Nel marzo del 1976, dopo aver visionato il primo montaggio del suo ultimo film: L’innocente, tratto dal celebre romanzo di Gabriele d’Annunzio, si spegneva a Roma, Luchino Visconti di Modrone, Nobile dei duchi, Duca di Grazzano Visconti, Conte di Lonate Pozzolo, Signore di Corgeno, Consignore di Somma, Consignore di Crenna, Consignore di Agnadello, Patrizio Milanese. Questi i suoi titoli nobiliari. Non è affatto superfluo, come qualcuno potrebbe pensare, ricordare chi fosse e da dove provenisse il regista milanese, perché il tempo della scienza, misurabile, regolare, rettilineo non esaurisce mai il tempo della durata, composto da ricordi e interiorità, come ci avrebbe insegnato Bergson e come ce lo ha rivelato nel suo capolavoro de La recherche, Marcel Proust.
Il giovane Luchino si appassiona di teatro non ancora adolescente. E’ un lettore vorace di libretti teatrali, in particolare di Shakespeare. Naturalmente la vicinanza al Teatro alla Scala, cui la sua famiglia è da generazioni benefattrice, contribuisce in maniera non irrilevante ad accrescere in lui l’amore per la scena, per la rappresentazione delle passioni e dei desideri che si celano nell’intimo della natura umana. La permanenza parigina, avvenuta poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, gli permetterà di incontrare intellettuali come Jean Cocteau e di essere assistente alla regia di Jean Renoir, esperienza questa che costituirà la sua vera iniziazione al mondo del cinema. Sempre a Parigi, infine, si deve il suo incontro con il mondo comunista d’oltralpe e italiano, all’epoca in esilio proprio all’ombra della tour Eiffel.
Visconti, spirito libero, è visto con malcelato sospetto dalla sinistra a causa delle sue origini nobiliari, cosa questa che lo accompagnerà per tutta la vita e spesso servirà da pretesto per catalogare aprioristicamente i suoi film come frutto di uno spirito reazionario, nostalgico e conservatore. Ma il regista milanese, nei confronti di chi avrà da ridire sulle trame e sulla provenienza sociale dei protagonisti di alcune delle sue sceneggiature, ci terrà sempre a precisare:
[…] è invalsa la credenza, anch’essa singolare, che fare del realismo nel cinema voglia dire approfondire moti, sentimenti e problemi delle classi povere della nostra epoca. Come se fosse proibito a un regista realista indagare criticamente sui moti, sentimenti e problemi delle classi dominanti in una qualsiasi altra epoca, ricavandone una lezione d’attualità, naturalmente, allorché si va a ricercare nel passato i motivi che mossero o cristallizzassero determinati strati sociali.
Film che costituiranno quel corpus fatto di ricercatezza, scavo interiore e drammaticità – in una sintesi sua propria – che faranno di Visconti tra i massimi, se non il massimo, interprete del cinema italiano ed europeo del ‘900.
La doppia chiave di lettura che il regista milanese fornisce, in tutti i suoi film, assegna a questi un posto speciale, dal sapore quasi mistico, esoterico, mai circoscritto nella apparente semplicità della trama in cui si inscrivono le vicende narrate. In Senso (1954), per esempio, in una fosca atmosfera veneziana, ancora sotto il dominio austriaco, va in scena una tragica storia d’amore tra un’aristocratica che sogna e combatte per l’ideale unitario e un giovane tenente dell’esercito austriaco. L’amore unisce ciò che la politica non è in grado di unire, si potrebbe subito pensare; ma ad uno sguardo più profondo, svelatosi solamente nelle scene finali, si consuma la disfatta non tanto di una relazione amorosa, quanto di una classe dominante, universalmente considerata, all’indomani del trionfo della borghesia avida e bracconiera che ha ormai infettato dei suoi istinti mercantilistici anche le decadenti classi dominanti.
E’ proprio questa considerazione, questo atto di lesa maestà verso tutto un mondo, l’unico a cui era degno credere, quel mondo ove la Rivoluzione francese ancora non aveva fatto capolino, è ciò a cui allude il tenente Mahler, quando in preda alla disperazione, dinanzi al suo ormai consunto amore, afferma:
[…] cosa mi importa che i miei compatrioti abbiano vinto oggi una battaglia in un posto chiamato Custoza, quando so che perderanno una guerra e non solo la guerra; e l’Austria tra pochi anni sarà finita e un intero mondo sparirà, quello a cui apparteniamo tu ed io. Il nuovo mondo di cui parla tuo cugino non ha alcun senso per me.
La medesima aspirazione alla ricerca di un senso perduto, del resto, agita la mente e le membra di uno stanco ed esausto uomo come il principe di Salina nel Gattopardo (1964). Egli è costretto a guardare inerme le trasformazioni sociali e politiche della nascente Italia. Stato nuovo che ha come imperativo quello di creare italiani nuovi, come don Calogero Sedara, astro della borghesia in ascesa, dai modi villani e rozzi, che sa parlare solo di affari, di patrimoni e di nuove terre da incamerare, e con cui aristocratici come don Fabrizio devono venire a patti per la potenza economica e politica che questo nuovo ceto esprime. In una scena del film, il principe stesso, dialogando con don Pirrone, espone al meglio cosa avverrà presto:
Ho fatto importanti scoperte politiche. Sapete che succede nel nostro paese? Niente succede, niente. Solo un’inavvertibile sostituzione di ceti. Il ceto medio non vuole distruggerci, ma vuole solo prendere il nostro posto, con le maniere più dolci; mettendoci magari in tasca qualche migliaio di ducati. E poi tutto può restare com’è. Capite Padre? il nostro è il paese degli accomodamenti.
Luchino Visconti lascia al ballo finale la nostalgia nei confronti di un’epoca che sta volgendo al termine. Il valzer e lo sfarzo dei saloni dell’aristocrazia siciliana, dai cui soffitti respirano blasoni illustri, devono cedere il passo ai nuovi affamati, a coloro i quali i cerimoniali, il galateo e il bon ton appaiono come piccinerie da museo, a coloro i quali manca sia il senso dell’onore che della bellezza.
Nel 1971, con Morte a Venezia, il regista milanese consacrerà appositamente al tema della bellezza il suo film, tratto dal romanzo di Thomas Mann. Il compositore Gustav von Aschenbach rappresenta l’artista umanamente appagato, e proprio per questo profondamente irrequieto, che decide di passare un periodo di riposo a Venezia, alla ricerca spasmodica e disperata dell’idealtipo di bellezza. In un’atmosfera pregna di estetismo di un celebre e storico hotel veneziano, sul finire della Belle Epoque, il bello ideale si materializza in un adolescente di una nobile famiglia polacca. Seppur attraverso metodi discutibili, ricalcando la trama di Mann, Visconti mette in scena la capacità della bellezza di rompere qualsiasi schema interiore, di suscitare nell’anima di colui che la contempla energie inestinguibili, arrivando financo alla pazzia pur di coglierla, almeno per un istante.
La volontà di Luchino Visconti va al di là di una certa morbosità che in certe scene sembra adombrare il messaggio di fondo; essa, al contrario, esamina il desiderio umano, scruta nelle segrete della nostra coscienza per mostrare a noi spettatori che il desiderio di bellezza è inscritto nelle nostre più intime corde. Di un anelito religioso si tratta, evidentemente. Sconta, come questo, il rischio dell’esagerazione che manda in cortocircuito l’equilibrio umano. Le scene finali, che vedono il protagonista truccato, in preda ad una folle ricerca di quella bellezza tanto agognata, mostrano nella sua interezza proprio questo aspetto. Tuttavia, la morte di von Aschenbach, con cui si conclude il film, nell’istante in cui protende la mano verso il giovane Tadzio che scompare lungo l’orizzonte del mare, testimonia anche la perenne insoddisfazione di colui che ripone nelle creature non il miraggio, ma l’essenza del bello.
Bellezza e arte: anche qui, all’insegna di queste due coordinate si muove l’ultimo personaggio che Luchino Visconti volle mostrare nel suo film Ludwig (1973): vale a dire Ludovico II, il sovrano bavarese reso celebre per via dei fantasmagorici castelli che fece realizzare nella sua terra. Le fortezze di Neuschwanstein, Linderhof e Herrenchiemsee costituiscono non solo un portato significativo del suo reame, ma soprattutto rivelano lo spirito e la sensibilità di un personaggio storico nel quale il mistero che ha agitato la sua vita, sino ai momenti finali, costituisce il limite oltre cui, ancor oggi, gli stessi storici faticano a sporgersi. La pazzia, in tal modo, diviene la risposta più semplice, sbrigativa con il quale apostrofare un sovrano a cui non piaceva muover guerra, a cui non interessava prendere parte a manovre politiche, ma che aveva come unico interesse quello di far rivivere e riassaporare lo spirito degli eroi narrati nelle saghe nibelungiche e nei poemi cavallereschi e a cui il suo maestro e modello assoluto, Richard Wagner, si era ispirato dando ad esse nuova linfa nelle sue memorabili opere. Visconti, dal canto suo, ha un opinione molto chiara del sovrano bavarese:
Ludwig non era pazzo, non lo era più di quanto lo siamo noi, mentre lo ricordiamo.
(L. Visconti, Ludwig II secondo L.V.)
Non è errato considerare Ludwig come un sovrano che avesse in cuor suo nient’altra ambizione che quella di educare un popolo, il proprio, al gusto della bellezza. Non conto io, sembra dirci, conta ciò che vi ho trasmesso con i miei castelli, con il patrocinio da me destinato ad opere, a teatri, all’arte somma così come essa fu realizzata e trasmessa da Richard Wagner.
Sembrano attagliarsi alla perfezione, e persino suonare profetiche, le parole del filosofo colombiano Nicolas Gomez Davila, le quali riflettono il senso più profondo dell’insegnamento che Luchino Visconti, attraverso la figura di Ludwig, vuole dare:
Nei Paesi borghesi come in terra comunista l’evasione dalla realtà è deplorata in quanto vizio solitario, perversione debilitante e abietta. La società moderna scredita l’evaso per evitare che qualcuno ascolti il resoconto dei suoi viaggi. L’arte o la storia, l’immaginazione dell’uomo o il suo tragico e nobile destino non sono criteri che la mediocrità moderna tolleri. Tale “evasione” è la fugace visione di splendori perduti e la probabilità di un verdetto implacabile sulla società attuale.
Considerare, interrogarsi, lasciarsi cullare dai messaggi che Luchino Visconti dà con i suoi film non costituisce opera vana; al contrario, essi educano alla bellezza riflettendo, non di rado, la sua ancella più stretta: l’etica.
Diego Panetta