Dal 21 febbraio l’universo grafico di Keith Haring arriva al Palazzo Reale di Milano

Con la mostra “Keith Haring. About Art” il Palazzo Reale di Milano tra pochissimi giorni inaugurerà uno degli eventi mostra più attesi di quest’anno con l’esclusiva retrospettiva dedicata all’indimenticabile  artista visuale pop- art americano della seconda metà del Novecento attraverso un percorso espositivo di ben 110 opere selezionate.

Curata da Giovanni Mercurio, con la collaborazione scientifica di Madeinart e il contributo della Keith Haring Foundation, la mostra milanese vuole mettere in luce, per la prima volta, ripercorrendo nell’arco della breve ma intensa vita di Haring, il suo rapporto con la storia delle arti: pittura, scultura, cartoon, fumetti, e nelle ultime creazioni, informatica, evidenziando come l’esplorazione artistica dello stesso si sia evoluta in un aperto e interessante dialogo con l’assolutamente libero scenario culturale contemporaneo in direzione d’una sicura rivalutazione delle forme, nei linguaggi e nelle opere di altri artisti del passato e del futuro, come i dipinti dei maestri del Novecento, quali Pollok, Dubuffet, Klee, nella prospettiva odierna di poter formulare giudizi critici sull’inedito e inconfondibile universo grafico haringiano.

Dischi volanti, bambini che camminano a carponi, cani a sei zampe, ma, soprattutto, ambigui personaggi infantilmente stilizzati, sorta di elementari omuncoli venuti dal sonno circondati da una fumettistica aureola di raggi luminosi dai colori sgargianti immersi in un flusso grafico continuo sono i segni unici e distinti che hanno invaso i muri delle grandi città in tutto il mondo, per non parlare di magliette e gadgets, creati dalla visione immaginaria dell’arte del ragazzo dinoccolato con gli occhialini tondi destinato a diventare molto di più di un semplice graffittista e decoratore: Keith Haring (Reading, Pennsylvania, 1950- New York, 1990). Haring riflette e reinterpreta in una lente surreale il disagio e le contraddizioni di quella generazione americana cresciuta in piena era nucleare e nutritasi quasi esclusivamente di televisione e di fumetti, restando neegli stesso vittima per la sua prematura morte a soli 32 anni stroncato dall’Aids.    

Nonostante la malattia, la creatività di Haring lo ha condotto a maturare esperienze artistiche di grande espressività dipingendo su ogni cosa. Cresciuto con i fumetti cui era fissato nel disegnare fin da bambino, influenzato da Picasso e dall’arte di strada, Haring era dotato di un talento che lo porterà ad essere celebre in tutto il mondo diventando uno dei maggiori artisti pop-art di sempre per la creazione di un linguaggio visionario accessibile a tutti, dando forma alla sua personalissima idea di arte, a partire dagli iniziali disegni col gesso bianco sui pannelli di carta neri dei manifesti pubblicitari della stazione metropolitana di New York, a volte riuscendo a scappare, altre volte meno, all’arresto della polizia con l’accusa di essere un ‘graffittaro’.

Accolto sotto l’ala protettiva di Andy Warhol, il guru della pop-art, Haring fu introdotto nel mondo delle mostre. Le sue opere sono lo specchio della vita dove i temi principali: amore, morte, paura, pace, sono immersi in un flusso grafico di progresso-regresso di quella opulenta società di consumi, il suo tempo ma anche il nostro tempo. In occasione dell’esposizione milanese le coloratissime tele del famoso pittore americano molte di dimensioni monumetali, di cui alcune inedite o mai esposte in Italia, rendono il significato del viaggio esistenziale e artistico di Haring dove sesso e visionarietà ricordano il suo personale impegno per temi sociali e politici come: droga, razzismo, Aids, minaccia nucleare, alienazione giovanile, disciminazione.

La sua attività artistica pone al centro della ricerca l’espressione metaforica dell’individuo attraverso i famosi omini i cosiddetti radiant boy, cioè ragazzi sfolgoranti, che, nell’immediatezza, rinviano ai graffiti preistorici caratterizzati da un contorno nero, e dall’uso di colori accesi gallo, blu, verde e dall’immancabile rosso, uno dei colori più forti. Non a caso il colore rosso acceso rinvia al colore del sangue, forse l’unico elemento organico che rappresenta il valore della vita ma cruda e malata nella personalissima riflessione dell’artista intorno alla compessità dell’individuo dell’essere umano sempre più consumato e trasformato non solo dalle nuove tecnologie ma anche dai meccanismi del potere diventando egli stesso un agglomerato di radiazioni, i raggi luminosi, dalle forme vuote, disegnate dai marcati contorni degli omini in atto di movimento, un ballo primitivo e tribale, di una nuova specie di umanità quella virtuale.

Lo spettatore è, dunque, assorbito da personaggi e figure che non sono copie della realtà, ma finestre sull’immaginario che simboleggiano l’intreccio tra l’essere umano e macchina, televisione e computer, come figure significanti di individui quasi fossero diventati un prolungamento della vita quotidiana.

La grande mostra Keith Haring. About Art durerà fino al 18 giugno 2017, contribuendo a rendere ricca e interessante la stagione culturale intrapresa dal Comune di Milano, nelle sale del Palazzo Reale, con l’evento dedicato a Manet in arrivo, offrendo un’imperdibile occasione tesa ad ammirare, conoscere e giudicare da vicino le opere di Haring, artista dal talento straordinario.

Antonio Ligabue in mostra al Vittoriano di Roma fino a marzo 2017

Dall’11 novembre la potenza espressiva di Antonio Ligabue, uno degli artisti più interessanti e imprevedibili del ‘900, si esibisce negli spazi dell’Ala Bransini del Complesso del Vittoriano di Roma. Oltre 100 opere dell’artista svizzero raccontano la sua vita difficile e la sua produzione artistica: gli animali selvaggi, i paesaggi rurali e gli autoritratti, nei quali Ligabue rivela senza pietà la sua storia particolarmente affascinante, inquietante e stravagante, affermando così la sua identità di uomo e di artista, dove i due confini si incontrano tra l’elemento fantastico e l’elemento folle.

 

La mostra

L’esposizione, promossa e curata da Sandro Parmiggiani, direttore della Fondazione Museo Antonio Ligabue di Gualtieri, e da Sergio Negri, presidente del comitato scientifico, ha l’obiettivo di far conoscere l’incredibile vicenda umana di questo singolare artista nato a Zurigo nel 1899 e che visse a Gualtieri, in Reggio Emilia, sulle rive del Po’. Pittore malato, solo, non amato, un pittore che reagiva alla sofferenza del suo isolamento con l’aggressione nella quale cercava di risolvere la propria timidezza, la propria incapacità di comunicare e di reagire ai problemi, Ligabue visse sempre in una condizione di disagio nei confronti della realtà, rifugiandosi in una condizione fantastica e irreale la quale influenzò profondamene la visione artistica senza però riuscire a garantirgli una serenità esistenziale alla quale non arrivò mai.

Fino a marzo 2017 il Vittoriano di Roma offre l’opportunità di ammirare le sue opere intense, coloratissime, espressionistiche e un po’ naif al tempo stesso in una grande mostra organizzata in tre sezioni: la prima contempla gli elementi della sua ispirazione dalle prime opere (1928 – 1939) semplici e formali, a quelle dove i soggetti, quelli che riassumono forse tutto il mondo di Ligabue, quello degli animali che vedeva nella valle padana e dei conflitti tra le fiere oppure quello più idillico- bucolico della natura dei campi dai colori accesi, spesso casuali perché Ligabue usava i colori che disponeva in quel momento (1939 – 1952), sino all’ultimo decennio (1952 – 1965), quando l’artista è colpito da una paresi che lo lascerà invalido sino alla morte avvenuta nel 1965, periodo a cui appartengono i celebri autoritratti che per potenza, devastazione fisiognomica e ossessione possono esser avvicinati a quelli di Van Gogh.

In mostra, ancora, accanto ai capolavori dipinti, come Carrozza con cavalli e paesaggio svizzero (1956-1957), Tavolo con vaso di fiori (1956) e Gorilla con donna (1957-1958) – l’orango che ricorre così frequentemente nei suoi quadri, un tema che nasconde una delle ossessioni del pittore, proprio quella del rapporto con la donna –  si aggiunge una seconda sezione in cui non mancano le sculture come Leonessa (1952-1962) e Lupo siberiano (1936), ed infine una sezione dedicata alla produzione grafica con disegni e incisioni quali Mammuth (1952-1962), Sulki (1952-1962) e Autoritratto con berretto da fantino (1962).

Ligabue: l’uomo-animale che aggredisce

Se come artista ha prodotto centinaia di opere, come uomo, Antonio Laccabue (1899-1965), questo era il cognome del patrigno odiato per il quale mutò il cognome in Ligabue adottando quello materno, ha rivelato le alterazioni della sua psiche malata: selvatico, timido, solitario, insolente, sporco, soggetto a crisi depressive che lo portarono ad entrare ed uscire dal manicomio di Gualtieri, a Reggio Emilia, dove Ligabue decise di stabilirsi nel 1919 al seguito dell’invio in Italia per il servizio militare.

La sua vita fu segnata da una infanzia difficile, non conobbe il vero padre e la madre friulana emigrata in Svizzera, sposò un emigrato di Gualtieri, dal quale ebbe tre figli, riconoscendo anche il piccolo Antonio che rimase solo col patrigno dopo che la morte della madre insieme ai tre fratellini per intossicazione alimentare. Questa grave perdita gli procurò una perdita di identità, vivendo privo di una sua dimensione sociale e di una dimensione presente, ma in quella realtà di ricordi di immagini dei luoghi dove il pittore nacque e visse i primi anni della sua infanzia, il cantone tedesco della Svizzera, dove frequentava l’unico museo di San Gallo, dove visse a lungo guardando gli animali del giardino zoologico, dove frequentava l’orto botanico di San Gallo. Memoria e fantasia, appunto, è il significato della sua opera artistica che, all’inizio, gli fu  riconosciuta da Marino Mazzacurati, l’artista che lo ha scoperto e lo ha spinto a dipingere e gli ha organizzato le prime mostre negli anni ‘50. Antonio Ligabue portava i suoi deliri sulle tele, dipingendo in maniera primitiva, mostrandoci nella fissità e nella violenza degli animali feroci (egli stesso sognava di tramutarsi in un animale), spesso in lotte cruenti la rappresentazione di se stesso.

La rappresentazione della nevrosi e insieme della memoria, il paesaggio della memoria sono gli elementi che compongono un’intera sintesi di tutte le contraddizioni, l’infelicità, il destino doloroso di quest’uomo e di questo pittore di nome Antonio Ligabue, il pittore creativo che si identifica con l’animale che aggredisce.

 

Artemisia Gentileschi al Palazzo Braschi di Roma dal 30 novembre

In questa stagione espositiva, assolutamente da non perdere è l’appuntamento tutto al femminile con l’attesa e importante retrospettiva interamente dedicata a una delle più grandi artiste donne del Seicento: Artemisia Gentileschi, che dal 30 novembre 2016 all’8 maggio 2017, sarà in mostra nelle sale del magnifico Palazzo Braschi, sede del museo di Roma, nel cuore barocco della città.

 

La mostra

In uno dei luoghi più belli e storici della Capitale, tra i vicoli rinascimentali che portano a Piazza Navona, Palazzo Braschi propone la seconda personale in assoluto dedicata a questa importante figura artistica che, per l’eccezionalità del suo talento, ha saputo gettare nuova luce nel panorama artistico italiano del Seicento, anche se spesso costrittivo e caratterizzato da guerre e pestilenze, e nel momento prima che il Barocco esplodesse con la sua ricchezza decorativa.

Nata da un’idea di Nicola Spinosa, l’esposizione, promossa e prodotta da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale-Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e Arthemisia Group e organizzata con Zètema Progetto Cultura, contempla un percorso di 90 opere provenienti da tutto il mondo.

 

L’arte di Artemisia Gentileschi sulla scena della sua tormentata vita

Artemisia Gentileschi nacque a Roma nel 1593. Ai suoi tempi la chiamavano pittora o pittoresca, perché il termine “pittrice” ancora non esisteva, a testimoniare che la pittura era un mestiere da uomini, adatto al padre Orazio, dal quale Artemisia iniziò ad esercitare la sua abilità artistica che di lì a poco si sarebbe sviluppata in perfetta autonomia e soprattutto indipendenza da quel mondo di maschi di cui essa era circondata, subendo addirittura violenza carnale da parte di un uomo, tale Agostino Tassi, allievo del padre al quale aveva affidato la figlia per insegnarle come costruire la prospettiva in pittura. La sua personalità artistica passerà alla storia facendosi conoscere fuori dai confini romani per la tragica vicenda giudiziaria che segnò la sua gioventù attraverso romanzi e film che hanno contribuito a fare della Artemisia Gentileschi una figura di grande attualità, quasi un’eroina femminista ante litteram.

La mostra romana celebrerà questa grande artista che ha realizzato dei capolavori unici ed inimitabili. Le sue opere diventano le testimonianze di un animo tormentato segnato dal ricordo di una giovinezza troppo dolorosa per essere dimenticata, così gli atti di violenza che riporta sulla tela si traducono nelle scene che vede protagoniste donne-eroine, per cui, tutte le sue donne, persino le figure sacre, sono caratterizzate da robusta virilità e prosperosa femminilità.

L’esposizione mette in scena le opere più importanti della produzione di Artemisia Gentileschi attraverso la parabola artistica che ha inizio a Roma con l’esordio nella bottega del padre Orazio, quando la giovane artista osservava da vicino molte opere che vari pittori producevano in quel periodo: Carracci, Caravaggio, Guido Reni, il Domenichino e proseguendo con gli anni a Firenze, in cui lo stile di Artemisia si sviluppò autonomamente, il ritorno a Roma all’inizio degli anni Venti e i successivi venticinque anni a Napoli fino alla morte giunta nel 1653. Artemisia Gentileschi come Caravaggio soggiornò a Napoli, nei primi anni Trenta, invitata dal viceré, il conte di Monterrey, suo estimatore e dipingendo pale d’altare, contribuendo con il suo stile a diffondere notevolmente il linguaggio espressivo intenso nell’ambiente pittorico locale di questo periodo artistico.

L’arte di Artemisia è un trionfo femminile, dove su tutte Giuditta che decapita Oloferne, una delle sue opere più famose proveniente dalla Pinacoteca Nazionale di Capodimonte, è stata interpretata come il documento pittorico della tormentata e affascinante vita della pittrice. Eseguita a Roma tra il 1612 e 1613 “Giuditta e Oloferne” di Artemisia Gentileschi resta, assieme a quella compiuta da Caravaggio vent’anni prima e dal quale deriva ma che ne rappresenta l’evoluzione, una delle interpretazioni più suggestive compiute nell’ambito della pittura italiana del Seicento. In uno stile del tutto personale, Artemisia sceglie il momento della vicenda più cruento, quando l’eroina ebrea partecipe e co-protagonista, e non simbolo di virtù e di devozione a Dio, uccide il re assiro Oloferne tagliandogli la testa con due colpi di scimitarra assistita dalla schiava Abra, riuscendo così a salvare la propria gente.

La mostra di Artemisia Gentileschi al Palazzo Braschi di Roma svela gli aspetti più autentici dell’artista, attraversando un arco temporale che va dal 1610 al 1652, illustrando i motivi per i quali «Artemisia – come scrisse il critico Roberto Longhi nel 1916 – è l’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità».

‘Van Gogh Alive, The Experience’: a Roma fino al 27 marzo 2017

Dopo il successo ottenuto a Torino e a Firenze, Van Gogh Alive – The Experience  arriva a Roma, segnando una nuova tappa nell’ambito del progetto itinerante creato da ‘Grande Exhibitions’ che, dal 25 ottobre fino al prossimo 27 marzo, ha scelto lo storico Palazzo degli Esami a Trastevere, come luogo in cui ospitare la mostra interattiva dedicata all’affascinante opera del celebre pittore olandese.

Lo straordinario evento regala al pubblico un percorso di visita fuori dai canoni, per così dire, ‘tradizionali’, in cui lo spettatore è posto di fronte all’opera dell’artista. Qui, invece,  la visita si trasforma in una vera e propria esperienza multisensiorale che fa da ponte fra l’arte di oggi e di ieri. Una esibizione artistica-emozionale di 40 minuti si snoda tra grandi spazi delle sale del Palazzo in via Gerolamo Induno, che, dopo 20 anni di chiusura, ritorna a rinascere proprio grazie a Van Gogh.

Attraverso i più avanzati strumenti tecnologici e multimediali, il visitatore potrà così completamente immergersi nei vibranti colori usati dall’artista prendere letteralmente vita nella proiezione di 3.000 immagini fotografiche delle sue opere lungo pareti e colonne, soffitto e  pavimento delle sale del Palazzo in una realtà virtuale davvero immersiva grazie a SENSORY4™ : “un sistema multimediale unico – ha spiegato Rob Kirk, curatore per ‘Grade Exhibitions’- che armonizza motion graphic multicanale, suono surround di qualità cinematografica, con oltre 40 proiettori ad alta definizione per fornire immagini dettagliate e particolari in primo piano”.

Vang Gogh Alive è una mostra che incontra la tecnologia, un viaggio poetico dove immergersi a 360 gradi nei capolavori dell’opera pittorica del grande Maestro dai capelli rossi e gli occhi chiari, dove le linee e i colori vivaci riflettono la capacità espressiva del tragico mondo di Van Gogh. Un’esperienza multisensoriale, dunque, non solo per gli occhi ma che dà allo spettatore la sensazione di toccare con mano il blu intenso della Notte stellata al punto da diventare un tutt’uno con l’opera proiettata ad alta definizione oppure immergersi nelle immagini animate dei famosi mulini a vento, arricchito da musiche estremamente evocative come quelle di Schubert, Vivaldi, Bach e tante altre.

Van Gogh e la sua pittura “inquieta”

La pittura permise a Vincent Van Gogh (Groot-Zundert, Brabante, 1853 – Auvers-sur-Oise 1890) di trovare se stesso nel suo eterno conflitto interiore, il cui talento artistico gli fu riconosciuto soltanto dopo la fine di quella sua vita confusa e inquieta vissuta tra il mal di vivere e la follia, all’ombra del fratello minore Theo. Numerose immagini di citazioni tratte dalle sue lettere al fratello, importantissime, tra l’altro al fine di comprendere la difficile personalità del pittore originario dei Paesi Bassi, sono incluse nella mostra in un ‘excursus’ sulla sua vita privata assieme alle 800 opere che il Maestro ha composto in 10 anni di intenso lavoro, operando una profonda rivoluzione nella storia dell’arte. A partire dal 1880, quando tardi decise di dedicarsi alla pittura nella Parigi degli Impressionisti, fino al 1890, negli ultimi anni della sua vita vissuta tra Arles, Saint Rémy fino a Auver-sur Oise, luogo in cui si spense in una modesta camera d’albergo.

C’è tempo fino a marzo 2017 per immergersi nei colori e nello stile unico di Van Gogh all’interno degli 11 mila metri quadrati di Palazzo degli Esami di Roma.

 

 

Dalì. Il sogno del classico in mostra a Pisa fino al 5 febbraio 2017

Tra gli eventi culturali in programma per questo autunno-inverno, da non perdere è la mostra dedicata a Salvador Dalì (Figueres, 1904- Ivi, 1989), appositamente allestita nelle sale dell’antico Palazzo Blu di Pisa, dimora nei secoli di diverse casate nobiliari. Dal 1° ottobre, in mostra oltre 150 capolavori del grande maestro catalano che testimoniano al pubblico la grande influenza che la tradizione classica italiana e i grandi Maestri del Rinascimento hanno esercitato sull’arte di Dalì, uno degli aspetti meno noti della sua particolare parabola surrealista.

Le opere sono state eccezionalmente prestate dal Museo Fundación Gala-Salvador Dalí di Figueres e dal Dalí Museum di St. Petersburg in Florida, le due più importanti istituzioni mondiali che custodiscono le opere dell’artista catalano, ma anche dai Musei Vaticani. La mostra, curata dalla direttrice Musei Dalí Montse Aguer in collaborazione con MondoMostre, presenta una selezione mirata di diverse opere tra cui dipinti, acquerelli e xilografie appartenenti all’ultima fase della carriera del celebre artista surrealista. Conosciuto in tutto il mondo per la sua capacità di superare i confini della realtà oltrepassandola con la forza creativa dell’inconscio, Dalì non è stato solo pittore, ma anche scultore, incisore, disegnatore, filmaker, designer e intellettuale appassionato di letteratura. Il percorso espositivo, infatti, evidenzia non solo le diverse tecniche e materiali esplorati da Dalí, ma permette al visitatore di entrare in contatto con la dimensione artistica più peculiare della sua espressività surrealista in relazione ai principali protagonisti della tradizione rinascimentale come MichelangeloDante e Benvenuto Cellini.

Per la prima volta l’esposizione si concentra proprio sull’importanza che per Dalí ha avuto l’Italia e  l’interesse per la pittura del Rinascimento maturo e del Seicento. È proprio su questa linea che prende forma la mostra pisana Dalí. Il sogno del classico  che durerà fino al 5 febbraio 2017.  In particolare, il percorso è suddiviso in cinque sezioni  Soggetti religiosi, Inferno, Purgatorio, Paradiso, Autobiografia di Benvenuto Cellini.

I quattro dipinti che aprono la mostra, La Trinità, studio per il Concilio ecumenico del 1960, Paesaggio di Port Lligat, 1950, Sant’Elena a ′Port Lligat, 1956 circa e Angelo di Port Lligat, 1952 dimostrano una svolta mistica e religiosa in pittura, successivamente al suo soggiorno in Europa a causa della guerra civile spagnola, quando nel luglio del 1948 Dalí e la sua amata Gala tornano a Port Lligat e poi di nuovo in Italia.

Dipinti importanti e poco conosciuti permettono al pubblico di avvicinarsi agli aspetti meno noti del lavoro del grande artista, quando Dalì ammira e ripete temi religiosi ispirati agli artisti rinascimentali, costituendo così un’immagine eco. I toni verdastri della tela, un po’ deprimente, corrispondono al periodo in cui il declino della sua musa-amore ossessivo per Gala diventa chiaro, quando l’opera di Dalì è il risultato di una profonda tristezza malinconia e ricordano il passato. Sono le ultime creazioni degli anni ’80 che appartengono al momento in cui Dalì ha anche spesso utilizzato l’iconografia michelangiolesca, così come: Senza titolo. Mosè da quello della tomba di Giulio II di Michelangelo, Senza titolo. Cristo dalla Pietà di Palestrina attribuita a Michelangelo, Senza titolo. Giuliano de’ Medici da quello del sepolcro di Giuliano de’ Medici di Michelangelo e Senza titolo. dal Ragazzo accovacciato di Michelangelo.

Oltre i dipinti, l’intera serie di xilografie ad acquerello, gouache e sanguigna (dipinte tra il 1950 e il 1952) della Divina Commedia, che gli fu commissionata nel 1950 dal ministero della Pubblica Istruzione italiano, e le 42 illustrazioni in china su carta e acquerello che raccontano la leggendaria vita di Benvenuto Cellini, realizzate su commissione dell’editore Doubleday&Company′ nel 1945 – per una nuova edizione inglese di The Autobiography of Benvenuto Cellini.
Una mostra unica che esplora l’universo dell’ultimo Dalí, ancora poco conosciuto, e che mette in luce la relazione del suo grande genio con la tradizione dei grandi maestri e della letteratura italiana.

 

 

Edward Hopper al Vittoriano: la grande mostra dedicata al ‘pittore della solitudine’

Con l’arrivo della stagione autunnale, per gli appassionati d’arte non mancano gli eventi dedicati ai grandi nomi e retrospettive interessanti. Dopo il successo della mostra in Palazzo Fava a Bologna, dal 1° ottobre Edward Hopper (Nyack,1882- New York, 1967) torna nella capitale in una straordinaria retrospettiva. Oltre 60 opere realizzati tra il 1902 e il 1960 e una sezione inedita saranno esposti negli spazi dell’Ala Bransini del Complesso del Vittoriano fino al 10 febbraio 2017.

La mostra

Le opere di Hopper sono state eccezionalmente prestate dal Whitney Museum di New York, che di Hopper custodisce l’intera eredità. La rassegna, curata da Barbara Haskell (del museo newyorkese) in collaborazione con Luca Beatrice, ripercorre la straordinaria produzione dell’artista tra cui celebri capolavori come: South Carolina Morning (1955), Second Story Sunlight (1960), New York Interior (1921), Le Bistro or The Wine Shop (1909), Summer Interior (1909), interessantissimi studi (come lo studio per Girlie Show del 1941). A questo si aggiunge anche il prestito eccezionale dell’olio su tela Soir Bleu, dipinto da Hopper a Parigi nel 1914. Oltre ai capolavori di Hopper, inoltre, il percorso offre una sezione della mostra tutta inedita, che testimonia dell’influenza della tecnica del pittore sul grande cinema a lui contemporaneo: film di Philip Marlowe, lavori di Hichcock, primi fra tutti Psycho e La finestra sul cortile e di Antonioni. Così come in Profondo Rosso Dario Argento si ispira a Nighthawks per ricostruire la sequenza del bar.

 

Edward Hopper: pittore della solitudine

Conosciuto in tutto il mondo per la sua capacità di ritrarre il senso della solitudine nelle classi medie della società americana a lui contemporanea, Hopper è stato un artista lontano dalle tendenze astratte o surreali che contraddistinsero i nuovi linguaggi artistici della prima metà del Novecento scaturiti dagli sconvolgimenti sociali e politici. Per Hopper nacque l’esigenza di andare oltre la realtà apparente, in modo da indagare e riprodurre la realtà interiore: l’inconscio dell’animo umano. Lui stesso infatti sosteneva che dipingeva quello che provava, non quello che vedeva.

Ogni suo dipinto “fissa” una scena sempre silenziosa i quali personaggi dipinti appaiono fermi come se ripresi nell’attimo di un pensiero, di un momento di solitaria riflessione. Il senso di vuoto, di alienazione, di grave incomunicabilità sono nelle opere di Hopper la rappresentazione di un mondo sempre più moderno, sempre più avanzato, sempre più veloce e che, proprio per questo, gli appare (ed è) moltiplicatore di solitudine ed incomunicabilità, e che, a ben vedere, è uguale ancora oggi con il boom dei social network.

“Summer Interior” (1909)

 

Hopper si dedicò soprattutto al disegno, spaziando nelle varie tecniche pittoriche. In esposizione gli acquarelli parigini, i paesaggi e gli scorci cittadini degli anni ’50 e ’60 e, infine, le immancabili immagini solitarie di donne rivelano come la mano di Hopper è riuscita a rappresentare in modo reale la solitudine dell’attesa del vivere, tra pausa degli eventi e meditazione solitaria attraverso la nitidezza di uno scatto fotografico. E per il suo stile così inconfondibile e sui generis, fatto di sofisticati giochi di luci fredde, di colori non vivaci che conferiscono alle sue opere un’atmosfera metafisica, che Hopper, pittore del “silenzio”, oggi risulta essere tra gli artisti più noti e amati dal grande pubblico.

“Nighthawks” (1952.)
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