica. Montale non è certo dell’esistenza delle cose, fino a quando non coglie uno slancio vitale nelle sue muse. La sola immanenza non gli è affatto sufficiente. Ecco perché crede ciecamente -come dichiarò in una sua intervista- che “immanenza e trascendenza non sono separabili”.

Questo incontro tra immanenza e trascendenza riesce ad esperirlo solo in rari momenti, quando riesce a trasfigurare una figura femminile, a vedere nella donna la personificazione di una cifra sovrasensibile. Ma se questa agnizione da un lato lo gratifica, dall’altro si accorge di non possedere quello slancio vitale della figura femminile e di appartenere alla “razza idiota degli eletti” (“Ti guardiamo noi della razza/ di chi rimane a terra”).

In mancanza dell’idealizzazione della donna, di questa epifania fulminea Montale vedrebbe “il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me”. A controprova di questa  supposizione esiste una poesia di Satura II, intitolata “Gli uomini che si voltano” in cui è scritto: “Non apparirai più dal portello/ dall’aliscafo o da fondali d’alghe,/ sommozzatrice di fangose rapide/ per dare un senso al nulla. Scenderai/ sulle scale automatiche dei templi di Mercurio/ tra cadaveri in maschera,/ tu la sola vivente,/ e non ti chiederai se fu inganno”. Nel seguito di questa lirica Montale scrive: “Sono colui/ che ha veduto un istante e tanto basta….”.

Montale quindi non cerca in modo categorico la descrizione della complessità del mondo. Non cerca di creare un modello in miniatura dello scibile umano. Non ha mai inteso la Letteratura come fonte di Conoscenza razionale. Nel poeta ha sempre prevalso lo scetticismo nei confronti di qualsivoglia raffigurazione della realtà.

Da questo punto di vista ha sempre abbandonato ogni minima speranza di certezza ed ha sempre navigato nel mare aperto del dubbio. Verrebbe ora da chiedersi: come mai Montale non ha mai idealizzato la Mosca, ovvero sua moglie? Probabilmente perché ricercare in lei l’anello di congiunzione tra umano e divino, avrebbe comportato considerarla una sorta di divinità.

Montale scrive sulla Mosca, solo al momento della sua scomparsa. Per dirla alla Klein scrive per rielaborare il lutto. Secondo la Klein infatti ogni artista crea, perché avverte il senso d’angoscia di una separazione (reale o fittizia), vissuta come perdita di sé e dell’altra persona. Nel discorso amoroso Barthes ci ricorda che “c’è sempre una persona a cui ci si rivolge, anche se questa persona è solo allo stato di fantasma”.

Gli Xenia e i Mottetti di Montale possono allora essere considerati una sorta di surrogato dell’”oggetto transizionale” -per usare il termine di Winnicott- perché permettono al poeta di riappropriarsi di una immagine a lui cara, pur vivendo al contempo in modo cosciente e realistico la perdita terrena della mosca.

Petrarca e Dante hanno angelicato Laura e Beatrice. I loro amori non corrisposti hanno fatto soffrire loro le pene dell’inferno. Ma nonostante ciò nei brevi componimenti dedicati alla consorte scomparsa non esiste traccia di idealizzazione della donna e neanche di compiacimento del dolore.

Le muse di Montale non sono donne irraggiungibili e neanche la propria donna. Le sue muse sono amiche (Arletta, Clizia) e diventano muse solo in determinati e rari istanti. E senza queste muse “intermittenti”, da cui è sentimentalmente distaccato, Montale vedrebbe il nulla alle sue spalle ed il vuoto dietro di sé. Sono queste presenze raramente angelicate, che lo salvano dal nichilismo e dalla negazione del reale.

 

 

Davide Morelli

 

 

‘Casa d’altri’, il minimalismo esistenziale di Silvio D’Arzo

Silvio D’Arzo in “Casa d’altri” (1952, “Botteghe Oscure“, Quaderno X, Roma), fonde armoniosamente il minimalismo esistenziale (ovvero la noia, la povertà di stimoli, di relazioni sociali) e il minimalismo narrativo. Secondo molti critici di oggi e secondo molti esponenti della Neoavanguardia si può scrivere anche di niente, senza una trama avvincente, addirittura senza una trama.

È proprio questo un modo per mettere alla prova e vedere chi è un autentico narratore e chi no. D’Arzo ha superato brillantemente questo esame. Il racconto, definito perfetto da Montale ed il più bel racconto italiano del Novecento da diversi critici letterari, si può riassumere tutto con queste parole: “Un’assurda vecchia: un assurdo prete: tutta un’assurda storia da un soldo”.

Trama e contenuti di Casa d’altri

È un racconto di poche decine di pagine, scritto con grazia, leggerezza e maestria, che si legge tutto di un fiato. D’Arzo non ha avuto il tempo, essendo morto di leucemia a soli 32 anni, di scrivere il romanzo della sua generazione come voleva e neppure di veder pubblicata da una importante casa editrice i suoi racconti.

Lo scrittore ha creato il suo capolavoro “Casa d’altri” sul finire della sua vita, nei suoi ultimi mesi. D’Arzo era troppo versato nella letteratura inglese e scriveva in modo lineare, mentre la vita è complessa e contraddittoria: questo potranno obiettare coloro che hanno dimenticato il grande narratore emiliano e lo hanno relegato ai margini della letteratura italiana del Novecento.

D’Arzo arriva al conquibus, arriva subito al dunque, non complica ulteriormente le cose già complicate di per sé, arriva come si suol dire al nervo delle cose, non si perde in preamboli, digressioni, astrazioni: questo possono affermare con buona ragione i suoi estimatori, infischiandosene dei canoni e della fortuna critica.

La realtà secondo D’Arzo

Pavese, direttore dell’Einaudi, rifiutò di pubblicare “Casa d’altri”, ma forse più che per motivi letterari e stilistici per ragioni prettamente esistenziali, perché il tema del suicidio era un suo nervo scoperto, qualcosa che gli procurava angoscia, un vero fantasma della sua mente fin da tempi immemorabili ed insospettabili, come si può desumere leggendo il suo diario.

Uno scrittore può prediligere la materia inanimata, gli altri o sé stesso. Ci sono incognite e incertezze per ognuna delle tre vie. L’importante è che, indipendentemente dalla sua scelta, si tratti di predilezioni e non di ossessioni, altrimenti uno diventa monotematico. Ma non ci sono solo queste tre dimensioni del reale.

Ci sono anche lo spazio, il tempo, gli accadimenti del mondo. Tutte queste dimensioni interagiscono tra di loro. Tutto dipende dall’osservatore, dal sistema di riferimento come in fisica, ma anche dal  termine di paragone. La scrittura infatti è sempre paragone, accostamento, nel caso più semplice similitudine. D’Arzo è esemplare nel trattare tutti i piani della realtà e ad intrecciarli in modo poetico ed enigmatico.

La noia

C’è chi ha a noia la vita perché ha vissuto troppo o troppo poco in Casa d’altri. Una vita noiosa è altamente stereotipata, ripetitiva, alienante. C’è la depressione endogena. C’è la depressione reattiva, causata da traumi ed eventi spiacevoli. Nel caso specifico alla donna protagonista del racconto mancano le occasioni, gli eventi, una vita accettabile.

Ma c’è anche la noia che assale, la monotonia che non riesce a scalfire. Sembra una montagna insormontabile per Zelinda, vedova e lavandaia. Lo spleen di Baudelaire, l’assurdo di Camus, l’anello che non tiene e il male di vivere di Montale: i riferimenti gnoseologici e culturali possono essere molti per D’Arzo.

In Casa d’altri, il peso di vivere per Zelinda si fa intollerabile. La vita si presenta a lei sempre nello stesso modo: la trafila di giorni sempre uguali, le stesse cose da fare, la solita routine. Ma è anche una vita di stenti, una vita fatta di fatica, “una vita da capra”.

Scrive D’Arzo: “Con due si cerca meglio la verità”. Nietzsche scriveva che uno solo ha sempre torto, ma con due inizia la verità. Di certo gli interrogativi incessanti di Zelinda sono un fardello troppo ingombrante e troppo peso per portarli da sola.

Non trova più ragion di essere. È disperata perché ha perso speranza. Ma nel racconto D’Arzo si sofferma più sugli interrogativi angoscianti, sul suo rovello interiore causato da essi, che sul vuoto esistenziale della donna.

La fede e il dubbio

La domanda cruciale è se può finire prima la sua vita. Il prete non trova parole. Abbiamo due protagonisti: una vedova stanca di vivere, un prete di campagna e sullo sfondo Montelice, un paese in cui non accade mai niente (“sette case addossate..due strade, un cortile che chiamano piazza, uno stagno e un canale e montagna quanta ne vuoi. Che fanno qui a Montelice? vivono e basta e poi muoiono..qui non succede niente di niente…gli uomini al pascolo..le donne a far legna..in strada una vecchia o una capra o nemmeno quello..l’inverno dura mezzo anno. due mesi continui di pioggia, due tre mesi di neve-neve. non succede niente di niente solo che nevica e piove e la gente nelle stalle a guardare la pioggia e la neve come i muli e le capre..”).

Da una parte Zelinda, ovvero la credente con il suo dubbio incessante, e dall’altra il prete, con la sua dottrina, ma anche le sue perplessità. È un dialogo tra due fedeli, tra due fedi. Da un lato l’interrogativo della donna, dall’altro il prete, per cui diventa una ossessione, un cruccio, un enigma la vita di Zelinda. Entrambi sono attraversati da esitazioni.

Ci si può uccidere? È questa la domanda di Zelinda al prete. Ma è questa la risposta che deve dare la letteratura. Vale la pena vivere? I suicidi sono degli impazienti scriveva Bufalino. Vale la pena pazientare? Secondo la religione cristiana il suicidio è un atto di natura violenta contro sé stessi, è l’omicidio di sé stessi.

Il cupio dissolvi

Tutte le religioni condannano il suicidio. Secondo la moderna psichiatria la stragrande maggioranza dei suicidi sono depressi e la depressione può essere curata con gli psicofarmaci e la psicoterapia. Ma ai tempi di Silvio D’Arzo queste cose non si sapevano. Di solito si cerca sempre di rimandare.

Si cerca addirittura di procrastinare l’improcrastinabile. Bisogna non pensare alla morte per vivere pienamente. Bisogna pregare per salvarsi. Ma perché pensare egoisticamente alla propria salvezza individuale? Come scrive Camus a cosa serve la mia salvezza se non si salva l’umanità? Se ognuno ha le sue certamente le sue colpe, ma anche le sue giustificazioni, i suoi alibi e la possibilità di espiare allora forse sarebbe meglio sperare in un Dio talmente misericordioso da lasciare l’inferno vuoto come teorizzato da taluni teologi.

La chiesa condanna sia l’atto che l’attore. Esiste il libero arbitrio. C’è sempre un frangente per chiedere aiuto agli altri. Bisogna sempre trovare la forza per non sopprimersi, per vincere il cupio dissolvi, per far vincere l’istinto di autoconservazione. Il suicidio è talvolta questione di un istante. Il suicida per alcuni resta prigioniero di un istante, in cui azzera ogni possibilità, ogni speranza. In questo racconto il suicidio sembra invece il frutto di una scelta maturata da tempo e ben ponderata.

La Chiesa ammette eccezioni? Zelinda considera il suo un caso particolare. Non ha più vitalità. Non ha più voglia di vivere. Ed allora  chiede se se ne può andare anzitempo in punta di piedi. Ritiene di aver già mangiato il suo pane, di sapere come sia la vita.

Ritiene che non ci sia più niente da conoscere e da vivere. Ha fatto il suo bilancio esistenziale. Ha tirato le sue somme. Dalle cose che le sono capitate, dalle persone che ha incontrato, dalla vita che ha fatto, dalla porzione di mondo e di realtà che ha vissuto, ha tratto le sue conclusioni: non vale più la pena vivere.

È una considerazione personale che per lei diventa certezza assoluta. La sorte ormai per lei non ha più niente in serbo. Non ci sarà più nessuna sorpresa. La vita per lei sarà sempre la stessa e lei non ne può più. Zelinda si è scordata che anche la vita più arida, più grama può essere riscattata, può essere un dono. Ma lei si considera una donna di 63 anni che è ormai senza futuro. Che cosa possono fare le parole di fronte a questo dramma?

Case d’altri: una macro-metafora della vita e della morte

Che cosa può fare la religione incarnata qui da un prete? Ma qui il dramma è doppio. Anche il prete ormai è un sacerdote da sagre di paese. È prossimo alla pensione, al congedo, all’addio, alla morte. Tutto questo si svolge in un piccolo paese, in un piccolo mondo angusto. D’Arzo narra l’inenarrabile, due vite avvolte dall’insensatezza, dall’assurdità di esistere. Il linguaggio è povero di figure retoriche, ma l’intera vicenda è una macro-metafora della vita e della morte, che si intrecciano in modo indissolubile.

D’Arzo è implacabile. Crea un congegno perfetto. Scrive in modo essenziale l’essenziale della vita e della morte. Toglie nello stile e nella trama ogni orpello, ogni ridondanza.

Leva tutto il superfluo. Rimane per queste poche pagine il mistero che ci irretisce e ci incupisce, la sospensione. Le vite degli uomini sono tutte diverse. La sofferenza, le vicissitudini, la stanchezza di esistere non sono uguali per tutti. Alcuni vengono messi più alla prova dalla vita di altri. Secondo la teologia cristiana il suo disegno è imperscrutabile, sfugge alla logica umana, ma Dio valuta ogni caso in modo equanime, soppesando tutto, qualsiasi cosa.

“Ognuno ha una ragione valida per uccidersi”, scriveva Pavese. Ma si uccidono solo coloro la cui sofferenza interiore per stati d’animo o eventi nefasti ha sorpassato ogni livello di sopportazione. Se si mette sul piatto della bilancia ci sono svariate ragioni per uccidersi e svariate ragioni per continuare a vivere.

Viene considerato razionale continuare a vivere. Ma è pura convenzione. Allo stesso modo viene considerato più  coraggioso continuare a vivere che farla finita. Si ritiene a torto o a ragione che quando una persona si uccida o tenti di uccidersi perda il senno della ragione. D’altronde la cultura e la società devono essere biofile. Non si può fare altrimenti.

Condannare il gesto estremo è un modo per dissuadere gli indecisi o coloro che si trovano in difficoltà. È un modo per interrompere l’emulazione dell’estremo gesto. Condannare il suicidio è un modo per mandare avanti il mondo, pur ammettendo la pietà cristiana per la vittima. Alla domanda di Zelinda c’è la risposta secca del prete: non sono ammesse eccezioni.

Il prete risponde che per la morte propria ed altrui non si decide noi, ma decide Dio. Nessuno può anticipare i tempi. Nessuno deve disperare. Zelinda però viene trovata morta. Nessuno sa se l’ha fatta finita. Forse lo scrittore emiliano lascia alla fine alla donna la libertà di autodeterminarsi. Il prete è prossimo a lasciare il paese per tornare a casa.

Una situazione senza via d’uscita

Ad ogni modo il prete, che rappresenta la religione, esce sconfitto. Sicuramente la pecorella smarrita non è tornata nell’ovile. Ma probabilmente dall’ovile, dalla ortodossia religiosa si era allontanata solo con i pensieri, con i tarli della sua mente. Sorge spontanea una domanda, leggendo D’Arzo: è giusto che Dio condanni Zelinda, che ha vissuto una vita irreprensibile per una sola cattiva azione e che ha fatto del male solo a sé stessa?

Dio non potrebbe fare una eccezione ai suoi regolamenti? La risposta di qualsiasi prete probabilmente è che bisogna vivere cristianamente fino alla fine, fino in fondo.

Il racconto di D’Arzo tratta di una situazione senza uscita, ma nessuno sa se nella vita alla fine c’è una via di uscita oppure no. Grazie alla fede si può credere all’aldilà e alla salvezza, ma la logica umana, i fatti e la scienza lasciano in sospeso la questione proprio come D’Arzo. La vecchia è morta, le cose vanno come al solito, sta “per venire la morta stagione, gli sterpi secchi, le passere uccise dal freddo, la notte che arriva alle sei, i fossi ghiacciati, i vecchi che se ne muoiono in fila…”.

Talvolta la vita sembra un contorno sfumato, una domanda mal posta, una occasione mancata. Eppure sono tante le sfaccettature della vita. Siamo così presi ed immersi dalla quotidianità che ci dimentichiamo che è un dono: forse è questo il vero messaggio dello scrittore.

 

Di Davide Morelli

 

Elegia e ironia nella poetica di Montale. “Ho sceso dandoti il braccio….”

Ho sceso, dandoti il braccio… è una delle più note dell’ultima stagione montaliana, in cui il poeta ligure ricorda la sua vita coniugale, allegoricamente simbolizzata dalla discesa delle scale e dal viaggio dell’esistenza, che, sebbene sia stato lungo, al poeta appare breve. La poesia è in versi liberi.

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tutt’ora, ne più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.

 

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.

 Ho sceso dandoti il braccio… composta nel 1967, è la quinta di Xenia II, dal nome latino che fa riferimento ai “doni votivi” che si facevano a un ospite nel momento in cui lasciava l’ abitazione dove era stato accolto,  si tratta precisamente di una sezione di Satura, una raccolta di poesie uscita nel 1971 in cui vi è un vero e proprio mutamento radicale nello stile e nelle intenzioni di questo straordinario autore rispetto alle sue opere precedenti.

La morte della moglie, Drusilla Tanzi, soprannominata scherzosamente Mosca per un problema alla vista , avvenuta nel 1963, indusse Montale a un mutamento prettamente stilistico ma non solo, ovvero sia iniziò a sperimentare uno stile più ironico e una scrittura di registro maggiormente colloquiale come dimostra Ho sceso dandoti il braccio.., basti pensare allo stesso termine Satura e dunque al carattere miscellaneo,  dal punto di vista formale e contenutistico, dei componimenti.

Nella poesia di Montale inizia dunque a farsi spazio l’ironia, a tratti amara a tratti più propriamente scherzosa ma sui generis che contribuisce a modificare i tratti della sua scrittura e delle sue intenzioni con un mutamento di tono e di registro e dunque non vi è più un linguaggio formalmente alto,  aulico, sublime, classicheggiante ma di respiro più colloquiale, ironico quasi una presa di distacco consapevole dal mondo che lo circonda.

Quando scrivevo i primi libri non sapevo che avrei raggiunto gli ottant’anni.

Passati gli anni, guardandovi dentro ho scoperto che si poteva fare anche altro, l’opposto anche […] ho voluto suonare il pianoforte in un’altra maniera, più discreta, più silenziosa.

Per quanto riguarda la struttura delle poesie vi sono quattro sezioni: Xenia I e II e Satura I e II, le prime due raccolte sono le elegie dedicate alla moglie scomparsa le seguenti invece, sempre per il carattere miscellaneo che caratterizza questa raccolta dal punto di vista contenutistico e formale di cui si è parlato precedentemente, contengono testi che raccontano la sua visione rinnovata della vita e di ciò che lo circonda, con un filtro ironico e di distacco, quasi una raggiunta consapevolezza e una lucida riflessione che ha come scopo quello di prendere atto della realtà del mondo contemporaneo.

In merito a Satura si è parlato spesse volte di contrapposizione e di disarmonia tra elegia e ironia, come se l’elegia, in origine caratterizzata dal verso del lamento ovvero sia il distico elegiaco, l’alternanza di esametri e pentametri che caratterizzavano e davano vita a un canto di dolore non potesse essere accostata a una scrittura ironica e di registro inferiore ma è sufficiente soffermarsi sulla poesia di Montale per comprendere l’erroneità di questa considerazione; è disarmante la sua potenza comunicativa che, pur mutando registro, intenzioni, forma e contesto da vita a delle immagini che nascono e compaiono improvvisamente davanti allo sguardo dei lettori, tale è la straordinarietà di questo autore.

Il talento e la sensibilità di Montale consentono che si adagi sul testo una patina di emozione che permette a sua volta al linguaggio scelto, pur non essendo aulico e classicheggiante, di esprimere perfettamente, grazie alla sua potenza comunicativa, il significato e l’intento delle sue parole scritte per la moglie scomparsa con una semplicità ma allo stesso tempo efficacia disarmante.

Maria Luisa Spaziani, la ‘Volpe’ di Montale, poesie già oltre la vita

Maria Luisa Spaziani è stata una delle poetesse italiane più importanti del Novecento, tre volte candidata al Premio Nobel, che con la sua poesia ha accompagnato lo scorrere del secolo scorso. Torinese, appartenente ad una famiglia borghese, coltiva fin da subito l’amore per la letteratura e per la poesia in special modo, fondando e dirigendo a soli 19 anni una rivista letteraria “Il dado” intorno alla quale si muovevano autori come Penna, Sinisgalli, Pratolini .

Ma è il 1949 l´anno della svolta per Maria Luisa Spaziani, segnato dall’incontro con Eugenio Montale: ne nascerà un sodalizio letterario e un’amicizia profonda destinati a durare nel tempo, ne è testimonianza il lungo carteggio epistolare fra i due.

Montale scriverà per lei una poesia che è un acrostico del suo nome: le lettere iniziali di ogni verso compongono nome e cognome della Spaziani.
Indubbiamente non è la miglior poesia che il poeta genovese abbia composto, ma testimonia il profondo e affettuoso legame tra i due. Volpe è il modo affettuoso con cui il poeta amava chiamarla.

Mia volpe, un giorno fui anch’io il “poeta
assasinato”: là nel noccioleto
raso, dove fa grotta, da un falò;
in quella tana un tondo di zecchino
accendeva il tuo viso, poi calava
lento per la sua via fino a toccare
un nimbo, ove stemprarsi; ed io ansioso
invocavo la fine su quel fondo
segno della tua vita aperta, amara,
atrocemente fragile e pur forte.
Sei tu che brilli al buio? Entro quel solco
pulsante, in una pista arroventata,
àlacre sulla traccia del tuo lieve
zampetto di predace (un’orma quasi
invisibile, a stella) io, straniero,
ancora piombo; e a volo alzata un’anitra
nera, dal fondolago, fino al nuovo
incendio mi fa strada, per bruciarsi.

La Spaziani si muove tra l’Europa e l’America per completare i suoi studi e coltivare il suo grande amore per la letteratura, in particolare quella francese. Il mondo e la cultura francese saranno sempre per lei modello e punto di riferimento, anche nella sua produzione letteraria. Traduce opere sia dall´inglese, che dal francese e dal tedesco e intanto scrive e pubblica le sue prime raccolte poetiche.

Consegue la laurea in lingue straniere e inizia la carriera di insegnante: proprio il contatto con gli alunni e con il fervore delle loro idee dará alla Speziani l’entusiasmo per continuare a scrivere e pubblicare raccolte di poesie e mettersi in luce anche sul piano internazionale, avendo la possibilità di conoscere personaggi di rilievo del mondo culturale come Ezra Pound, Thomas Eliot e Jean Paul Sartre.

Viene nominata insegnante prima di lingua tedesca poi di lingua francese presso l´Universitá di Messina , incarico che porta avanti per 30 anni stabilendo un rapporto profondo con il Sud e la Sicilia in particolare, che insieme alla Francia e ai paesaggi liguri montaliani costituiranno i luoghi della sua vita.

I temi ricorrenti della poesia della Spaziani sono, oltre agli scenari naturali, la memoria, tema caro anche Proust autore sul quale la Speziani aveva discusso la sua tesi di laurea, il mare, la madre e la poesia stessa e l’amore, raccontato nella sua forma più alta e nobile.
Nella sua poetica compare il ricordo per il periodo della giovinezza, non come sinonimo di gioia, ma come periodo tormentato, al quale guardare, una volta superato, senza rimpianto, e l’ironia unita ad un certo atteggiamento sommesso.

Nei miei vent’anni non ero felice
e non vorrei che il tempo s’invertisse.
Un salice d’argento mi consolava a volte,
a volte ci riusciva con presagi e promesse.
Nessuno dice mai quant’è difficile
la giovinezza. Giunti in cima al cammino
teneramente la guardiamo. In due,
forse la prima volta.

Maria Luisa Spaziani spesso compone una poesie già oltre la vita come dimostra la raccolta La tundra dell’età: i suoi versi, col rimando ai fiori, parlano di una vita passeggera e ormai trascorsa, della quale non resterà traccia; perfino in quel barlume di amore impossibile, che nel testo centrale si legge  negli occhi di un fantomatico interlocutore, la poesia rimane nella sua lieve malinconia, rassegnata e dolce.

Le risonanze di tutta la produzione poetica della Spaziani — Montale, i poeti tradotti lungo tutta la vita — tornano nell’ultimo testo, “Piccola suite musicale”: rime, assonanze, e un procedimento più elaborato di composizione del testo.

Fonte:

Maria Luisa Spaziani: biografia, poetica e temi

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