‘Perversione’ di Yuri Andrukhovyc, la versione postmoderna di Morte a Venezia

Perversione dello scrittore ucraino Yuri Andrukhovyc (Del Veccio editore) è un libro su come gli ucraini dissero addio all’impero sovietico.

Lasciatevi trasportare in una Venezia vista con occhi diversi, immergetevi nella lingua e nei tanti e diversi stili, resi anche graficamente, utilizzati dall’autore per raccontare una storia misteriosa, una storia d’amore, una “buffonata” che solo durante il Carnevale è possibile. Pensate che il libro fu scritto nel ’95 a mano, e anche le particolari trovate sono state create dall’autore durante la stesura. Raccontarne la trama è complesso, per questo motivo potete leggere le interviste o recuperare le dirette degli eventi per scoprirne di più. Si è parlato tanto di autore da Nobel, io mi fiderei e inizierei a leggerlo a scatola chiusa!

«Perversione è una versione postmoderna di Morte a Venezia: ha una struttura complessa, un’abbondanza di temi, sottotrame ed elementi narrativi, e soprattutto una passione quasi barocca per il linguaggio.»

Berlin International Literature Festival

Quale è stato il destino di Stanislav Perfetsky, poeta, provocatore ed eroe della cultura underground ucraina. Le prove indicano il suicidio. Ma alcuni sussurrano di un omicidio. Alcuni fanno discretamente riferimento alla grande tradizione dell’Europa orientale del suicidio forzato. Potrebbe forse essere legato a una cerimonia del culto religioso in cui è incappato a Monaco o al lavoro come ballerino in uno strip club per donne anziane. Oppure niente di tutto questo.

Perversione ricostruisce gli ultimi giorni di Perfetsky usando un groviglio di indizi, documenti ufficiali, interviste registrate, appunti lasciati su pezzi di carta appallottolati. Perfetsky, la personificazione del superuomo artistico ucraino, ha usato la sua magistrale abilità musicale in una collaborazione con Elton John durante il soggiorno segreto della pop-star in Ucraina e per questo è diretto a Venezia per partecipare a un seminario per salvare il mondo dalla perdita di senso. Il suo viaggio lo trasforma in un novello Orfeo, un Orfeo ucraino che discende nella decadenza dell’Occidente barcamenandosi tra avventure surreali e gli argomenti non meno surreali del seminario a cui attende. Ma l’uomo/artista incede a testa alta verso il suo destino fedele al proprio ruolo e incurante dell’assurdità che lo circonda e che in qualche misura si trova ad incarnare.

L’Ucraina è nel mezzo di una tragedia, ma l’autore ritiene che la grande Letteratura sia possibile con un approccio nel contempo umoristico e tragico. In particolare, se parliamo di Letteratura di guerra ci sono esempi come Il buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hašek o molte pagine di Remarque che sono piuttosto divertenti. Andrukhovyc è al contempo serio e spiritoso e  mostra come sia utile per l’Ucraina avere un distacco umoristico, senza il quale non sopravviveremmo.

Juri Andruchovič è nato nel 1960, a Ivano-Frankivs’k, Ucraina. È romanziere, poeta, saggista. Considerato autore di culto in tutta l’Europa centrale, è stato attivista del movimento democratico del Maidan e ha partecipato attivamente alla Rivoluzione Arancione. Nel 1985 ha co-fondato il gruppo poetico Bu-Ba-Bu (Burlasque-Parodia-Buffoneria) con Oleksandr Irvanets e Viktor Neborak. Fin dagli inizi della sua attività poetica e narrativa ha ottenuto numerosi riconoscimenti tra cui i più recenti sono il Premio per la Pace Remarque nel 2005 e il Premio Hannah Arendt nel 2014. È membro della Deutsche Akademie fur Sprache un Dichtung, l’Accademia tedesca di lingua e letteratura.

Ricordando Thomas Mann, mediatore tra Vita e Spirito

Thomas Mann (6 giugno 1875 – 12 agosto 1955) ha inscritto la propria complessa letteratura nel territorio della vita, in cui tutti noi ci riconosciamo, perché è un territorio ermetico, tra non-essere-ancora e non-essere-più. Di questo regno intermedio, demonico, mutevole, l’arte si fa espressione, a volte anche contro le taglienti pretese dello spirito.

L’ermetismo di questo straordinario mediatore lunare tra vita e spirito, autore del romanzo-saggio, si rifrange nei molteplici volti dei protagonisti delle sue opere maggiori: da Thomas Buddenbrook a Tonio Kröger, da Giuseppe a Felix Krull, da Gustav von Aschenbach a Adrian Leverkühn, i quali rappresentano una fantasmagoria delle sue controfigure più o meno parziali, fantasiose o ideali.

Thomas Mann e la Germania

Andando oltre i dibattiti sul romanzo ‘ottocentesco’ di Mann, o sulla sua idea perenne di borghesia, oppure sui suoi rapporti con lo spirito tedesco, si potrebbe partire, in occasione dell’anniversario della sua nascita, da una constatazione riguardo lo scrittore tedesco e nello specifico la sua produzione letteraria da parte del filologo ungherese Kerényi nel carteggio con Thomas Mann: “una grande entelechia con inclinazione mitologica, anzi con indole mitologica, con i tratti maliziosi di un essere ermetico”

La cifra spirituale e letteraria più originale di Mann, che è il suo lascito, può essere colta nel suo carattere ermetico.

Ma come viene visto oggi Thomas Mann? Quale potrebbe essere la più giusta definizione?

L’ermetismo di Thomas Mann

Seguendo le considerazioni di Kerenyi, Thomas Mann è visto come colui che, «in questo settore del mondo umano, nel regno intermedio tra vita e morte, si muoveva come i Greci reputavano che si muovesse il loro dio Hermes. La realtà psichica del dio Hermes […] consisteva nella possibilità (che però corrisponde anche adun’altissima facoltà spirituale) di trovarsi a casa propria persino in quel regno».

Se esiste un testo letterario in cui è rappresentata la “superiore realtà” di Hermes, questo è senza dubbio La montagna incantata dove il ludus viene scoperto, e il mistero rivelato proprio dall’autore nell’ultima pagina del romanzo, quando afferma che la storia di Hans Castorp forse non fu esemplare, ma nemmeno inutile: fu “una storia ermetica”

La politica

Il primo Mann, quello che arriva fino alle geniali e deliranti Considerazioni di un impolitico dove si chiede: Cos’è lo spirito tedesco? Come può esprimersi sotto la forma del borghese? E che rapporti ha con l’umanesimo? è quello che ritorna nel Doktor Faustus nel quale emerge come lo spirito tedesco sia pessimista.

Il “pessimismo” ha un’origine e una valenza ben precisa, in quest’ambito culturale; ne sono figli Nietzsche, Wagner e lo stesso Thomas Mann.

Questa origine si trova in Schopenhauer. Mann, in quanto romanziere “ottocentesco”, delinea consapevolmente la sua discendenza: «per quanto è essenziale al mio spirito, io sono un vero figlio del secolo nel quale cadono i primi venticinque anni della mia vita, il diciannovesimo […]. Romanticismo, nazionalismo, borghesia, musica, pessimismo, umorismo, questi elementi che erano sospesi nell’atmosfera del secolo passato sono anche le componenti principali e impersonali della mia esistenza»

Il pessimismo borghese

Un altro aspetto importante della letteratura di Mann è il “fattore morale” borghese che riguarda non solo l’uomo d’affari, ma anche l’artista, lo scrittore, come Mann chiarisce a proposito di se stesso: «in contrasto con quello meramente estetico, con la contemplazione edonistica della bellezza, anche col nichilismo e col vagabondaggio all’insegna della morte, è propriamente un sentirsi borghesi, ossia cittadini della vita, è la sensibilità per determinati doveri vitali […], a recare un apporto produttivo alla vita e al suo sviluppo; è ciò che impone all’artista di non concepire l’arte come una dispensa assoluta dalle responsabilità umane, di fondare una casa, una famiglia, di dare una base solida, decorosa, non trovo altra parola, borghese, alla sua vita spirituale, per avventurosa che essa sia»

La ‘borghesia’ nasce dunque in reazione a questo presentimento pessimistico del vuoto e dell’infondatezza.

La teologia

E la teologia? Per disquisire di quest’altro importante aspetto nell’opera di Thomas Mann, bisogna fare riferimento al Doktor Faust, e allo studio di Maar il quale in un articolo del 1989, ha annesso alla “costellazione” del romanzo un altro nome significativo, quello di Gustav Mahler, di cui ha studiato la posizione in tutta l’opera di Thomas Mann.

Il fatto che la posizione di Mahler nel Doktor Faustus sia sfuggita a numerosi critici prima di Maar come Adorno, è dipeso in parte da due fattori: le modalità della sua “apparizione” e la falsa constatazione che ne ha impedito il riconoscimento. Maar ha dimostrato con prove incontestabili (una fotografia posseduta da Thomas Mann e la descrizione che il romanziere aveva dato di Gustav von Aschenbach in Morte a Venezia) che il diavolo con cui Leverkühn discute lungamente nel capitolo XXV del romanzo e che, dopo una prima trasformazione, assume certi pensieri adorniani sulla crisi della musica e sulla sua “impossibilità” nella situazione storico-sociale “moderna”, non assume affatto i tratti fisici di Adorno, come generazioni di critici avevano sostenuto, bensì quelli di Gustav Mahler.

L’attualità di Thomas Mann

Di cosa ci parla oggi Thomas Mann, l’uomo che era spaventato dal caos del mondo e che seguiva gli eventi del suo tempo con la stessa puntigliosità utilizzata per comporre i suoi romanzi, era un testimone sempre vicino agli eventi e sempre dentro i dibattiti culturali e politici che li accompagnavano?

Soprattutto che la sua Montagna non è incantata come molti pensano, ma magica, in quanto essa può suscitare incanto, “ma anche sortilegio e maleficio” e del resto “nel corso della narrazione si assiste ad una vera e propria iniziazione”, quella che Mann fa sperimentare a Hans Castorp e della sua progressiva “salita” agli inferi e la cui conclusione è segnata da quell’“orribile danza” e da quella “voluttà smaniosa e maligna” che è la prima guerra mondiale, sui cui campi intrisi di sangue si compirà il sacrificio del protagonista.

Ascendenze freudiane

Mann ci parla di tendenze civili e demoniache presenti nell’uomo: ascendenze freudiane dunque e della potere che ha un grande evento storico di scuoterci. Di teologia, di passione, do sagacia, di filosofia contemporanea, della necessità di dare credito al temo, alla sofferenza, alla gioia; nel caos della vita.

Nonché le seguenti parole contenute in Considerazioni di un impolitico, lui che era antinazista ma anche radicato nella contraddizione:

“Non solo non penso che il destino dell’uomo si esaurisca nell’attività pubblica e sociale, ma addirittura trovo quest’opinione disgustosa e inumana”; “Amore! Umanità! Li conosco, quel teorico amore e quella dottrina umanitaria, professati a denti stretti per provocare un senso di ribrezzo nel popolo…. Tremenda, certo, è la guerra. Se però nel vivo della guerra il letterato politico si mette in posa e proclama di sentire nel petto il respiro d’amore dell’universo, questo è il più spaventoso degli spaventi e insopportabile”.

La personalità dunque nasce da un conflitto e la si ha quando si è qualcuno, non quando si hanno opinioni. Pensiero tagliente ed estremo, inconcepibile per chi accoglie solo l’ovvio e per chi non è uno spirito libero; questo sembra essere uno dei lasciti più importanti e al contempo urticanti del mago Thomas Mann.

 

https://zeitblatt.com/remembering-thomas-mann-mediator-between-life-and-spirit/

 

Dannunzianesimo tragico e gusto per la ricercatezza nei film ‘aristocratici’ di Luchino Visconti

Nel marzo del 1976, dopo aver visionato il primo montaggio del suo ultimo film: L’innocente, tratto dal celebre romanzo di Gabriele d’Annunzio, si spegneva a Roma, Luchino Visconti di Modrone, Nobile dei duchi, Duca di Grazzano Visconti, Conte di Lonate Pozzolo, Signore di Corgeno, Consignore di Somma, Consignore di Crenna, Consignore di Agnadello, Patrizio Milanese. Questi i suoi titoli nobiliari. Non è affatto superfluo, come qualcuno potrebbe pensare, ricordare chi fosse e da dove provenisse il regista milanese, perché il tempo della scienza, misurabile, regolare, rettilineo non esaurisce mai il tempo della durata, composto da ricordi e interiorità, come ci avrebbe insegnato Bergson e come ce lo ha rivelato nel suo capolavoro de La recherche, Marcel Proust.

Il giovane Luchino si appassiona di teatro non ancora adolescente. E’ un lettore vorace di libretti teatrali, in particolare di Shakespeare. Naturalmente la vicinanza al Teatro alla Scala, cui la sua famiglia è da generazioni benefattrice, contribuisce in maniera non irrilevante ad accrescere in lui l’amore per la scena, per la rappresentazione delle passioni e dei desideri che si celano nell’intimo della natura umana. La permanenza parigina, avvenuta poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, gli permetterà di incontrare intellettuali come Jean Cocteau e di essere assistente alla regia di Jean Renoir, esperienza questa che costituirà la sua vera iniziazione al mondo del cinema. Sempre a Parigi, infine, si deve il suo incontro con il mondo comunista d’oltralpe e italiano, all’epoca in esilio proprio all’ombra della tour Eiffel.

Visconti, spirito libero, è visto con malcelato sospetto dalla sinistra a causa delle sue origini nobiliari, cosa questa che lo accompagnerà per tutta la vita e spesso servirà da pretesto per catalogare aprioristicamente i suoi film come frutto di uno spirito reazionario, nostalgico e conservatore. Ma il regista milanese, nei confronti di chi avrà da ridire sulle trame e sulla provenienza sociale dei protagonisti di alcune delle sue sceneggiature, ci terrà sempre a precisare:

[…] è invalsa la credenza, anch’essa singolare, che fare del realismo nel cinema voglia dire approfondire moti, sentimenti e problemi delle classi povere della nostra epoca. Come se fosse proibito a un regista realista indagare criticamente sui moti, sentimenti e problemi delle classi dominanti in una qualsiasi altra epoca, ricavandone una lezione d’attualità, naturalmente, allorché si va a ricercare nel passato i motivi che mossero o cristallizzassero determinati strati sociali.

Film che costituiranno quel corpus fatto di ricercatezza, scavo interiore e drammaticità – in una sintesi sua propria – che faranno di Visconti tra i massimi, se non il massimo, interprete del cinema italiano ed europeo del ‘900.

La doppia chiave di lettura che il regista milanese fornisce, in tutti i suoi film, assegna a questi un posto speciale, dal sapore quasi mistico, esoterico, mai circoscritto nella apparente semplicità della trama in cui si inscrivono le vicende narrate. In Senso (1954), per esempio, in una fosca atmosfera veneziana, ancora sotto il dominio austriaco, va in scena una tragica storia d’amore tra un’aristocratica che sogna e combatte per l’ideale unitario e un giovane tenente dell’esercito austriaco. L’amore unisce ciò che la politica non è in grado di unire, si potrebbe subito pensare; ma ad uno sguardo più profondo, svelatosi solamente nelle scene finali, si consuma la disfatta non tanto di una relazione amorosa, quanto di una classe dominante, universalmente considerata, all’indomani del trionfo della borghesia avida e bracconiera che ha ormai infettato dei suoi istinti mercantilistici anche le decadenti classi dominanti.

E’ proprio questa considerazione, questo atto di lesa maestà verso tutto un mondo, l’unico a cui era degno credere, quel mondo ove la Rivoluzione francese ancora non aveva fatto capolino, è ciò a cui allude il tenente Mahler, quando in preda alla disperazione, dinanzi al suo ormai consunto amore, afferma:

[…] cosa mi importa che i miei compatrioti abbiano vinto oggi una battaglia in un posto chiamato Custoza, quando so che perderanno una guerra e non solo la guerra; e l’Austria tra pochi anni sarà finita e un intero mondo sparirà, quello a cui apparteniamo tu ed io. Il nuovo mondo di cui parla tuo cugino non ha alcun senso per me.

La medesima aspirazione alla ricerca di un senso perduto, del resto, agita la mente e le membra di uno stanco ed esausto uomo come il principe di Salina nel Gattopardo (1964). Egli è costretto a guardare inerme le trasformazioni sociali e politiche della nascente Italia. Stato nuovo che ha come imperativo quello di creare italiani nuovi, come don Calogero Sedara, astro della borghesia in ascesa, dai modi villani e rozzi, che sa parlare solo di affari, di patrimoni e di nuove terre da incamerare, e con cui aristocratici come don Fabrizio devono venire a patti per la potenza economica e politica che questo nuovo ceto esprime. In una scena del film, il principe stesso, dialogando con don Pirrone, espone al meglio cosa avverrà presto:

Ho fatto importanti scoperte politiche. Sapete che succede nel nostro paese? Niente succede, niente. Solo un’inavvertibile sostituzione di ceti. Il ceto medio non vuole distruggerci, ma vuole solo prendere il nostro posto, con le maniere più dolci; mettendoci magari in tasca qualche migliaio di ducati. E poi tutto può restare com’è. Capite Padre? il nostro è il paese degli accomodamenti.

Luchino Visconti lascia al ballo finale la nostalgia nei confronti di un’epoca che sta volgendo al termine. Il valzer e lo sfarzo dei saloni dell’aristocrazia siciliana, dai cui soffitti respirano blasoni illustri, devono cedere il passo ai nuovi affamati, a coloro i quali i cerimoniali, il galateo e il bon ton appaiono come piccinerie da museo, a coloro i quali manca sia il senso dell’onore che della bellezza.

Nel 1971, con Morte a Venezia, il regista milanese consacrerà appositamente al tema della bellezza il suo film, tratto dal romanzo di Thomas Mann. Il compositore Gustav von Aschenbach rappresenta l’artista umanamente appagato, e proprio per questo profondamente irrequieto, che decide di passare un periodo di riposo a Venezia, alla ricerca spasmodica e disperata dell’idealtipo di bellezza. In un’atmosfera pregna di estetismo di un celebre e storico hotel veneziano, sul finire della Belle Epoque, il bello ideale si materializza in un adolescente di una nobile famiglia polacca. Seppur attraverso metodi discutibili, ricalcando la trama di Mann, Visconti mette in scena la capacità della bellezza di rompere qualsiasi schema interiore, di suscitare nell’anima di colui che la contempla energie inestinguibili, arrivando financo alla pazzia pur di coglierla, almeno per un istante.

La volontà di Luchino Visconti va al di là di una certa morbosità che in certe scene sembra adombrare il messaggio di fondo; essa, al contrario, esamina il desiderio umano, scruta nelle segrete della nostra coscienza per mostrare a noi spettatori che il desiderio di bellezza è inscritto nelle nostre più intime corde. Di un anelito religioso si tratta, evidentemente. Sconta, come questo, il rischio dell’esagerazione che manda in cortocircuito l’equilibrio umano. Le scene finali, che vedono il protagonista truccato, in preda ad una folle ricerca di quella bellezza tanto agognata, mostrano nella sua interezza proprio questo aspetto. Tuttavia, la morte di von Aschenbach, con cui si conclude il film, nell’istante in cui protende la mano verso il giovane Tadzio che scompare lungo l’orizzonte del mare, testimonia anche la perenne insoddisfazione di colui che ripone nelle creature non il miraggio, ma l’essenza del bello.

Bellezza e arte: anche qui, all’insegna di queste due coordinate si muove l’ultimo personaggio che Luchino Visconti volle mostrare nel suo film Ludwig (1973): vale a dire Ludovico II, il sovrano bavarese reso celebre per via dei fantasmagorici castelli che fece realizzare nella sua terra. Le fortezze di Neuschwanstein, Linderhof e Herrenchiemsee costituiscono non solo un portato significativo del suo reame, ma soprattutto rivelano lo spirito e la sensibilità di un personaggio storico nel quale il mistero che ha agitato la sua vita, sino ai momenti finali, costituisce il limite oltre cui, ancor oggi, gli stessi storici faticano a sporgersi. La pazzia, in tal modo, diviene la risposta più semplice, sbrigativa con il quale apostrofare un sovrano a cui non piaceva muover guerra, a cui non interessava prendere parte a manovre politiche, ma che aveva come unico interesse quello di far rivivere e riassaporare lo spirito degli eroi narrati nelle saghe nibelungiche e nei poemi cavallereschi e a cui il suo maestro e modello assoluto, Richard Wagner, si era ispirato dando ad esse nuova linfa nelle sue memorabili opere. Visconti, dal canto suo, ha un opinione molto chiara del sovrano bavarese:

Ludwig non era pazzo, non lo era più di quanto lo siamo noi, mentre lo ricordiamo.
(L. Visconti, Ludwig II secondo L.V.)

Non è errato considerare Ludwig come un sovrano che avesse in cuor suo nient’altra ambizione che quella di educare un popolo, il proprio, al gusto della bellezza. Non conto io, sembra dirci, conta ciò che vi ho trasmesso con i miei castelli, con il patrocinio da me destinato ad opere, a teatri, all’arte somma così come essa fu realizzata e trasmessa da Richard Wagner.

Sembrano attagliarsi alla perfezione, e persino suonare profetiche, le parole del filosofo colombiano Nicolas Gomez Davila, le quali riflettono il senso più profondo dell’insegnamento che Luchino Visconti, attraverso la figura di Ludwig, vuole dare:

Nei Paesi borghesi come in terra comunista l’evasione dalla realtà è deplorata in quanto vizio solitario, perversione debilitante e abietta. La società moderna scredita l’evaso per evitare che qualcuno ascolti il resoconto dei suoi viaggi. L’arte o la storia, l’immaginazione dell’uomo o il suo tragico e nobile destino non sono criteri che la mediocrità moderna tolleri. Tale “evasione” è la fugace visione di splendori perduti e la probabilità di un verdetto implacabile sulla società attuale.

Considerare, interrogarsi, lasciarsi cullare dai messaggi che Luchino Visconti dà con i suoi film non costituisce opera vana; al contrario, essi educano alla bellezza riflettendo, non di rado, la sua ancella più stretta: l’etica.

 

Diego Panetta

‘Tonio Kröger’, la ricerca di se stessi secondo Mann

L’estate è ormai finita, e si porta via la corsa ai romanzi rosa da leggere sotto all’ombrellone. L’autunno ormai si avvicina, portando con sé la voglia di qualcosa di più impegnativo da leggere davanti al fuoco.  Qualcosa di più impegnativo potrebbe essere un premio Nobel per la letteratura, come Thoman Mann.

Troppo impegnativo, forse? Prendiamo Die Buddenbrook. Non sono in molti quelli che se la sentono di affrontare tale capolavoro. Ma la letteratura non permette di scappare, ti viene a cercare e ti tira attraverso il cuore, sulla strada che devi percorrere. Se non si è ancora pronti per la sua opera maggiore, si potrebbe cominciare con un romanzo breve del 1903, Tonio Kröger, una storia fortemente legata al periodo in cui è stata scritta ed alla vita del suo autore, ma che, leggendola con attenzione, si lega fortemente ad ogni tempo ed alla storia di ogni aspirante scrittore, musicista, pittore; alla storia di ogni artista.

Tale romanzo ha come sfondo, anche se non viene mai citata, la città di Lubecca, la stessa de I Buddenbrook. Se nella cornice esterna del racconto Mann si è richiamato allo stesso luogo natale, nel definire il carattere del suo protagonista, ha accentuato rispetto a Hanno Buddenbrook, il processo di assimilazione autobiografica. Come Mann, Tonio ha una madre brasiliana dalla quale ha ereditato i capelli bruni e la passione per la musica.

La vita del giovane ipersensibile Tonio (figura nella quale si possono immedesimare molti adolescenti introversi ed inquieti) viene utilizzata da Mann per descrivere una scissione interiore comune a entrambi autore e personaggio, tema caldo a inizio Novecento a causa degli scritti del filosofo Nietzsche: la distanza tra l’arte e la borghesia. Tonio Kröger è figlio di padre console e di madre artista esotica. Egli descrive così la sua esistenza, dopo un lungo viaggio dentro e fuori i confini fisici e mentali del suo corpo: “Io sto tra due mondi, di cui nessuno è il mio, e per questo la mia vita è un po’ difficile”.

Il sentimento che prevale nelle parole di Tonio,  ricalcando il pensiero dell’autore, è un senso di lontananza e casta invidia, una spaccatura tra due modi di essere non conciliabili in un unico uomo. Oggi, il concetto di borghesia appare in qualche modo sbiadito e superato, lo si incontra solo sparso nei libri di storia, non nel vivere quotidiano; lo si potrebbe sotituire con quello di società di massa.

Tonio bambino si sentiva diverso e lontano dai biondi occhi azzurri suoi coetanei; oggi lo studente che sente bruciare in sé il fuoco dell’arte sarà probabilmente vittima di bullismo e si sentirà alienato dagli standard seguiti a testa bassa in periodo adolescenziale dai più.

Tonio Kröger è la storia dell’arte che nasce sia dall’inadeguatezza che dal senso di isolamento che prova chi esce dal sentiero tracciato dall’indifferenza quotidiana della nostra società. È un romanzo, o meglio una prosa lirica per chi ama l’arte, i Bildungsroman, le riflessioni. Ma soprattutto è una storia per chi cerca di non dar voce alle proprie inclinazioni; per chi lotta contro se stesso, nascosto e impaurito.

Tonio Kröger, che l’autore considerava una delle sue opere più riuscite, racchiude nella sua brevità quelli che sono i motivi chiave della narrativa del grande scrittore tedesco: il contrasto arte-vita e quello spirito-natura. Tonio, come abbiamo detto, è ostile alla natura della gente comune, sana ma ottusa davanti agli ideali più sublimi. Il primo capitolo infatti termina con queste parole, in riferimento al protagonista:

“Allora viveva il suo cuore: lo struggimento lo abitava e una malinconica invidia, un tantino di sprezzo e una grande casta felicità”.

 

E l’ultimo:

“Non vituperate questo amore Lisaveta: è buono e fecondo, nostalgia e malinconia vi si trovano, e un tantino di sprezzo e una grande casta felicità”.

 

La ripetizione quasi integrale significa che il Tonio Kröger è un’avventura dell’anima che non esce da se stessa: Mann indaga su se stesso per accettarsi, dispiegando il proprio fascino nella descrizione intimistica dei turbamenti delle speranze, delle illusioni e delusioni adolescenziali, quando Tonio crede di poter piegare Hans alla sua amicizia e Inge al suo amore attraverso la poesia.

Per la prima volta Mann, come ha affermato lui stesso, inserisce in un’opera la musica come elemento stilistico formale. Tuttavia anche in questo che doveva essere un romanzo confessione-autobiografica, Mann non identifica se stesso con il protagonista, evitando il questo modo di aver scritto un libro di ricordi, soprattutto grazie all’uso dell’autoironia, rivelatrice di qualcosa che va oltre ad un semplice bisogno tecnico del realista Mann che probabilmente vuole  nascondere della materia scottante che gli si è imposta con tanta urgenza, pensiamo anche al protagonista, il musicista Aschenbach di  Morte a Venezia che aveva il terrore dei contatti fisici e olfattivi.

 

 

Thomas Mann: una sensibilità incompresa come quella del suo ‘Tonio Kroeger’

Thomas Mann (Lubecca, 6 giugno 1875-Zurigo,12 agosto 1955), scrittore tedesco, nasce in quella Lubecca una volta appartenente alla cosiddetta “Lega Anseatica”. E’ considerato non solo uno degli autori di maggior risonanza europea del novecento, ma anche mondiale; basti, per esempio leggere alcune delle sue opere più celebri da lui scritte come “La montagna incantata” , “Tonio Kroger”, “ I Buddenbrook”, “Morte a Venezia”. Personalità particolare, con mente sognatrice, fantastica e introspettiva.

Durante i suoi studi (di indirizzo commerciale) compone le sue prime opere, mostrando talento e qualità discrete. E’ durante il periodo universitario a Monaco che conosce importanti figuri intellettuali di vari caffè. Ed è proprio qui che tiene un’importante conferenza su Wagner, che ammirava molto citando alcuni legami tra il Nazismo e l’arte. Soggiorna, in seguito anche in Svizzera. Tra i riconoscimenti più importanti ottenuti dallo scrittore, ovviamente vi è il premio Nobel per la letteratura nel 1929. Nel 1952 è in Svizzera; tuttavia in Germania non vi fece ritorno, anche se venne proposto come Presidente della Repubblica. Muore di arteriosclerosi nei pressi di Zurigo il 1955

Parlando di alcune tematiche “classiche” e sempre presenti in Mann certamente c’è in agguato la morte, il regno oscuro e cupo, ma anche sofferente. Sì, sofferente perché? Proprio il suo Paese di nascita, la Germania. E qui vediamo, senz’ombra di dubbio, un certo disagio dell’autore nel guardarsi intorno i crimini commessi dal suo crudele popolo. Crudele, forse, a dir poco. Ma non siamo in sede di giudicare come si è comportato il popolo teutonico durante la Seconda Guerra Mondiale. Qui, tuttavia, basta leggere un qualsiasi libro di storia.

Ma il suo atteggiamento è molto ambiguo, in quanto elogia, altresì, l’amore per il suo popolo, soprattutto la Germania culturale, senza dimenticare, come detto sopra, le violenze che s’accompagnavano insieme ai grandi autori. Dove si sente una certa qual sofferenza è nella sua opera precedentemente citata “Tonio Kroger”. Cos’ha di speciale Tonio? La risposta si trova dopo aver letto il romanzo e, dove ci si chiede: chi è, in realtà, il protagonistà? E’ l’autore stesso!

Infatti, qui, Tonio, ragazzo molto giovane, affronta il difficile rapporto sociale con gli altri individui, in cui si egli accusa si non riuscire a godere di una vita pura e semplice come “tutti” gli altri, vivendo di giorno in giorno senza preoccupazioni, a differenza di quelli più dotati e dotati di una sensibilità artistica, che seppur consapevoli (o quasi) del mondo che li circonda, tendono a chiudersi a riccio, isolandosi, diciamolo pure, perfino da stessi. E qui sta vi risiede la situazione di Tonio, in una ricerca che è quella di se stesso, come d’altronde volle fare l’autore, cercare il suo vero essere, chi è (o cosa) e non è.
Il protagonista ha un’estrema sensibilità, come l’autore; sensibilità artistica, come l’autore; incompreso da tutti, come ancora l’autore.

E a questo, vien da chiedere: e dunque? Il dunque è qui: Thomas Mann sta a Tonio Kroger, come questi sta all’autore.
Un altro “dunque”? Dunque il romanzo potrebbe, a questo punto, chiamarsi benissimo “Thomas Mann” anziché “Tonio Kroger”, sicché, tanto, è la stessa cosa.

Ricorrente nelle sue opere anche il tema dell’omosessualità , della creatività faticosa ma positiva e fruttuosa per la società, della dicotomia innocenza-giovinezza/corruzione-vecchiaia,(incarnati rispettivamente da Tadzio e l’autore ascetico Gustav Von Aschenbach, innamorato di lui) specialmente in “La morte a Venezia” (1912) resa ancora più celebre dal film omonimo di Luchino Visconti.

Tra il 1933 e il 1942, Mann pubblica la tetralogia “Giuseppe e i suoi fratelli”, tratta dalla Genesi, lavoro di grande fattura. Con “Lotte a Weimar” (1939), riprende ispirazione da “I dolori del giovane Werther” di Goethe. Con il “Doctor Faustus”,(1947) invece, racconta la storia del compositore Adrian Leverkühn e della corruzione della cultura tedesca negli anni precedenti alla Seconda Guerra Mondiale, mentre il suo ultimo grande romanzo, “Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull”,dove il protagonista,un giovane fascinoso, riesce a far credere di appartenere ad un grado sociale superiore, è rimasto incompiuto per la morte del grande scrittore, uno dei più influenti nel panorama culturale del Novecento.

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