‘Némésis Médicale’ di Ivan Illich. “L’eliminazione del dolore, dell’infermità, delle malattie e della morte è un obiettivo nuovo che fino ad ora non aveva mai servito come linea di condotta per la via di una società”

L’umanità è la sola specie vivente i cui membri hanno coscienza di essere fragili, parzialmente infermi, soggetti a dolore e votati alla cessazione radicale, ovvero alla morte. Solo l’uomo può soffrire ed essere malato.

La capacità d’essere cosciente del dolore fa parte di quella adattazione autocritica all’ambiente che chiamiamo la salute dell’uomo. La salute è la sopravvivenza in un ben-essere che sappiamo relativo ed effimero. È la possibilità di vita [viabilité] dell’animale sprovvisto d’istinto, possibilità che deve essere mediata dalla società.

Questa salute suppone la facoltà di assumersi una responsabilità personale di fronte al dolore, all’inferiorità, all’angoscia e infine alla morte. Essa è in rapporto con il significato attivo dell’individuo nel corpo sociale: e in questo senso la “salute” del feto o del lattante somiglia ancora a quella di un coniglio o di un gatto.

La salute dell’uomo ha sempre un tipo di esistenza definita socialmente. In generale, essa s’identifica alla “cultura” di cui tratta l’antropologia: ovvero quel programma di vita che assegna ai membri di un gruppo la capacità di porsi di fronte alla loro fragilità e affrontare, sempre nella provvisorietà, un ambiente circostante composto di cose e di parole più o meno stabili.

“Un dolore non costituisce sofferenza che nel momento in cui è integrato a una cultura.” La sofferenza è dunque, nel lessico di Illich, l’atto di provare dolore associato a una certa cultura, quindi interpretato secondo un certo sistema simbolico: per questo afferma che l’uomo è il solo animale capace di soffrire

Identificando la “cultura” a un programma di salute, occorre evitare le insidie di un’antropologia per cui tutte le culture siano al servizio di una specie umana immutabile, come pure le insidie di quella per cui ogni cultura dia una definizione arbitraria dell’uomo.

Non esiste essere umano che non sia trasformato dalla società nella quale si ritrova – proprio come non esiste una società che si fondi sull’autonomia con cui i suoi membri partecipano al programma che lei stabilisce. La cultura è il “bozzolo”, il “nido” che permette all’essere cosciente di riconciliarsi con la nicchia dell’universo in cui la sua specie si è evoluta e che è stata resa ostile attraverso l’impiego dei suoi strumenti.

Per essere sicuri di comprendere in che senso la cultura è un “nido” necessario alla sopravvivenza, è necessario andare al di là delle sue manifestazioni apparenti e concentrarci sulla sua funzione.

Vediamo allora che la cultura non è un mero complesso di modelli di comportamento concreti come costumi, usi, tradizioni, abitudini… ma che è un insieme di meccanismi, di progetti di regolazione codificati, di piani, regole e istruzioni. In quanto animale affrancato dal determinismo genetico dei suoi istinti, l’uomo ha bisogno, estremo bisogno, di una regolazione che gli sia esteriore, e senza la quale non potrebbe mantenere l’equilibrio vitale di fronte al fallimento.

In altri termini: ogni cultura è una delle forme possibili della vitalità umana, la Gestalt della salute caratteristica di un gruppo. Essa non si aggiunge all’animale cosciente e già effettivamente completo, né tantomeno rimpiazza la sua coscienza. Essa è il modo di produzione dell’animale umano: essa determina il modo in cui la vita deve essere organizzata, nonché le categorie disponibili per dare forma alle emozioni.

Sottomettendosi alla regolazione di un programma mediato sul piano simbolico, l’essere umano porta a compimento il suo destino biologico. Con l’orientarne il comportamento, la cultura determina la salute: ed è solo con l’edificazione di una cultura che l’uomo trova la salute.

Per ogni uomo la cultura è il programma di una lotta che termina nell’agonia. La cultura è il regolamento della lotta con la natura e con il vicino. In questo combattimento l’uomo è spesso solo, ma le armi, le regole del gioco e lo stile di combattimento sono forniti dalla cultura nella quale è stato elevato. Ogni cultura elabora e definisce una maniera particolare d’essere umano e d’essere sano, di gioire, di soffrire e di morire.

Ogni codice sociale è coerente con una costituzione genetica, una storia, una data geografia e la necessità di confrontarsi con le culture limitrofe. Il codice si trasforma in funzione di questi fattori, e con lui si trasforma la “salute”. Ma ad ogni istante il codice serve da matrice all’equilibrio esterno e interno di ogni persona – genera la cornice in cui s’articola l’incontro dell’uomo con la terra e con i suoi vicini, così come il senso che l’uomo dà alla sofferenza, all’infermità e alla morte.

È ruolo essenziale di ogni cultura viva quello di fornire delle chiavi per l’interpretazione di queste tre minacce, le più intime e fondamentali che vi siano. Più questa interpretazione rinforza la vitalità di ogni individuo, più reale la pietà verso l’altro una possibilità reale, più si può parlare di una cultura sana.

Questo potere generatore di salute, inerente ad ogni società tradizionale, è profondamente minacciato dallo sviluppo della medicina contemporanea.

L’istituzione medica è una impresa professionale, ha per matrice l’idea che il ben-essere esiga l’eliminazione del dolore, la correzione di ogni anomalia, la sparizione delle malattie e la lotta contro la morte. Essa rinforza gli aspetti terapeutici di altre istituzioni del sistema industriale e assegna delle funzioni igieniche sussidiarie alla scuola, alla polizia, alla pubblicità e addirittura alla politica. Il mito alienante della civilizzazione medica cosmopolita riesce a imporsi ben al di là dell’ambito in cui l’intervento del medico si manifesta.

L’eliminazione del dolore, dell’infermità, delle malattie e della morte è un obbiettivo nuovo che fino ad ora non aveva mai servito come linea di condotta per la via di una società.

È il rituale medico e il suo mito corrispondente che hanno trasformato dolore, infermità e morte da esperienze essenziali, a cui ognuno deve adattarsi, in una serie di scogli che minacciano il ben-essere e che obbligano ciascuno a ricorrere incessantemente a un consumo di prodotti la cui produzione è monopolizzata dall’istituzione medica.

L’uomo, organismo debole ma munito di una capacità innata di recupero, diviene un meccanismo fragile sottomesso a una continua riparazione. Da qui, la contraddizione che oppone la civilizzazione medica dominante a ogni cultura tradizionale con la quale si trovi confrontata quando irrompe, in nome del progresso, nelle campagne o in paesi cosiddetti sottosviluppati.

 

https://www.lintellettualedissidente.it/pangea/ivan-illich-salute/

Pablo Neruda: poeta drammaticamente romantico

Uno tra i più grandi “poeti-pittori” di tutti i tempi, Pablo Neruda (Parral, 12 luglio 1904 – Santiago del Cile, 23 settembre 1973), nome d’arte di Ricardo Eliezer  Neftalì Reyes Basoalto, poeta, diplomatico e politico cileno, annoverato tra i maggiori esponenti della  letteratura latino-americana contemporanea, tale che Gabriel Garcia Marquez lo definisce: “Il più grande poeta del ventesimo secolo, in qualsiasi lingua”.  

Poeta-pittore”, in quanto Neruda, proprio come un pittore, usa una tavolozza di parole per dipingere il grande quadro della vita.  Per alcuni ci vogliono anni, per altri istantanei momenti ispiratori; qualcuno ha la propria musa, altri fanno della propria stessa esperienza la più grande maestra. Dipingere l’esistenza, non è cosa semplice, ma le parole, come i colori, hanno la capacità di plasmarsi in mille sfumature, e quando il poeta è un eccellente pittore, è la vita stessa che posa per lui, facendosi ritrarre così, con estrema naturalezza, anche nelle viscere più profonde, unendo pensiero e bellezza, raggiungendo il sublime.

Leggere una poesia diviene allora come ammirare un quadro; lasciandoci pervadere da svariate emozioni, cerchiamo la sua chiave di lettura, e invece di una, ne troviamo mille. Mille, perché mille sono le maschere diverse che il poeta ha dovuto indossare, immedesimandosi di volta in volta, respirando l’esistenza, interpretandola e raccontandocela in tutte le sue tonalità.

“Ora, lasciatemi tranquillo”. Questo  è l’incipit di una delle sue meravigliose poesie: Chiedo silenzio. Il poeta che diviene uomo prima che artista, l’uomo che diviene umanità, tramutando il singolo in comunità,  in un climax ascendente dove poeta, uomo e umanità  riflettono  sul proprio ruolo, sul senso che hanno nel grande ingranaggio cosmico, chiedendo silenzio, tranquillità, in un mondo dove il rumore, lo stridore dei pensieri che seguono la logica della sopravvivenza, impediscono di coglierne  l’essenza. È nel silenzio che “tutto torna”, dove “ il tutto “si dispone al proprio posto, conquistando il valore che gli spetta,  rimettendo insieme i pezzi di una natura svalutata e disprezzata, di una vita troppo spesso accartocciata e gettata via, dimenticata.

“..Io chiuderò gli occhi

E voglio solo cinque cose

Cinque radici perfette.

Una è l’amore senza fine.

La seconda è vedere l’autunno.

Non posso vivere senza che le foglie

Volino e tornino alla terra.

La terza è il grave inverno,

la pioggia che ho amato, la carezza

del fuoco nel freddo silvestre.

La quarta cosa è l’estate

rotonda come un’anguria…

Partendo dalla vita, passando per l’amore, arrivando alla morte e ritornando all’ “Essere”, il poeta ci mostra tutta la complessità del vivere. L’amore, quasi sempre presente nelle poesie di Neruda , che diviene , in questo caso,  il motore creatore di una nuova “primavera”,  la spinta per la rinascita, il “riscatto” dell’esistenza, dove ogni istante va vissuto pienamente, uscendo dalla “notte” e andando incontro al “giorno”.

“..La quinta cosa sono i tuoi occhi.

Matilde mia, beneamata,

non voglio dormire senza i tuoi occhi,

non voglio esistere senza che tu mi guardi:

io muto la primavera,

perché tu continui a guardarmi…”

Una luce che rinasce dal buio, il silenzio che non è morte, ma palpita di vita. La bellezza della vita che si comprende solo attraverso la morte:

“..Ma perché chiedo silenzio

non crediate che io muoia:

mi accade tutto il contrario:

accade che sto per vivere…”

Solo quando ci si immerge nella sorgente dell’esistenza, abbeverandosi dei piaceri che essa ci offre, respirando piccoli sprazzi di quotidianità, godendo di essi, nutrendoci del semplice “vivere”, comprendendo che è il presente ciò che conta, unico ed irripetibile, riusciamo a cogliere la bellezza del ciclo cosmico, arriva il momento dove possiamo acquietare il nostro animo e provare come spiega Neruda il senso della felicità. Così racconta nella sua poesia “Ode al giorno felice”:

Questa volta lasciate che sia felice,

non è successo nulla a nessuno,

non sono da nessuna parte,

succede solo che sono felice

fino all’ultimo profondo angolino di cuore.

Camminando, dormendo, scrivendo,

che posso farci, sono felice. ..”

 

“…Oggi lasciate che sia felice, io e basta,

con o senza tutti, essere felice con l’erba

e la sabbia essere felice con l’aria e la terra,

essere felice con te, con la tua bocca, essere felice.

Questi versi, sono come raggi di sole, emersi dal grigiore, spesso dilagante delle sue raccolte poetiche. Ma Neruda non è un poeta statico, la sua poesia attraversa turbini e tempeste, riscopre quiete e pacificazione, recando in sé il segno dell’immenso.

Dovrebbe occuparsi di tutto la poesia, passando dal cuore del poeta”, diceva.

In lui ritroviamo un cruento romanticismo:

Ho un concetto drammatico della vita e romantico; non mi riguarda ciò che non giunge profondamente alla mia sensibilità

Soltanto tenendo conto di questa dialettica, di questo contrasto vita-morte, luci ed ombre,  si può davvero comprendere fino in fondo la sua poetica, dove l’inno alla morte diviene assai vicino all’inno alla vita, dove il poeta, proprio come un filosofo-psicologo rappresenta nella sua opera  un proprio completo e complesso sistema del mondo e delle relazioni umane, con la sola differenza che invece di esporre il proprio sistema in termini di ragionamento, lo configura  mediante la funzione poetica, per mezzo di simboli narrativi. E’ come se ogni poesia costituisse un piccolo modello di architettura del mondo.

Neruda, uno tra i grandi “poeti-profeti”, che, versificando la normalità, la riempie di significati universali. Non a caso i suoi versi sembrano scritti “più che con l’inchiostro, con il sangue” a riprova della passione con la quale coltivava la sua arte. E quando l’arte infiamma, palpita, arde, nemmeno la morte la può spegnere.

Pablo Neruda, semplicemente eterno!

 

L’esperienza bellica in Saba, Montale, Ungaretti

Il ventesimo secolo è ricco di avvenimenti che hanno mutato dalle fondamenta il nostro Paese.
Le guerre, i regimi dittatoriali, hanno scritto la storia più cruenta del Novecento e hanno finito per creare un legame anche con la cultura del tempo, coinvolgendo sotto tutti i punti di vista scrittori come Ungaretti, Montale, Saba. Tre grandi pilastri della letteratura italiana, accomunati dall’esperienza della guerra, dalla cognizione del profondo malessere umano, quella solitudine esistenziale che ognuno di essi esprime attraverso il proprio stile, passando dalle “illuminazioni” ungarettiane, al “male di vivere”, a quella rottura insanabile tra individuo e mondo tipicamente montaliana, alla tenerezza infantile e non per questo meno profonda, che è il “marchio di fabbrica” di Saba.

Tutti e tre gli autori italiani affrontano nei propri versi gli orrori della guerra e ognuno ne mette in luce diversi aspetti, facendo di essa la “propria” guerra, ricercando oltre il dolore e la morte il senso più profondo della vita, attaccandosi attraverso la poesia, ad una speranza, che diviene speranza per l’intera umanità. Questo ci fa comprendere come la poesia e la letteratura in generale, non siano un qualcosa di lontano e obsoleto, ma sono vita che pulsa , passato che torna a vibrare nel presente, presente che scava nella storia e la rilegge, scoprendone ogni volta qualcosa di nuovo; sono le voci, le sensazioni, le emozioni di chi ci ha preceduto e che scopriamo inaspettatamente così vicino a noi; sono ciò che il nostro cuore, la nostra anima cela; è tutto ciò che spesso non siamo capaci di esprimere con le nostre parole. La guerra descritta in questi componimenti non è solo quella fisica, quella combattuta al fronte ma è anche la battaglia che l’individuo affronta quotidianamente con la propria esistenza, è la “molla” che fa scattare l’attaccamento alla vita o al contrario è la prova più evidente di quella profonda insofferenza insita nell’uomo, la dimostrazione di quella scissione insanabile tra individuo e mondo, l’ espressione di quella debolezza, incompiutezza, fragilità umana. Leggiamo in una poesia ungarettiana:
 

“… Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo.”

Il titolo del componimento è “ Sono una creatura” e appartiene alla raccolta “ L’ Allegria”. La poetica di Ungaretti è interamente pervasa dal ricordo dell’esperienza del fronte, da quella commemorazione così ermetica e per questo ancor più tagliente dei caduti di guerra, da quei flashback che sembrano squarciare la carta su cui si posano parole concise e prive di punteggiatura , che intrecciano passato e presente, dolore e speranza, vita e morte.

Eugenio Montale

Non poteva la poesia ungarettiana non risentire del bagaglio di sensazioni, ricordi, tomenti, di cui il poeta si fa carico partendo volontario per la prima guerra mondiale, legando la sua vita alla politica del tempo, partecipando con fervore non solo allo scenario culturale, ma anche sociale dei suoi anni. La pietra di cui leggiamo nel componimento è infatti quella del Carso, celebre per le sanguinose battaglie che ospitò durante la guerra, la cui durezza e asprezza viene paragonata al pianto del “soldato” Ungaretti, un pianto che non è più solo suo, ma di tutti coloro che hanno vissuto l’esperienza della guerra; un pianto che si pietrifica nel petto, rendendoli incapaci di esprimere emozioni, dubbiosi sull’essere ancora delle “creature”.  “La morte si sconta vivendo”. Un pensiero profondo, abissale, che ci fa comprendere come il confine tra vita e morte sia labile, come l’una si mescoli inevitabilmente con l’altra, come non c’è vita senza morte né morte senza vita, poiché colui che sopravvive alla morte non può non pensare a chi invece ne soccombe. È un tormento che si “sconta vivendo”, e la vita allora rende schiavi della morte, creando un intreccio esistenziale delicato e complesso. Ne “Il sogno del prigioniero”, poesia di Montale, contenuta nella sezione  “Conclusioni provvisorie” de “La bufera ed altro”, con uno stile completamente diverso da quello ungarettiano, ma comunque complesso, il poeta attraverso l’utilizzo del “correlativo oggettivo” descrive, quasi come se stesse disegnando, una condizione di prigionia e di oppressione che si estende a tutta l’umanità, che vive intrappolata nelle trame e negli orrori della società moderna.

“….e i colpi si ripetono ed i passi
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L’attesa è lunga,
il mio sogno di te non è finito”.

 

Umberto Saba

Anche in questo componimento emerge l’intreccio tra vita e morte, che tocca però un campo ancor più complesso, quell’intima esigenza di moralità, priva di qualunque intenzione moralistica, tipica della poetica di Montale ; una moralità che serpeggia nei suoi versi, ma che è sfuggevole, evanescente, non si svela mai del tutto. “Il prigioniero”, qui metafora dell’umanità ,può divenire vittima o carnefice, in nome di un senso morale dimenticato o al contrario esaltato. Ma lo “ignora”, così come noi lettori per volontà del poeta ignoriamo quale sia la scelta che il prigioniero, dunque l’umanità, dovrà compiere. Il “sogno” citato all’ultimo verso è invece metafora di quella speranza, di quel ruolo salvifico che il poeta conferisce alla poesia, rappresentata simbolicamente dall’immagine di una donna-angelo; una poesia che è l’ultimo spiraglio di positività in un mondo che per Montale è pervaso dal “male di vivere”.
Anche nella poesia di Saba, seppure in quantità minore, si riflette l’influsso della guerra e di tutto ciò che ha rappresentato, come le persecuzioni razziali di cui il poeta è stato vittima. Ma Saba, a differenza di Ungaretti e di Montale , riesce a descrivere anche la guerra con una delicatezza e una semplicità espressiva che non ha eguali. In “Marcia notturna”, contenuta nel  “Canzoniere”, si descrive la marcia dei soldati lungo il mare e nei versi emerge un ritmo lento, pacato, che accompagna un’evanescente dolcezza di ricordi, ricordi d’infanzia, di quando il poeta non conosceva la guerra, ma la inventava, giocandoci:

“….così che intorno io mi ritrovi il bello
lasciato quando qui venni a marciare,
e i sogni dell’infanzia a ritrovare”.

Un’immagine della guerra nuova, una chiave di lettura diversa e singolare, pienamente accordata allo stile del poeta, che forgia il suo dolore, lo trasforma, lo plasma attraverso la poesia che per lui è il suo scudo, la sua corazza, il mondo del conforto e della speranza.
Tre uomini, tre anime profonde e complesse e una poesia che diviene passato, poi presente, infine eterno.

 

Storia di una ladra di libri, di Markus Zusak

Markus Zusak

“Ci sono crimini peggiori del bruciare libri. Uno di questi è non leggerli.” Cit. Josif Brodskij

Nella Germania nazista del 1939  venivano commessi entrambi i crimini. I nazisti, coloro che decidevano chi dovesse vivere, chi dovesse morire, avevano annullato in ogni uomo quella voglia di aprire gli occhi al mattino, quel desiderio di continuare a vivere.

Ma in quel luogo che in qualche modo celebra la morte, accanto alla tomba del fratello più piccolo, Liesel Meminger trova ciò che rende ancora la vita degna di essere vissuta. Un segreto da custodire, un oggetto da nascondere, pagine dietro le quali trovare quella forza portata via perchè l’unica colpa era quella di non appartenere alla “razza ariana”.

Eccolo lì. Un libricino forse abbandonato forse dimenticato, un porto sicuro dove la speranza vive ancora. Liesel lo raccoglie, lo ruba e lo porta con sè. Eccola lì prova tangibile, tra le sue mani gelate più che dal freddo e dalla nave, da una condizione forse ancora oggi incomprensibile. La prova che le parole, un libro, possono risvegliare l’anima, accarezzarla, farla vibrare.

Datemi un libro e sopporterò il mondo.”Cit. Giovanni Soriano, Finché c’è vita non c’è speranza, 2010

E’ così che ha inizio la storia di un amore senza limiti ne confini. La storia d’amore e passione che lega la nostra protagonista alle parole, magiche, potenti, forti, che bruciano e sconvolgono l’anima. In quel mondo dove tutto appare senza senso, dove chi comanda non lascia spazio per comprendere e capire, Leisel sente di avere ancora qualcosa a cui aggrapparsi.

Grazie al padre adottivo che le insegna a leggere, la nostra coraggiosa piccola donna, affronta i roghi nazisti per salvare ciò che resta di vero, puro. Ciò che mai potrà essere cancellato, nemmeno da un fuoco tanto stupido quanto potente. Proprio come  solo la mente umana può essere. Qualcuno ha detto che il più crudele di tutti i predatori è proprio l’uomo. Come potremmo mai negarlo dopo esserci immersi in queste pagine che rappresentano pura poesia, puro amore.

La nostra eroina inizia così il suo cammino verso la salvezza. Presto si ritroverà a rubare i libri dalla biblioteca della moglie del sindaco e a intervenire ogni volta ce ne sia uno in pericolo.

Leggendo queste pagine mi sono chiesta se potrei mai vivere così. Guardando il mio bene più prezioso bruciare, ardere con la sola colpa di…portarmi ad interrogarmi sulla vita, sugli uomini, sul mondo. Poi arriva quella domanda. Avrei la forza di combattere come la dolce Leisel? Forse no. Forse…

Ma ogni istante diventa sempre più difficile da affrontare. Ogni minuto che passa, la paura del sopraggiungere di una morte quasi certa avvolge l’animo del lettore. La vita di Leisel diventa sempre più difficile, ma accanto a lei restano quei compagni di viaggio, quegli angeli custodi. E quando la sua famiglia “fittizia” nasconde un ebreo in cantina, il suo mondo diventa sempre più piccolo e, allo stesso tempo, più grande, curioso, forte, pronto ad esplorare, a capire. Ma cosa c’è da capire in un mondo dove chi decide per la vita e la morte di ogni essere vivente è un “uomo” convinto di appartenere ad una “razza” superiore, l’unica che debba essere salvata. La sola che debba portare alla procreazione della specie umana. La razza ariana.

Le parole che scorrono in queste pagine sono una storia d’amore incondizionata verso le parole stesse. Pagine e pagine di puro amore per la salvezza, la forza, la passione che solo i libri possono scaturire. La bambina accumula libri, accumula parole, accumula ricchezza contro l’ignoranza umana. Contro la sua stupidità. Ma, si sa, l’uomo più è stupido più è pericoloso.

Lo scrittore australiano Markus Zusak, già pluripremiato autore di libri per ragazzi, con questo romanzo rivela un talento promettente nella narrativa per adulti.

La rivisitazione cinematografica ha lasciato perplessi molti critici. Ha emozionato e ha lasciato domande irrisolte. Come accade tante volte, c’è chi ha amato l’opera e chi l’ha ritenuta appena sopra la sufficienza. Ma a questo punto credo che sia una sola la realtà da poter affermare. Le parole scritte, le pagine di un libro, entrano nell’anima di ognuno noi come solo pochi film sono e saranno in grado di fare negli anni avvenire.

Storia di una ladra di libri è una vibrante e avvincente storia d’amore che ha per protagonista la letteratura.

“La biblioteca che probabilmente ogni bibliofilo e, in genere, ogni persona colta hanno sognato almeno una volta nella vita di visitare, è la biblioteca virtuale dei libri perduti, quella biblioteca, cioè, fatta con i testi che sono andati distrutti a causa dell’incuria o della stoltezza umana, e di cui ci è rimasto soltanto un titolo, qualche frammento o niente del tutto.”

Giovanni Soriano, Malomondo, 2013

Di Gabriella Monaco

Thomas Mann: una sensibilità incompresa come quella del suo ‘Tonio Kroeger’

Thomas Mann (Lubecca, 6 giugno 1875-Zurigo,12 agosto 1955), scrittore tedesco, nasce in quella Lubecca una volta appartenente alla cosiddetta “Lega Anseatica”. E’ considerato non solo uno degli autori di maggior risonanza europea del novecento, ma anche mondiale; basti, per esempio leggere alcune delle sue opere più celebri da lui scritte come “La montagna incantata” , “Tonio Kroger”, “ I Buddenbrook”, “Morte a Venezia”. Personalità particolare, con mente sognatrice, fantastica e introspettiva.

Durante i suoi studi (di indirizzo commerciale) compone le sue prime opere, mostrando talento e qualità discrete. E’ durante il periodo universitario a Monaco che conosce importanti figuri intellettuali di vari caffè. Ed è proprio qui che tiene un’importante conferenza su Wagner, che ammirava molto citando alcuni legami tra il Nazismo e l’arte. Soggiorna, in seguito anche in Svizzera. Tra i riconoscimenti più importanti ottenuti dallo scrittore, ovviamente vi è il premio Nobel per la letteratura nel 1929. Nel 1952 è in Svizzera; tuttavia in Germania non vi fece ritorno, anche se venne proposto come Presidente della Repubblica. Muore di arteriosclerosi nei pressi di Zurigo il 1955

Parlando di alcune tematiche “classiche” e sempre presenti in Mann certamente c’è in agguato la morte, il regno oscuro e cupo, ma anche sofferente. Sì, sofferente perché? Proprio il suo Paese di nascita, la Germania. E qui vediamo, senz’ombra di dubbio, un certo disagio dell’autore nel guardarsi intorno i crimini commessi dal suo crudele popolo. Crudele, forse, a dir poco. Ma non siamo in sede di giudicare come si è comportato il popolo teutonico durante la Seconda Guerra Mondiale. Qui, tuttavia, basta leggere un qualsiasi libro di storia.

Ma il suo atteggiamento è molto ambiguo, in quanto elogia, altresì, l’amore per il suo popolo, soprattutto la Germania culturale, senza dimenticare, come detto sopra, le violenze che s’accompagnavano insieme ai grandi autori. Dove si sente una certa qual sofferenza è nella sua opera precedentemente citata “Tonio Kroger”. Cos’ha di speciale Tonio? La risposta si trova dopo aver letto il romanzo e, dove ci si chiede: chi è, in realtà, il protagonistà? E’ l’autore stesso!

Infatti, qui, Tonio, ragazzo molto giovane, affronta il difficile rapporto sociale con gli altri individui, in cui si egli accusa si non riuscire a godere di una vita pura e semplice come “tutti” gli altri, vivendo di giorno in giorno senza preoccupazioni, a differenza di quelli più dotati e dotati di una sensibilità artistica, che seppur consapevoli (o quasi) del mondo che li circonda, tendono a chiudersi a riccio, isolandosi, diciamolo pure, perfino da stessi. E qui sta vi risiede la situazione di Tonio, in una ricerca che è quella di se stesso, come d’altronde volle fare l’autore, cercare il suo vero essere, chi è (o cosa) e non è.
Il protagonista ha un’estrema sensibilità, come l’autore; sensibilità artistica, come l’autore; incompreso da tutti, come ancora l’autore.

E a questo, vien da chiedere: e dunque? Il dunque è qui: Thomas Mann sta a Tonio Kroger, come questi sta all’autore.
Un altro “dunque”? Dunque il romanzo potrebbe, a questo punto, chiamarsi benissimo “Thomas Mann” anziché “Tonio Kroger”, sicché, tanto, è la stessa cosa.

Ricorrente nelle sue opere anche il tema dell’omosessualità , della creatività faticosa ma positiva e fruttuosa per la società, della dicotomia innocenza-giovinezza/corruzione-vecchiaia,(incarnati rispettivamente da Tadzio e l’autore ascetico Gustav Von Aschenbach, innamorato di lui) specialmente in “La morte a Venezia” (1912) resa ancora più celebre dal film omonimo di Luchino Visconti.

Tra il 1933 e il 1942, Mann pubblica la tetralogia “Giuseppe e i suoi fratelli”, tratta dalla Genesi, lavoro di grande fattura. Con “Lotte a Weimar” (1939), riprende ispirazione da “I dolori del giovane Werther” di Goethe. Con il “Doctor Faustus”,(1947) invece, racconta la storia del compositore Adrian Leverkühn e della corruzione della cultura tedesca negli anni precedenti alla Seconda Guerra Mondiale, mentre il suo ultimo grande romanzo, “Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull”,dove il protagonista,un giovane fascinoso, riesce a far credere di appartenere ad un grado sociale superiore, è rimasto incompiuto per la morte del grande scrittore, uno dei più influenti nel panorama culturale del Novecento.

Exit mobile version