“Forse un mattino andando” di Montale: l’antinomia della percezione

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,

arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:

il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro

di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come su uno schermo, s’accamperanno di gitto

alberi, case, colli per l’inganno consueto.

Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto

tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.”

 

Montale in “Forse un mattino andando”, immagina di camminare al mattino in un’aria cristallina, rarefatta. Tutto ad un tratto immagina di volgersi e vedere il nulla. Lo scrittore Italo Calvino, in occasione della celebrazione degli ottanta anni di Montale, ha fornito una spiegazione originale, a tratti alquanto suggestiva di questa poesia.

Per Calvino il cardine della lirica è l’espressione “Il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me”. Calvino scrive che la mancanza di un occhio dietro la nuca è sempre stato un limite percettivo per l’uomo. Sostiene però che una delle invenzioni più strabilianti della tecnologia moderna sia lo specchietto retrovisore delle automobili perché permette di vedere il campo posteriore, prima di allora invisibile.

Eppure nonostante queste argomentazioni scrive che il poeta anche con uno specchietto retrovisore vedrebbe alle sue spalle “una voragine vuota senza limiti”. Calvino cita un animaletto mitologico nella zoologia fantastica di Borges: l’hyde-behind. Nei boschi i taglialegna per quanto possono voltarsi velocemente non potranno mai vedere davvero l’hyde-behind. Secondo Calvino nella poesia il protagonista riuscirebbe a scorgere l’hyde-behind nella sua vera essenza: ovvero il nulla.

Secondo l’interpretazione di Calvino il tema principale della lirica sarebbe percettivo-conoscitivo. Intendiamoci: se fosse unicamente un problema percettivo si tratterebbe di una zona morta della percezione, di quella che gli esperti del settore chiamano macchia cieca. Il tema principale di “Forse un mattino andando” secondo Calvino è come possa esistere una porzione di reale inconoscibile o almeno sconosciuta ai propri occhi ed infine alla propria coscienza. “

L’uomo che si volta “e vede il nulla alle sue spalle, riesce forse a girarsi più rapidamente della messa a fuoco del suo campo visivo, che per questo motivo in quel determinato frangente non è ancora abbastanza nitido ed esteso da fornire immagini dell’ambiente circostante. Percepisce il nulla o meglio “il nulla che c’è”.

Quel vuoto sarebbe quindi la risultante di un suo corto circuito mentale, di cui è cosciente, così come è consapevole qualsiasi persona, quando chiude gli occhi abbacinati dal sole, che i fosfeni sono barlumi causati da una reazione chimica delle pupille, quindi da un atto individuale, soggettivo. Secondo l’interpretazione di Calvino l’uomo che si volta non lascia il tempo alle immagini di accamparsi sulla superficie bidimensionale delle retine, oppure il suo voltarsi repentino è più veloce dell’impulso nervoso (ma quando mai?), che trasporta l’input sensoriale tramite il nervo ottico alla corteccia visiva.

Sia l’interpretazione di Calvino della poesia porta a concludere che “l’uomo che si volta” ha scoperto un’antinomia della percezione, una fallacia ottica, che arresta in quel momento il desiderio di conoscere e di esperire, infatti si ritrae e si ripiega su sé stesso, nel suo segreto. Tutto questo è basato su un presupposto: ogni uomo nel corso della sua vita servendosi di inferenze visive riesce a creare delle invarianti percettive, ed insieme a queste un mondo fenomenologico completo e coerente.

La certezza soggettiva della coerenza di questo mondo va in frantumi nella poesia di Montale. Ma Calvino non ne fa solo una questione percettiva, ma anche conoscitiva. Infatti scrive che quel qualcosa che avviene non riguarda il nervo ottico, bensì il cervello umano. La vera tematica di questo “osso di seppia” e probabilmente sia esistenziale che metafisica, non percettivo-conoscitiva.

“Il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me” riveste la stessa connotazione esistenziale di altre espressioni montaliane come “la maglia rotta nella rete” e “l’anello che non tiene”.  Montale in questa poesia rifiuta “l’inganno consueto” della molteplicità fenomenica. Rifiuta qualsiasi rappresentazione gnoseologica del mondo.

Il critico Contini scrive a proposito della condizione esistenziale di Montale: “la differenza costitutitva fra Montale e i suoi coetanei sta in ciò che questi sono in pace con la realtà, mentre Montale non ha certezza del reale”.

Jacomuzzi invece scrive: “Mentre nell’ambito e nella tradizione della poesia pura la condizione metafisica è essenzialmente un dato acquisito, una ipotesi non verificata, in Montale essa si atteggia come problema, come un dato da interrogare, un significato da cogliere”.

Il senso di questa poesia di Montale per me è la sua disillusione, il suo disincanto nei confronti della realtà fenomenica. Montale non è certo dell’esistenza delle cose, fino a quando non coglie uno slancio vitale nelle sue muse. La sola immanenza non gli è affatto sufficiente. Ecco perché crede ciecamente -come dichiarò in una sua intervista- che “immanenza e trascendenza non sono separabili”.

Questo incontro tra immanenza e trascendenza riesce ad esperirlo solo in rari momenti, quando riesce a trasfigurare una figura femminile, a vedere nella donna la personificazione di una cifra sovrasensibile. Ma se questa agnizione da un lato lo gratifica, dall’altro si accorge di non possedere quello slancio vitale della figura femminile e di appartenere alla “razza idiota degli eletti” (“Ti guardiamo noi della razza/ di chi rimane a terra”).

In mancanza dell’idealizzazione della donna, di questa epifania fulminea Montale vedrebbe “il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me”. A controprova di questa  supposizione esiste una poesia di Satura II, intitolata “Gli uomini che si voltano” in cui è scritto: “Non apparirai più dal portello/ dall’aliscafo o da fondali d’alghe,/ sommozzatrice di fangose rapide/ per dare un senso al nulla. Scenderai/ sulle scale automatiche dei templi di Mercurio/ tra cadaveri in maschera,/ tu la sola vivente,/ e non ti chiederai se fu inganno”. Nel seguito di questa lirica Montale scrive: “Sono colui/ che ha veduto un istante e tanto basta….”.

Montale quindi non cerca in modo categorico la descrizione della complessità del mondo. Non cerca di creare un modello in miniatura dello scibile umano. Non ha mai inteso la Letteratura come fonte di Conoscenza razionale. Nel poeta ha sempre prevalso lo scetticismo nei confronti di qualsivoglia raffigurazione della realtà.

Da questo punto di vista ha sempre abbandonato ogni minima speranza di certezza ed ha sempre navigato nel mare aperto del dubbio. Verrebbe ora da chiedersi: come mai Montale non ha mai idealizzato la Mosca, ovvero sua moglie? Probabilmente perché ricercare in lei l’anello di congiunzione tra umano e divino, avrebbe comportato considerarla una sorta di divinità.

Montale scrive sulla Mosca, solo al momento della sua scomparsa. Per dirla alla Klein scrive per rielaborare il lutto. Secondo la Klein infatti ogni artista crea, perché avverte il senso d’angoscia di una separazione (reale o fittizia), vissuta come perdita di sé e dell’altra persona. Nel discorso amoroso Barthes ci ricorda che “c’è sempre una persona a cui ci si rivolge, anche se questa persona è solo allo stato di fantasma”.

Gli Xenia e i Mottetti di Montale possono allora essere considerati una sorta di surrogato dell’”oggetto transizionale” -per usare il termine di Winnicott- perché permettono al poeta di riappropriarsi di una immagine a lui cara, pur vivendo al contempo in modo cosciente e realistico la perdita terrena della mosca.

Petrarca e Dante hanno angelicato Laura e Beatrice. I loro amori non corrisposti hanno fatto soffrire loro le pene dell’inferno. Ma nonostante ciò nei brevi componimenti dedicati alla consorte scomparsa non esiste traccia di idealizzazione della donna e neanche di compiacimento del dolore.

Le muse di Montale non sono donne irraggiungibili e neanche la propria donna. Le sue muse sono amiche (Arletta, Clizia) e diventano muse solo in determinati e rari istanti. E senza queste muse “intermittenti”, da cui è sentimentalmente distaccato, Montale vedrebbe il nulla alle sue spalle ed il vuoto dietro di sé. Sono queste presenze raramente angelicate, che lo salvano dal nichilismo e dalla negazione del reale.

 

 

Davide Morelli

 

 

Elegia e ironia nella poetica di Montale. “Ho sceso dandoti il braccio….”

Ho sceso, dandoti il braccio… è una delle più note dell’ultima stagione montaliana, in cui il poeta ligure ricorda la sua vita coniugale, allegoricamente simbolizzata dalla discesa delle scale e dal viaggio dell’esistenza, che, sebbene sia stato lungo, al poeta appare breve. La poesia è in versi liberi.

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tutt’ora, ne più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.

 

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.

 Ho sceso dandoti il braccio… composta nel 1967, è la quinta di Xenia II, dal nome latino che fa riferimento ai “doni votivi” che si facevano a un ospite nel momento in cui lasciava l’ abitazione dove era stato accolto,  si tratta precisamente di una sezione di Satura, una raccolta di poesie uscita nel 1971 in cui vi è un vero e proprio mutamento radicale nello stile e nelle intenzioni di questo straordinario autore rispetto alle sue opere precedenti.

La morte della moglie, Drusilla Tanzi, soprannominata scherzosamente Mosca per un problema alla vista , avvenuta nel 1963, indusse Montale a un mutamento prettamente stilistico ma non solo, ovvero sia iniziò a sperimentare uno stile più ironico e una scrittura di registro maggiormente colloquiale come dimostra Ho sceso dandoti il braccio.., basti pensare allo stesso termine Satura e dunque al carattere miscellaneo,  dal punto di vista formale e contenutistico, dei componimenti.

Nella poesia di Montale inizia dunque a farsi spazio l’ironia, a tratti amara a tratti più propriamente scherzosa ma sui generis che contribuisce a modificare i tratti della sua scrittura e delle sue intenzioni con un mutamento di tono e di registro e dunque non vi è più un linguaggio formalmente alto,  aulico, sublime, classicheggiante ma di respiro più colloquiale, ironico quasi una presa di distacco consapevole dal mondo che lo circonda.

Quando scrivevo i primi libri non sapevo che avrei raggiunto gli ottant’anni.

Passati gli anni, guardandovi dentro ho scoperto che si poteva fare anche altro, l’opposto anche […] ho voluto suonare il pianoforte in un’altra maniera, più discreta, più silenziosa.

Per quanto riguarda la struttura delle poesie vi sono quattro sezioni: Xenia I e II e Satura I e II, le prime due raccolte sono le elegie dedicate alla moglie scomparsa le seguenti invece, sempre per il carattere miscellaneo che caratterizza questa raccolta dal punto di vista contenutistico e formale di cui si è parlato precedentemente, contengono testi che raccontano la sua visione rinnovata della vita e di ciò che lo circonda, con un filtro ironico e di distacco, quasi una raggiunta consapevolezza e una lucida riflessione che ha come scopo quello di prendere atto della realtà del mondo contemporaneo.

In merito a Satura si è parlato spesse volte di contrapposizione e di disarmonia tra elegia e ironia, come se l’elegia, in origine caratterizzata dal verso del lamento ovvero sia il distico elegiaco, l’alternanza di esametri e pentametri che caratterizzavano e davano vita a un canto di dolore non potesse essere accostata a una scrittura ironica e di registro inferiore ma è sufficiente soffermarsi sulla poesia di Montale per comprendere l’erroneità di questa considerazione; è disarmante la sua potenza comunicativa che, pur mutando registro, intenzioni, forma e contesto da vita a delle immagini che nascono e compaiono improvvisamente davanti allo sguardo dei lettori, tale è la straordinarietà di questo autore.

Il talento e la sensibilità di Montale consentono che si adagi sul testo una patina di emozione che permette a sua volta al linguaggio scelto, pur non essendo aulico e classicheggiante, di esprimere perfettamente, grazie alla sua potenza comunicativa, il significato e l’intento delle sue parole scritte per la moglie scomparsa con una semplicità ma allo stesso tempo efficacia disarmante.

“Mosca nei sottoboschi”, la testimonianza storica e umana di Annette Carayon

Moscou dans les sous bois, “Mosca nei sottoboschi”, opera del 2007 che potrebbe apparentemente sembrare un reportage o una cronaca dei fatti, è in realtà solo una testimonianza delle osservazioni fatte da Annette Carayon, insegnante di linguistica presso l’Università di Mosca e al servizio del ministero degli Affari esteri, sulla Russia degli anni ottanta e su quella dei giorni nostri, con al centro un enorme salto generazionale e con un territorio completamente stravolto dalla storia che noi tutti conosciamo, fatta di accadimenti che hanno lasciato alcuni aspetti immutati ed altri che invece si presentano come delle novità. Annette li registra tutti, con l’occhio lucido ed attento di chi vuole fornirci gli strumenti per arrivare ad una lettura nostra su quello che è il ”mondo Russia”, scevra da ogni influenza o pregiudizio di sorta.

Annette Carayon annota nel suo testo, il racconto degli incontri quotidiani fatti nei luoghi dove ha insegnato durante gli anni più critici per l’Unione Sovietica, ovvero quelli che hanno visto la caduta del regime comunista, la fine o l’inizio di un’epoca. E ci ritorna con l’imparzialità di chi si limita a raccontare, senza l’intenzione di imporre il proprio punto di vista, una città fatta non da moscoviti ma solo da alcuni moscoviti. La Mosca descritta da Annette è infatti quella di tutte le persone che, di volta in volta, si propongono sul suo cammino: professori e colleghi di lavoro, amici, vicini, passanti e sconosciuti ma ognuno con il proprio nome e la propria versione dei fatti; l’umanità intera nella sua varietà e complessità, sovietica, s’intende.

Umanità che si muove in un periodo storico di stagnazione, in cui gli intellettuali amavano riunirsi per ”riorganizzare il mondo”, in cui la speranza era collettiva e l’anima conservava costantemente il desiderio di rinascita, quello che sarà alla base delle critiche più severe ma anche più belle ed interessanti su un Paese che sembra così lontano da noi. Un Paese che ha bisogno di più verità, non veridicità,  perché non sempre la storia racconta il vero; uno stato sicuramente immenso, ma costituito da microcosmi che meritano di essere conosciuti ed esplorati, in questo caso, dalla nostra scrittrice, attraverso un mondo non ancora conosciuto al grande pubblico, al di là di ogni ombra, nei suoi meravigliosi sotto-boschi.

Il senso di meraviglia che pervade il testo è una condizione costante, in quanto, pur conoscendo bene la città e chi la popola, Annette scopre ogni giorno qualcosa che rovescia le certezze acquisite e fornisce nuove chiavi di lettura su ciò che è diventata la società russa, stremata, in balia degli eventi, facilmente influenzabile da paesi come la Cina ed impotente difronte a delle situazioni ingovernabili. Eppure la forza dei russi risiede proprio in questo: nell’accettare la trasformazione accogliendo un’idea di democrazia che sembra piuttosto assurda agli occhi di noi occidentali, preservati dalla catastrofe ed ignari sul ”dopo”.

Tuttavia, la Russia, grazie al suo forte senso patriottico, riesce a sopravvivere e a tenere la testa alta, ogni azione è motivata ed ha un senso che sottintende la volontà di voler resistere, quando tutto attorno sembra crollare. Ogni capitolo di questo diario di Annette, si presenta come inserito nel meccanismo delle scatole cinesi, o forse dovremmo dire più propriamente, come una matrioska nella matrioska? Simulacro di un identità che, faticando ad essere celebrata, si autocelebra e definisce anche i suoi limiti? Le storie che s’intersecano si riferiscono ad episodi molto differenti ma uniti dal collante della memoria; chi ha vissuto la guerra da piccolo comprende le attuali guerre giornaliere non meno di chi, ormai invecchiato, ne ha preso parte attiva, poi c’è chi lavorava ed ora ha perso tutto, continua a farlo, continua a lavorare.

L’uomo di Russia non ha timore o paura, si schiera e si difende. Si tratta più o meno dello stesso meccanismo delle scatole cinesi che incastra eventi distanziati anni luce nel tempo, implicandoli. Anche Mosca, del resto, non può prescindere dalla sua origine, dalla sua storia e dal suo passato, eternamente vincolati. E non è collocabile in nessun luogo che non sia quello dell’universo sovietico, anche questo, eterno punto interrogativo.

Lo stoicismo etico di Eugenio Montale

<<Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni>>. Queste le parole che delineano la motivazione del Premio Nobel per la Letteratura, consegnato nel 1975 ad Eugenio Montale, poeta, giornalista, traduttore, critico musicale e scrittore, tra le colonne portanti del Novecento.

La concezione poetica di Montale appare disillusa, critica e realistica. Non a caso la sua raccolta principale è intitolata Ossi di seppia, ad esprimere la condizione di una vita “strozzata”, che non riesce a conoscere l’esistenza in senso pieno.

Montale non ha da offrire “illuminazioni” ungarettiane; non è portatore di verità assolute e la sua poesia non si prefigge lo scopo di garantire all’uomo la via unica, sicura ed infallibile verso la conoscenza di sé e del mondo. La poesia, per l’autore, può essere solo uno strumento di indagine e testimonianza, quello che rappresenta il tentativo più alto e dignitoso, di cui l’uomo può far sfoggio per affermare, al di là di quella che è la condizione dilaniante dell’esistenza (questa, una concezione influenzata anche dal terribile divenire storico del  ventesimo secolo), la comunicazione con altri esseri umani, la presa di coscienza della propria fragilità, incompiutezza, debolezza; è questa la consapevolezza, secondo Montale, che rende “ degno” l’uomo. L’essere umano, spogliato, messo a nudo da un’esistenza amara e soffocante, divenuto “osso”, si riscopre ancora uomo, ancora vita, nonostante tutto.

Montale dunque esalta lo stoicismo etico, la compostezza di chi, al di là dei dubbi, delle incertezze, degli ostacoli, delle nefandezze di cui è pregna l’esistenza, riesce comunque a compiere il proprio dovere, a conservare quel barlume di dignità, portando con una rassegnazione che sa più di coraggio, quel malessere del vivere, che è il “manifesto sociale” del Novecento.

Questa “lucidità” con la quale Montale ci racconta il mondo, in ambito poetico è traslata in un simbolismo denominato “correlativo oggettivo”, che dà vita ad una poesia profonda, piena, ricca, specchio dell’esistenza, dove l’inconoscibile dell’esistenza sembra palesarsi in superficie, ma ad ogni verso, lo riscopriamo sempre lì, in profondità, mai fino in fondo scopribile, conoscibile. Eppure, in quest’analisi attenta ed obiettiva della vita, anche Montale, in alcune liriche, si “mette a nudo”, permettendoci di penetrare quell’involucro di “critico”, per scorgere più a fondo il meraviglioso poeta e il suo animo sensibile. Ne è un esempio lampante la poesia Ho sceso, dandoti il braccio,dedicata alla moglie, che fa parte della raccolta Satura del 1971, dove il poeta ci parla d’amore, dell’amore coniugale, quello forte, profondo, che si costruisce tra le macerie, le difficoltà, le ostilità di una vita a volte, fin troppo ostica. Ma il romanticismo del Montale è sempre coerente con i principi della sua poetica. Egli infatti,  non ha bisogno di proiettare speranze, illusioni, mondi magici ed incantati per descrivere il legame che tiene unito i cuori dei due innamorati. Non ci parla di un amore che dissolve le difficoltà, di un mondo, quello dei due amanti, che si estranea dalla realtà.

Montale ci parla di un amore che si sublima nella realtà, che si suggella nelle difficoltà; è sempre l’esistenza, reale, schietta, lucida, cruda, il punto di riferimento costante della sua opera. Le scale infatti sono metafora della vita. L’atto di scenderle, metafora della fatica, della stanchezza di affrontarla ma anche della volontà, della dignità della quale si arma l’uomo, passo dopo passo, caricandosi sulle spalle quel malessere del vivere, che in questo caso, condiviso, diviene meno pesante.

E Mosca, sua moglie, così denominata per la sua miopia, diviene l’emblema della sensibilità, di colei che fa del suo punto debole, un proprio punto di forza. Non vede con gli occhi, ma con il cuore e diviene così un modello per il marito, perché riesce a leggere l’esistenza con quella profondità d’animo, di cui pochi sono dotati, superando il limite umano del non saper cogliere l’essenza dell’esistenza.

Montale, vivendo il lutto della perdita della moglie, si rende conto che quel braccio che le porgeva nella traversata della vita, era soltanto d’aiuto, da sostegno, ma il vero pilastro di quella traviata dell’esistenza, era la donna, era Mosca. E riscopre così che la miopia più invalidante è quella del cuore. Mosca aveva visto, aveva capito: l’essenza delle cose è oltre la realtà stessa, non si scorge, non si comprende, ma è lì, c’è ed esiste, e questa consapevolezza basta a far acquisire una visione della vita più piena, più profonda, più veritiera.

L’esempio della moglie rafforza il pensiero portante della poetica e di quello che poi diviene lo “stile di vita” dello stesso Montale: la realtà non è quella che si vede con gli occhi e si percepisce con i sensi, fatta di impegni e casualità, insidie e delusioni, ma è qualcosa che va al di là delle apparenze e resta misterioso per l’uomo.

Dunque, il ruolo del poeta non è quello del profeta, bensì quello di testimone, e non potrebbe essere altrimenti. Montale, infatti, rifiuta l’idea che al mondo   vi siano delle leggi certe, immutabili, di cui si possa far portatore. Il poeta non può e non deve essere annunciatore di “fedi sicure”. Egli infatti afferma:

 

“Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. (Non chiederci la parola, dalla raccolta Ossi di seppia)

 

Il poeta è uomo tra gli uomini; non offre mere  speranze, ma è proprio questa lucida razionalità il riscatto più grande per l’uomo stesso, ciò che gli permette di non soccombere in uno sconfinato pessimismo, ma di essere cosciente della propria condizione, della propria realtà, con onore. Mosca, coraggiosamente, aveva smesso di preoccuparsi, di arrancare, di rincorrere gli affanni di una vita menzognera. Le sue pupille malate, divengono ora, agli occhi del Montale, l’unica guida sicura, esempio da seguire. Il tema del “vedere” viene così spostato dal piano fisico, a quello metaforico, simbolico, grazie alla forza dell’amore.

Montale, dunque, come la moglie, non scappa dinanzi la vita, neanche ora che è affranto, dilaniato dal dolore della sua perdita ed è il “vuoto ad ogni gradino”; nonostante tutto, il suo “viaggio continua”. Il poeta, con straordinaria sensibilità artistica, servendosi della sua vena critica, ha tracciato un excursus sull’amore all’insegna della lucida e razionale osservazione dell’esistenza, creando un binomio perfetto tra mente e cuore, classicismo e modernità.

Montale ha vissuto un’epoca difficile, il Novecento, secolo ricco di inquietudini e malesseri, ma ha saputo rappresentarlo al meglio, non soffermandosi solo all’aspetto scontato del più generico pessimismo, ma scandagliando a fondo ogni sfaccettatura, mostrandoci come la consapevolezza del “male” sia, talvolta, l’unica salvezza, l’unica possibile rinascita.

Queste, le parole che possono essere considerate il manifesto poetico della sua intera opera:

“…Preferisco vivere in un’età che conosce le sue piaghe piuttosto che nella sterminata stagione in cui le piaghe erano coperte dalle bende dell’ipocrisia..”

Rassegnazione o coraggio?

 

 

Eugenio Montale: poeta metafisico dell’essenziale

Il poeta della negatività, della corrosione critica dell’esistenza, ma anche uno scettico o addirittura uno snob o un borghese onesto al di sopra della mischia, restio ad essere catalogato come chierico rosso o nero. Al più, la tragica testimonianza di una coscienza intellettuale che ha rimosso i conflitti politici del nostro tempo, sostituendoli con una condizione <<eterna>> di solitudine e di incomunicabilità.” Così è stato definito Eugenio Montale, uno tra i più grandi scrittori italiani, nato a Genova il 12 Ottobre 1896 da un’agiata famiglia borghese. Egli rifiuta di attribuire un valore assoluto e istituzionale alla scelta della poesia ed aspira a scrivere “sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale”: l’attività poetica non rappresenta per lui un mezzo mediante il quale spillare il senso profondo, intimo, segreto della vita, ma uno strumento di contatto con la realtà del presente, con lo scenario storico-sociale-naturale circostante. L’arte è per lui una forma di vita “alternativa”, che parte da un rifiuto della vita reale e da una non partecipazione al flusso distruttivo della natura e della storia. Queste le parole del Montale sulla figura del “poeta laureato”: “Io non attribuisco nessun particolare privilegio alla posizione dell’artista nella società, nessun merito specifico. L’idea classicistica del poeta che vive in mezzo agli uomini con l’alloro in testa , mi sembra un relitto di cui bisogna assolutamente liberarsi”.

La vita dello scrittore consta di motivi biografici meno significativi di quanto invece accade per poeti quali Saba o Ungaretti. Tuttavia, vive un’adolescenza difficile dove inizia ad emergere un senso di distacco dalla consueta vita borghese, un distacco che caratterizzerà profondamente la sua opera, mostrandoci, al di là della borghesia operosa e in ascesa, al di là della secolare fatica dell’uomo e della sua famiglia che ne è diretta rappresentazione nella mentalità e nei costumi ( il padre infatti dirige un’importante azienda di prodotti chimici), quella che è una natura opprimente, una realtà che in tutte le sue sfumature cela la pena di un male di vivere consustanziale nelle cose.

Da sempre appassionato di arte, studia dapprima musica per poi dedicarsi alla letteratura. Come molti scrittori del tempo, anche lui viene arruolato. La prima pubblicazione poetica risale al 1922 denominata “Accordi”, mentre il suo libro “Ossi di seppia” è del 1925. Nell’ambito politico chiara è la sua avversione al movimento fascista, quando nello stesso anno appone la sua firma al manifesto antifascista di Croce, un’opposizione che gli costerà l’espulsione dalla direzione del gabinetto di Vieusseux, seppur non condividendo i limiti troppo nazionali e tradizionali del crocianesimo, ma cercando un confronto con il mondo molto più problematico. Nell’immediato post guerra, fonda insieme a Bonsanti e Loria il quindicinale “Il Mondo”, ma dinanzi alla situazione conflittuale del dopoguerra, cadono le speranze di un orizzonte europeo laico ed illuminista. Montale ritiene infatti che la guerra più grande a cui è chiamato l’uomo sia quella contro l’ arroganza e la presunzione della stessa umanità, restia ad accettare di essere soltanto una minima parte dell’universale ingranaggio cosmico.

Nel 1939 pubblica “Le occasioni”. Viene a contatto con i più grandi intellettuali dell’epoca, primi fra tutti Svevo ed Ezra Pound. Lavora come giornalista al “Corriere della Sera” per poi pubblicare nel 1956 La bufera ed altro” e nel 1971 “Satura”. Nel 1980 nasce l’edizione critica di tutta la sua intera attività culturale, col titolo di “Opera in versi”. D’obbligo, nel 1975 è l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura ad uno scrittore considerato modello di cultura laica e liberale, di discrezione e di civiltà. Un uomo, Montale, poco propenso alle sbavature sentimentali, ai miti dell’ottimismo, che spesso schivo e reticente verso la propria stessa esistenza, può sembrarci alteramente rinchiuso nella “cittadella” del proprio io; ma in realtà è proprio il distacco, l’apparente non coinvolgimento, la sua “solitudine” che fanno della sua arte il dono grandissimo di comunicare “l’essenziale”, di scoprire la distanza abissale tra un io, lacerato dalle contraddizioni, e gli altri. Muore a Milano il 12 Settembre 1981.                                                                                                                                                                             Montale ha svolto anche una lunga attività di critico e traduttore che lo porta a contatto con le letterature straniere, specialmente francese e inglese. Dalla poesia francese ed in particolare da Baudelaire riprende la volontà di uscire da un orizzonte linguistico e tematico già dato, di valicare i limiti della realtà, mosso da un imperativo intellettuale e morale, che sembra richiamare le famose parole di Ulisse del canto ventiseiesimo dell’Inferno dantesco : “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. La sua poesia è   plasmata per conoscere, interrogando, il presente; per immergersi laicamente e razionalmente anche negli aspetti più inquietanti della realtà e della coscienza umana  prendendo atto della profonda solitudine dell’uomo e riconoscendo dinanzi a ciò i limiti e la marginalità della stessa poesia; una “scoperta”, questa, che lo porta a tenere il discorso, per l’assegnazione del premio Nobel, dal titolo: “E’ ancora possibile la poesia?”                                                                             

A questa domanda Montale non ci lascia una vera e propria risposta, ma esprime una condizione della poesia “martoriata” dalla “quantità estrema di parole che percorrono la terra”. A differenza di Ungaretti che propone un ermetismo conciso e tagliente, Montale va creando una poesia metafisica nata dal contrasto tra ragione e qualcosa che non è ragione; una poesia che si immerge razionalmente negli oggetti che va descrivendo per trarre alla luce ciò che in essi vi è di irrazionale; una poesia che ha uno scopo ma che al contempo è anche consapevole dei limiti di tale scopo. Questo tipo di poesia è stata definita “ poetica dell’oggetto”, richiamandosi al correlativo oggettivo di Eliot.

La poetica montaliana è un tipico esempio di come mediante l’attività letteraria si possano perfettamente conciliare classico e moderno. Innanzitutto la moderna “ricerca antropologica” condotta dal poeta assume connotati classici. Guarda al mondo dei grandi classici non per farne sfoggio di preziose citazioni, ma se ne avvicina in maniera critica, ricercando ciò che in essi serve a comprendere la realtà presente. Si uniscono così linguaggio tradizionale e moderno. Da Leopardi, il poeta ligure riprende l’inquieta interrogazione del nulla, dal Petrarca una ricerca di equilibrio perfetto, da Dante la ricchezza espressiva.

In Ossi di seppia già il titolo ci dà il senso  di questa poetica. L’osso infatti è metafora delle cose ridotte alla loro nuda e scarna esistenza. Questo spogliarsi delle cose rompe i consueti equilibri quotidiani, disintegra le maschere sotto le quali la realtà si cela, ci svela il vuoto in cui consiste il vivere personale e naturale. La voce del poeta, con quell’atteggiamento razionale e critico che lo contraddistingue, si immerge nel paesaggio, spesso quello ligure, descritto sull’onda dei ricordi dell’infanzia, senza però confondersi in esso, dove ogni barlume di speranza, di un attingere ad una vita più autentica e migliore, si risolve in una disillusione.  Non c’è una salvezza certa, non c’è un valore assoluto e definitivo della parola poetica. Tutto il libro è attraversato dal presupposto di una crisi gnoseologica che vieta l’adesione a confortanti certezze.  La poesia montaliana invita a  riflettere, non annuncia blande promesse:

“ …..Non domandarci la formula  che mondi possa aprirti,                                                                                              

  sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.                                                                                                              

   Codesto solo oggi possiamo dirti,                                                                                                                       

   ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.” 

Nelle Occasioni significativo è il discorrere con alcune figure di donne, generalmente donne reali, conosciute per momenti brevissimi, portatrici di un messaggio: il tentativo  di trovare la luce in un mondo buio e negativo. Un tentativo labile, che emerge come squarci di luce improvvisi nell’oscurità, che si risolve come la fiamma che brucia e poi immediatamente si spegne divenendo cenere. Rappresentano un’ultima, drammatica difesa contro la barbarie del mondo, una possibilità comunque insufficiente per “poter mutare le cose del mondo”:

“………La vita che dà barlumi                                                                                                                                                   

  è quella che sola tu scorgi.                                                                                                                                                                 

    A lei ti sporgi da questa                                                                                                                                                                                           

 finestra che non si illumina.”

Nella Bufera ed altro abbiamo un aspetto romanzesco del libro, che fa sì che si ponga un intreccio tra i segni della realtà contemporanea e la vicenda d’amore per una donna salvatrice. Una donna che richiama solo in parte quella stilnovistica, in quanto conserva tracce di un sottile erotismo, non distrugge la sensualità. Il “tu” femminile con il quale il poeta dialoga si identifica innanzitutto con Clizia, figura mitologica che nasconde in realtà la vera identità di Irma Brandeis, studiosa americana, simile alla lontana e inafferrabile Laura petrarchesca; poi passa a colloquiare con Mosca, più concreta e vicina e infine  con Volpe che in realtà è come se rappresentasse il passaggio da un piano “angelico” ad uno più propriamente terrestre, divenendo molto meno inafferrabile delle precedenti. La donna montaliana diviene simbolo che reca in sé tesi e antitesi, positivo e negativo, funzionale e antifunzionale. Comporta attraverso alcuni “segni preziosi” la funzione di opporre alla degradazione e alla violenza del presente, qualcosa di “altro”, ma al contempo essa stessa distrugge questa funzione, e gli stessi segni diventano simboli di distruzione e morte. La donna è inoltre simbolo della poesia, che da un lato tenta di resistere, di offrirsi come ultimo dono civile in un mondo incivile, e dall’altro soccombe:

“..il lampo che candisce                                                                                                                                                             

alberi e muro e li sorprende in quella                                                                                                                                         

  eternità d’istante….”                                                                                                                                                                

Il lampo è dunque metaforicamente simbolo della verità che , attraverso la donna, si svela per un attimo nell’oscura tragedia della guerra e della storia in generale.  Una verità che come abbiamo detto non può essere attinta fino in fondo e ce lo dimostra la chiusa di questa poesia, con la donna che ritorna nell’oscurità del buio:

“…mi salutasti-per entrar nel buio.”

Eugenio Montale ci ha lasciato una profonda testimonianza della sua poetica; la testimonianza di un uomo, che tra classicismo e modernità è stato interprete critico e razionale del suo tempo, comprendendo a fondo le contraddizioni di una società tanto complessa come quella del Novecento e vedendo molto più lontano di tanti programmi ideologici proiettati nel futuro; lasciando aperto uno spiraglio di speranza, sebbene, come si è visto, Montale non fosse incline alla fede come Ungaretti.

 

 

 

“Le carabattole”, di Eugenio Montale

autoritratto di Montale

Diario del ’71-’72 è una delle ultime raccolte di Eugenio Montale che continua in qualche modo la linea poetica di “Satura”; assume toni più attenuati, lievi, sussurrati come segreti ma non abbandona l’ ironia e la parodia. Oscillando tra pessimismo e ottimismo il poeta vuole confrontarsi con il linguaggio della cultura contemporanea; percepisce una società che trascina come un vortice, dove tutto è deciso da ingranaggi incontrollabili e prestabiliti. L’unica forma di comunicazione e di sopravvivenza nella società di massa che sempre più sembra trasformarsi in una trappola, rimane la poesia; eppure diventa impossibile muoversi perché il mondo ha subito una «decozione/di tutto in tutto» e «vede il trionfo della spazzatura». Il poeta allora decide per un «rispettabile prendere le distanze» che rappresenta il fuggire da un presente che sembra non avere più nulla da dare, ma l’unico modo possibile che gli consente di osservare i movimenti, i gesti, i rumori e le voci di una vita oramai artificiale e lontana.

Eppure, nonostante tutto, la poesia non gli garantisce più nessuna salvezza, anche la Musa è stata sporcata dalla lordura e dalla degradazione. Cerca di fissare alla pagina il vuoto, quella percezione di mancanza che travolge il suo tempo. Guarda, osserva e dissacra tutto cioè che è condizionato, illusorio, ogni tentativo di persuasione e di convincimento fallace e grigio; nel piatto modernismo che avanza, le esistenze si susseguono senz’anima, l’umanità pensa e cammina tutta allo stesso modo, è fatta in serie e tutto ciò in cui crede è insensato e senza fede colorato da scialbi e inefficaci dogmi di poca verità. In questa crisi senza freni dove il crollo e la decadenza sono l’unica certezza si affaccia in questa poesia il tema della morte, che si colora di tinte inusuali e fosche.

Il poeta percepisce l’intera umanità come un mondo di morti-viventi o di viventi-morti: «chi sta sul trampolino/è ancora morto,morto chi ritorna»; sembra non esserci davvero più speranza quando scrive che «tutti siamo già morti senza saperlo». L’insopportabile peso della realtà che non ha più spessore sembra travolgere ogni piega dell’esistenza, gli oggetti, i luoghi, i ricordi, il tempo stesso. Eppure in questo pessimismo venato di esistenzialismo e metafisica c’è un luogo nascosto, segreto, che custodisce e immortala la vera sofferenza di Montale. Ed è proprio Nascondigli il titolo della poesia in cui Montale sussurra il suo dolore, il suo dispiacere; dedicata alla moglie, Drusilla Tanzi, morta nel 1963, affettuosamente soprannominata Mosca per lo spessore dei suoi occhiali. In questi versi assistiamo quasi ad una confessione: la quotidianità è difficile da vivere, rimbalza tra gli oggetti cari, e fa stringere il cuore:

Quando non sono certo di essere vivo la certezza è a due passi ma costa pena ritrovarli gli oggetti, una pipa, il cagnuccio di legno di mia moglie, un necrologio del fratello di lei, tre o quattro occhiali di lei ancora!, un tappo di bottiglia che colpì la sua fronte in un lontano cotillon di capodanno a Sils Maria e altre carabattole. Mutano alloggio, entrano nei buchi più nascosti, ad ogni ora hanno rischiato il secchio della spazzatura. Complottando tra loro si sono organizzate per sostenermi, sanno più di me il filo che le lega a chi vorrebbe e non osa disfarsene. Più prossimo negli anni il Gubelin automatico tenta di aggregarvisi, sempre rifiutato. Lo comprammo a Lucerna e lei disse piove troppo a Lucerna non funzionerà mai. E infatti…

Immerso nelle carabattole, “Ossi di seppia” che ancora invadono il suo cammino, Montale è circondato dagli oggetti che gli ricordano la sua Mosca; sono lì, feticci insostituibili di un’esistenza che non c’è più; occhiali che non potranno più vedere, un necrologio che non potrà mai essere letto, un tappo di bottiglia che non colpirà più nessuna fronte; oggetti che complottano per tenere vivo il filo della memoria, amati ed odiati che rischiano di essere buttati via; si nascondono, si negano, si manifestano, sono come la memoria che nonostante faccia male non può essere cancellata. E poi infine appare l’oggetto più prezioso di tutti, un vecchio orologio, imponente simbolo della vita e della morte. Questa volta il tempo si è fermato per il nostro poeta, il Gubelin automatico, ricordo adorato e melanconico, non funziona più; forse si è fermato proprio lì a Lucerna, e ha smesso di funzionare, dispettoso, molesto quasi a ricordargli un tempo che non potrà più tornare.

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