Oscars 2022. ‘Drive my car’ di Hamaguchi, tra Cechov e Murakami

Tre ore che non affaticano ovvero affaticano a seconda del grado di feeling individuale col cinema di Ryusuke Hamaguchi, la nuova star del cinefirmamento giapponese. “Drive My Car” è il secondo exploit, in effetti, di un anno fortunato perché vincitore del Premio alla migliore sceneggiatura di Cannes 2021 a distanza di poche settimane dal Gran Premio della Giuria della Berlinale andato a “Il gioco del destino e della fantasia”: specialista delle operazioni a cuore aperto sui personaggi soprattutto femminili, il quarantatreenne regista laureato all’Università delle arti di Tokyo.

Yûsuke Kafuku, un attore e regista che ha da poco perso la moglie per un’emorragia cerebrale, accetta di trasferirsi a Hiroshima per gestire un laboratorio teatrale. Qui, insieme a una compagnia di attori e attrici che parlano ciascuno la propria lingua (giapponese, cinese, filippino, anche il linguaggio dei segni), lavora all’allestimento dello Zio Vanja di Cechov. Abituato a memorizzare il testo durante lunghi viaggi in auto, Kafuku è costretto a condividere l’abitacolo con una giovane autista: inizialmente riluttante, poco alla volta entra in relazione con la ragazza e, tra confessioni e rielaborazione dei traumi (nel suo passato c’è anche la morte della figlia), troverà un modo nuovo di considerare sé stesso, il proprio lavoro e il mondo che lo circonda.

il film mette in scena la progressiva “distruzione” di questi due ambienti e l’evoluzione del suo protagonista: dalla ricerca individuale e soggettiva, Kafuku impara ad accogliere e ad ascoltare gli altri, aprendo lo spazio inviolabile dell’automobile a un’altra persona e osservando la realtà che lo circonda con altri occhi.

In Drive My Car ci sono due tipi di silenzio: uno legato al linguaggio dei segni, e dunque in grado di comunicare, e un altro che segna il rapporto fra Kafuku e Misaki. Le loro conversazioni si fanno sempre più rade mano a mano che si conoscono e nel finale, durante il lungo viaggio verso nord, arrivano a capirsi quasi senza parlare. È il loro silenzio a indicare la profondità del loro legame e in qualche modo a farsi anch’esso una forma di comunicazione.

Cechov e lo Zio Vanja sono ovviamente fondamentali nel racconto di partenza, come ha ammesso lo stesso regista (Drive My Car – Film (2021) – MYmovies.it) .

Leggendo Murakami infatti si capisce come il personaggio di Vanja abbia una corrispondenza narrativa ed emotiva con Kafuku, il protagonista della storia. Entrambi devono cominciare una nuova vita dopo aver terminato quella precedente senza aver rivolto alla persona che amavano le domande che più contavano.

Nel film, poi, Cechov assume un’importanza ulteriore per il fatto che al cinema non è possibile raccontare in prima persona e dunque mi servivano le battute del suo testo per comunicare l’intimità dei personaggi. Molte di queste battute sono già nel racconto di Murakami e credo siano una delle prove della grandezza di Cechov, la sua capacità di far dire ai personaggi cose che illustrano l’essenza della vita e che nel quotidiano nessuno di noi ha la possibilità o la libertà di dire apertamente.

 

DRIVE MY CAR – DUNE

I libri del premio Lattes Grinzane in lettura a tutti al Polo del ‘900 di Torino

I volumi del Premio Lattes Grinzane al Polo del ‘900 di Torino: dal 25 settembre i lettori potranno consultare o prendere in prestito gratuitamente i libri del Premio Lattes Grinzane presso la Sala Lettura di Palazzo San Daniele (Via del Carmine, 14), nella sezione di narrativa ad essi dedicata.

La Fondazione Bottari Lattes ha donato alla Fondazione Polo del ‘900 una selezione della produzione editoriale legata alle opere partecipanti al Premio a partire dalla sua prima edizione del 2011, per renderla disponibile a tutto il pubblico torinese e non solo. La donazione rientra nelle azioni del protocollo di intesa sottoscritto dai due enti per collaborare su iniziative di promozione culturale e sarà integrata ogni anno con i volumi delle nuove edizioni dell’evento.

L’inaugurazione dello scaffale Premio Lattes Grinzane, che sarà accolto nella Sala Lettura del Polo del ‘900, è mercoledì 25 settembre alle ore 18.30. Partecipano: Caterina Bottari Lattes (presidente della Fondazione Bottari Lattes), Sergio Soave (Presidente Fondazione Polo del ‘900), Mario Guglielminetti (direttore marketing della Fondazione Bottari Lattes), Alessandro Bollo (direttore della Fondazione Polo del ‘900), Giovanni Barberi Squarotti (coordinatore del Comitato scientifico della Fondazione Bottari Lattes) e la scrittrice Laura Pariani (attualmente in giuria al Premio Lattes Grinzane, è stata finalista nel 2011 con il romanzo La valle delle donne lupo, Einaudi).

La donazione di 670 opere arricchisce le raccolte del patrimonio delle biblioteche degli istituti partner del Polo, con una significativa offerta di narrativa contemporanea. Tra i romanzi disponibili, si potranno ad esempio sfogliare e prendere in prestito quelli dei vincitori per la sezione La Quercia: António Lobo Antunes (2018; Feltrinelli), Ian McEwan (2017; Einaudi), Amos Oz (2016; Feltrinelli), Javier Marías (2015; Einaudi), Martin Amis (2014; Einaudi), Alberto Arbasino (2013; Adelphi), Patrick Modiano (2012; Einaudi e Guanda), Premio Nobel 2014, Enrique Vila-Matas (2011; Feltrinelli).

E quelli dei vincitori della sezione Il Germoglio: Yu Hua (Feltrinelli) nel 2018; Laurent Mauvignier (Feltrinelli) nel 2017; Joachim Meyerhoff (Marsilio) nel 2016; Morten Brask (Iperborea) nel 2015; Andrew Sean Greer (Rizzoli) nel 2014; Melania Mazzucco (Einaudi) nel 2013; Romana Petri (Longanesi) nel 2012; Colum McCann (Rizzoli) nel 2011. Saranno anche presenti romanzi che non sono stati selezionati ma hanno partecipato al Premio e alcuni volumi del precedente Premio Grinzane Cavour.
Il prossimo appuntamento del Premio Lattes Grinzane sarà ad ottobre. Venerdì 11 ottobre lo scrittore Haruki Murakami, vincitore del Premio

Lattes Grinzane 2019-sezione La Quercia, terrà una lectio magistralis e riceverà il riconoscimento (ore 18, Teatro Sociale di Alba. Appuntamento sold out), in un incontro introdotto e presentato dallo scrittore Marcello Fois.

Sabato 12 ottobre saranno protagonisti i cinque autori finalisti della sezione Il Germoglio: Roberto Alajmo con L’estate del ’78 (Sellerio), Jean Echenoz (Francia) con Inviata speciale (Adelphi, traduzione di Federica e Lorenza Di Lella), Yewande Omotoso (Sud Africa) con La signora della porta accanto (66thand2nd, traduzione di Natalia Stabilini), Alessandro Perissinotto con Il silenzio della collina (Mondadori) e Christoph Ransmayr (Austria) con Cox o Il corso del tempo (Feltrinelli, traduzione di Margherita Carbonaro).

Incontreranno pubblico e studenti (ore 10, Fondazione Bottari Lattes a Monforte d’Alba) e riceveranno il riconoscimento durante la Cerimonia di Premiazione, nel corso della quale sarà proclamato il vincitore, sulla base dei voti degli studenti delle giurie scolastiche (ore 16.30, Castello di Grinzane Cavour. Ingresso libero fino a esaurimento posti). La cerimonia di premiazione sarà condotta da Loredana Lipperini.

La Fondazione Bottari Lattes è nata nel 2009 a Monforte d’Alba (Cn), su volontà di Caterina Bottari Lattes (presidente), e non ha scopo di lucro. Ha come finalità la promozione della cultura e dell’arte e l’ampliamento della conoscenza della figura di Mario Lattes.

Tra le principali attività: mostre di arte e fotografia, il Premio letterario internazionale Lattes Grinzane, il progetto per l’infanzia Vivolibro, convegni, spettacoli e concerti di musica da camera. Nel 2013 ha aperto l’attività espositiva del nuovo Spazio Don Chisciotte a Torino, voluto da Caterina Bottari Lattes. Nel 2015 ha inaugurato la Biblioteca-Pinacoteca “Mario Lattes” a Monforte d’Alba.

Yasunari Kawabata, un delicato fiore di loto che galleggia apparentemente sull’acqua, cultore della bellezza

Primo premio Nobel giapponese, con la seguente motivazione: «Per la sua abilità narrativa, che esprime con grande sensibilità l’essenza del pensiero giapponese». Egli è colui che esporta l’idea del Giappone nel mondo. Se la penna dell’amico e allievo Mishima è una lama affilata, un fiore di ciliegio che fiorisce in modo breve ed intenso, quella di Kawabata è un loto, fiore delicato che galleggia apparentemente sull’acqua, ma si appoggia sul fondo melmoso. Tra gli ultimi anni del XIX secolo e i primi anni del XX il Giappone si sarebbe sbarazzato, progressivamente, di Cina, Russia e Corea sedendosi con prepotenza al tavolo delle potenze mondiali. Yasunari Kawabata nacque il 14 giugno 1899 ad Osaka, a 500 chilometri dalla capitale Tokyo, lontano dalla sanguinosa schiuma sovietica che l’ammiraglio Togo avrebbe sollevato, da lì a pochi  anni, sconquassando ulteriormente i fragili equilibri estremo orientali. Yasunari era lontano da tutto questo; nell’arco della sua vita non si interessò troppo alla guerra, lasciando quest’onere, e onore, all’amico e discepolo Yukio Mishima. Rimasto orfano a due anni, egli trascorse l’infanzia con un nonno semicieco e bizzarro, che lo educò in modo del tutto peculiare; il piccolo Kawabata si trovò immerso in un mondo dominato dall’arte, dall’erboristeria e dalla astrologia, sviluppando un eclettismo che si rivelò trasversale a tutti i campi della cultura. Nonostante ciò, la letteratura fu sempre il suo primo e grande amore. Lo stato di orfano lo condizionò per tutta la sua lunga esistenza, tanto da fargli confessare, ormai anziano:

“Mio padre morì che aveva un anno, mia madre quando ne avevo due. Il mio essere orfano è stato sempre sottolineato da tutti i critici che si sono occupati di me. E anche se, arrivato ormai a settant’anni, dubito che la definizione di orfano possa ancora adattarmisi, non mi sento di contraddirli. Credo, da bambino, di essermi lasciato viziare da questo sentimento di essere solo al mondo ma allo stesso tempo mi chiedo se i tanti incontri fortunati che ho avuto, nel corso della mia vita, non mi siano stati procurati proprio dal mio essere orfano”.

Partiamo dal primo incontro fortunato: verso la fine del 1918, dopo aver perso anche il nonno e dopo aver preso il diploma di scuola media, egli si reca nella penisola di Izu, dove incontra una banda di attori girovaghi che gli ispirerà il fortunatissimo racconto La danzatrice di Izu. E’ qui, in questo momento storico, a 19 anni, in solitudine, che si forma tutta la poetica di Kawabata, quel senso di “impegnato distacco” che lo accompagnerà per tutta la sua lunga esistenza. Non esiste un ossimoro più stridente di questo; forse è l’unico modo di comprimere in un unico colore un animo così culturalmente caleidoscopico. Innamorato follemente della protagonista, che dà il titolo a questo racconto, egli, una mattina, vide alle terme la figura del suo desiderio avvicinarsi, completamente nuda:

“Non aveva niente addosso, nemmeno un asciugamano. Era la danzatrice. Guardando il bianco corpo nudo dalle lunghe gambe, simile a un giovane albero di paulonia, ebbi la sensazione che il mio cuore fosse attraversato da una corrente di acqua limpida. Tirai un profondo sospiro di sollievo e mi misi a ridere. Era una bambina. Dimostrava diciassette anni perché aveva una capigliatura lussureggiante e io così mi ero lasciato, stupidamente, indurre in errore”.

In questo slancio giovanile, fiaccato poi dalla realtà della natura, si assiste ad un graduale e progressivo passaggio dalla prima alla terza persona, che troverà la sua definitiva consacrazione in uno dei romanzi della sua vecchiaia, la casa delle belle addormentate; qui l’anziano Eguchi ha la possibilità di dormire a fianco di giovanissime e bellissime ragazze, profondamente addormentate, toccandole ed esplorandole, senza violarle.

Il simbolo più grande di questo “impegnato distacco” è, però, il maestro di Go; in esso viene narrata la cronaca dell’ultima partita al gioco Go del maestro Shusai contro il giovane sfidante Otake; è una sfida tra i vecchi valori gerarchici, sul viale del tramonto, e i nuovi principi democratici, in rampa di lancio, tanto che lo sfidante pretende e ottiene che vengano aboliti i privilegi ancestrali accordati un tempo ai maestri, al fine di una partita il più equa possibile. Sebbene Kawabata sia lapidario nel dire che:

“Si perde il senso della partita, come opera d’arte, quando non ci si astiene dall’applicare anche al maestro il principio dell’eguaglianza”

In realtà egli rientra subito nei ranghi, tornando a quel ruolo di narratore che assurge anche al ruolo di mediatore; nel momento più critico della sfida, quando Otake minaccia di abbandonare la sfida, poiché troppo fiaccato dalle snervanti pretese del maestro, Kawabata riesce a farlo ragionare. Come? Con una semplice constatazione:

“La partita del ritiro coincideva con il passaggio a una nuova era, un’epoca di rinnovamento e rivitalizzazione del mondo del go. Interromperla a metà significava arrestare il flusso della storia. Con questa enorme responsabilità sulle spalle, avrebbe forse voluto far prevalere su tutto i propri sentimenti e le proprie ragioni?”

Naturalmente Kawabata vuole allargare la sua riflessione oltre il mondo ludico, evidenziando come un homo novus non avesse quella necessaria fermezza d’animo per bloccare l’incessante flusso dell’esistenza umana. Il timore per il nuovo che avanza fu una costante dello spirito nipponico; basta fare un balzo nel passato ed osservare la stasi shogunale dell’epoca Tokugawa, un lungo sonno della ragione durato più di due secoli, una sorta di medioevo ellenico che fece dell’accidia un punto di forza e un punto di vanto. In realtà, più che sonno della ragione, sarebbe più corretto parlare di silenzio, richiamando il recente film Silence di Martin Scorsese, ambientato proprio in quegli anni oscuri ed immobili della storia giapponese, così bui che i samurai dovettero saccheggiare i campi dei contadini per trovare un senso alla loro nobile esistenza. Naturalmente quella del maestro di Go non è solo una cronaca di un momento storico, ma è anche una profonda riflessione sulla morte; sempre, però, con il dovuto distacco: quando si trova a dovere fotografare, per il giornale in cui lavora, la figura del maestro appena spirata, egli afferma:

“Un obiettivo non fa distinzione tra vivi e morti, tra le persone e le cose, non cede all’emozione e non conosce rispetto”.

Il rispetto è sicuramente assente da un altro capolavoro kawabatiano, ossia Mille gru, in cui si assiste ad una sorta di telenovela, condita con sakè e sushi, in cui succede di tutto: il padre di Kikuji ha due amanti, la Ota e Chicako; il padre di Kikuji muore, suo figlio seduce la Ota e sfugge dalle grinfie di Chicako; la Ota muore, Kikuji cerca di sedurle la figlia e forse la giovane Inamura; la Inamura si sposa, la figlia della Ota pure, Kikuji si dispera; la figlia della Ota non si è sposata davvero, è solo una maldicenza della rediviva Chicako, Kikuji sorride, la figlia della Ota si uccide, Kikuji piange, finisce il romanzo.

Quando si legge Kawabata, è bene tenere a mente una cosa: anche i maestri più grandi hanno scheletri nell’armadio. Quale sarebbe quello di Yasunari? Forse è l’aver, talvolta, sacrificato il suo enorme talento sull’altare dei romanzi da ragazzine. Non è certo un peccato meritevole di pena capitale, condanna alla quale i nipponici sono ancora molto gelosi. Tutto il senso di questo apparentemente frivolo romanzo può riassumersi in un breve e profondissimo estratto, profondo tanto quasi il pozzo in cui riflette, per 800 pagine, il protagonista murakamiano dell’Uccello che girava le viti del mondo:

“Il fatto che i figli ignorino il corpo della madre, da cui pure sono nati, reca in sé qualcosa di stranamente bello, come stranamente bello è il rivivere delle forme materne nel corpo delle figlie”

Citare Haruki Murakami non è certo casuale: una frase del genere potrebbe tranquillamente essere inserita nel suo capolavoro Kafka sulla Spiaggia senza che nessuno si accorga della anacronistica storpiatura. Come è possibile questo? In una società tradizionalista e repressa come quella nipponica, il sesso è un argomento che un grande uomo di cultura non può certo evitare. Diverso, naturalmente, l’approccio: se Murakami è intriso della cultura americana post 1968, spingendosi in ghirigori sessuali talvolta enigmatici, Kawabata, in quell’anno fatidico, era ormai ben vecchio, sebbene non così tanto da tenere un discorso apicale alla premiazione del Nobel. Dunque, a una prima lettura, il passaggio sopraccitato potrebbe sembrare foriero di cattive interpretazioni.

Naturalmente, non è così: Yasunari, con la sua delicata naturalezza e quell’esasperato naturalismo che richiama spesso Flaubert, ci dice, sic et simpliciter, che la cerimonia sacra del thè è guasta, corrotta e corrosa dai tempi moderni. Il sesso è legato alla cerimonia del thè e a tutte le sacralità del Giappone: delicate, sensuali, estetiche ed estatiche. Tuttavia, la sacralità del rito è ammantata da un’aura grande, ma non così grande da impedire l’ammorbamento da una figura negativa come quella di Chicako; una donna con sembianze androgine, con un fare intrigante e con una enorme voglia sul seno è quanto di più lontano ci sia dal modello nipponico di donna femminea, schiva e soave. Ecco la differenza colta dall’osservatore distaccato: la bellezza, esaltata con la corrente artistica Shinkankakuha, in cui:

“Non deve più essere il cervello a scrivere quella cosa è dolce ma deve esserlo la lingua”.

Ha sia un potere salvifico, se posto nelle mani rugose della tradizione, sia malefico, se posto in quelle vellutate della nuova borghesia rampante e moderna. Si tratta un atteggiamento un po’ ambiguo, così come lo fu partecipare nel 1934 al gruppo di discussione letterario istituito dal governo bellicista e il rivendicare allo stesso tempo la propria libertà poetica. Ma si sa, la coerenza non è cosa facile. Talvolta capita di bluffare per arrivare ai piaceri più alti, così come farà Eguchi, l’anziano non così anziano, che fingerà di essere un “ospite di cui si può essere tranquilli” per accedere e scrutare un occultato scenario di impareggiabile bellezza: la bellezza stessa.

“Le tende rosse di velluto ricadevano su tutte le pareti della camera. Anche la porta di cedro da cui Eguchi era entrato si doveva poter celare con una tenda. Richiusa la porta a chiave, Eguchi lasciò cadere la tenda e abbassò lo sguardo sulla ragazza che dormiva. Non fingeva, si udiva inequivocabile il respiro profondo di chi dorme. All’imprevista bellezza della ragazza, il vecchio trattenne il fiato”.

Ecco, la bellezza, quella che coronerà il suo momento apicale, il premio Nobel per la letteratura del 1968, in cui leggerà un discorso intitolato, non a caso, la bellezza del Giappone e io.

“Quando vediamo la bellezza della neve, quando vediamo la bellezza della luna, in breve, quando apriamo gli occhi sulla bellezza dei singoli momenti nel corso delle stagioni e ne siamo sfiorati, quando abbiamo la fortuna di venire a contatto con la bellezza, allora pensiamo agli amici più cari, allora vorremo dividere con loro questa gioia; insomma l’emozione della bellezza risveglia più che mai l’affetto delle persone”.

Ecco; questi amici, con cui condividere la bellezza, siamo noi, i suoi lettori e il mondo intero.

 

Michel Simion-L’intellettuale dissidente

 

 

‘Norwegian Wood’, il travolgente origami di Haruki Murakami

Norwegian Wood è un famosissimo romanzo di Haruki Murakami del 1987, pubblicato in Italia (1993) con il titolo di Tokyo Blues.

Nonostante sia stato riconosciuto dalla critica come un clamoroso successo della letteratura giapponese, ancora oggi Norwegian Wood rappresenta un’oasi vergine per molti giovani lettori. Tuttavia Tokyo Blues conserva la sigla di capolavoro e sembra non subire l’ombra del tempo. Norwegian Wood è anche considerato il lavoro più introspettivo di Murakami, che qui esplora in velina la sfera dei sentimenti e della solitudine. Non deve quindi stupire se Norwegian Wood resta, per molteplici e validi motivi, un grande romanzo incentrato sull’adolescenza, sul conflitto tra il desiderio di essere integrati nel mondo della vita adulta e il bisogno di restare se stessi. Come Holden o il protagonista de Il Budda delle Periferie, Toru è continuamente lacerato dal dubbio di aver sbagliato nelle sue scelte di vita e sentimentali, ma è anche guidato da una propria morale che produce in lui una radicata avversione per tutto ciò che sia artificialmente costruito. Così Toru, diviso ma anche affascinato da Naoko e Midori, può decidere stoicamente o abbandonarsi al fatalismo.

Il romanzo è un lungo flashback, narrato in prima persona proprio dal protagonista Toru. Su un aereo atterrato ad Amburgo, il suono di Norwegian Wood dei Beatles, richiama alla sua mente, in modo nitido, un episodio avvenuto diciassette anni prima e che ha segnato la sua giovinezza: l’incontro casuale con Naoko. Il ricordo di Naoko è il pretesto che consente al protagonista di ripercorrere i difficili anni dell’università e l’amore impossibile per la ragazza (poi ricoverata in un istituto psichiatrico) e quello per Midori. Anche quest’ultima, compagna di corso all’università, è annichilita a causa di lutti familiari, dal collegio e dall’amicizia con Nagasawa, ragazzo controverso e alter ego del protagonista. I tumulti nelle università forniscono solo un riferimento temporale, la narrazione è collocata alla fine degli anni Sessanta ma Murakami sembra non voler scivolare nel cliché, stereotipato oltre che abusato, che caratterizza i romanzi ambientati proprio in quegli anni. All’autore interessa indagare in una sfera meno prevedibile e più introspettiva. Toru rimarrà quindi estraneo alle occupazioni delle università, ai propositi rivoluzionari e il suo è un percorso di dolore e consapevolezza personale, che lo porterà a constatare che la morte non è l’antitesi della vita ma una sua parte intrinseca.

La narrazione e la stessa scrittura di Murakami sono impalpabili, un grazioso origami e qualsiasi cosa egli scelga di descrivere vibra di carica simbolica, solo come un certo gusto orientale riesce ad esprimere con estrema raffinatezza. Non sembri azzardata una libera associazione tra questo romanzo e alcuni celebri film come Ferro 3 o In the mood of Love; leggere e immergersi in Norwegian Wood permette al lettore, non neofita, questo tipo di parallelismi che consentono di ampliare l’orizzonte psichico sino a dilatare la pagina in una dimensione altra.

Travolgente, emozionante, puro incanto. Norwegian Wood è uno di quegli esempi letterari che esercita il fascino della parola, attraverso una forte carica evocativa, a tratti poetica. È un libro che vibra sotto pelle e avvolge il cuore, dove le immagini e le parole continuano a risuonare nella mente, dove  gli stati d’animo sono resi magistralmente. Non si può leggere questo libro senza provare una stretta al cuore per la loro malinconica bellezza.

Nonostante Norwegian Wood sia etichettato come romanzo adolescenziale (e lo è, nella sua accezione positiva), non vi è nulla di superficiale o stucchevole in esso. Adolescenziale è ben diverso da romanzo per adolescenti. È una precisazione necessaria, onde evitare grossolani errori di valutazione e odiose generalizzazioni che questo libro non merita, rientrando in una categoria superiore ad ogni libro di recente uscita.

Murakami è riuscito a dare voce, come pochi vi riescono (pensiamo a Salinger o a Tondelli), ad una fase della vita che non è affatto semplice con i suoi piccoli o insormontabili drammi. Un romanzo riuscito, perfetto perché è dolce, triste e tremendamente doloroso, come solo l’adolescenza sa essere.

-Se c’è una cosa che non mi manca è il tempo.

– Davvero ne hai tanto?

– Tanto che mi piacerebbe dartene un po’, e farti dormire lì dentro.

 

 

 

Nobel per la letteratura a Patrick Modiano

“Per l’arte di ricordare con cui ha evocato i destini umani più inafferrabili e svelato l’universo dell’Occupazione”.

Questa la motivazione che ha accompagnato ieri l’annuncio dell’ assegnazione del premio Nobel per la letteratura allo scrittore francese Patrick Modiano, considerato dalla critica un Marcel Proust del nostro tempo, e sconosciuto in Italia. Scelto tra 210 scrittori, 36 dei quali candidati per la prima volta, il vincitore Patrick Modiano, preferito al giapponese Murakami,  è un ebreo francese di origini italiane nato nel 1945 a Boulogne-Billancourt. Modiano è cresciuto principalmente dalla madre per la relazione complicata dei genitori.

Colui che ha iniziato Modiano alla letteratura è stato lo scrittore e matematico francese Raymond Queneau amico della madre. Modiano pubblica il suo primo romanzo La Place de l’Étoile nel 1968, il cui manoscritto era stato rivisto dallo stesso Queneau. Vi si racconta la storia di Raphaël Schlemilovitch, un ebreo francese nato subito dopo la guerra e ossessionato dal periodo bellico e con manie di persecuzione. La storia stessa è raccontata dal protagonista, che mescola finzione e realtà in molte parti della narrazione. Il libro non ebbe molto successo e ancora oggi sono rare le sue traduzioni in altre lingue.
Nel maggio del 1968 Modiano partecipa al movimento di rivolta come inviato di Vogue. Negli anni Settanta collabora alla scrittura della sceneggiatura del film Lacombe Lucien, candidato al premio Oscar come migliore film straniero nel 1974. Ha scritto le sceneggiature di diversi altri film, alcuni tratti dai suoi romanzi, come Il profumo di Yvonne (1993) tratto da Villa triste scritto nel 1975 e numerosi testi per i film di Louis Malle e Patrice Leconte, ed è stato anche paroliere per Françoise Hardy.

Molti dei suoi romanzi sono ambientati nella Francia occupata dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1978 il romanzo Rue des boutiques obscures ha ottenuto il Premio Gouncourt, e nel 1996 la sua intera opera ha ottenuto il Grand Prix national des lettres, i riconoscimenti letterari più importanti della Francia. Si tratta inoltre di uno dei pochi autori viventi i cui romanzi sono stati pubblicati insieme nella prestigiosa edizione Gallimard, Quarto. I protagonisti dei suoi racconti sono spesso ispirati alla figura, mitizzata, del padre che fu arrestato nel 1943 dai nazisti e che riuscì a sfuggire alla deportazione nazista, probabilmente grazie ad alcune conoscenze tra i collaborazionisti. I personaggi di Modiano vivono spesso tra grandi ambiguità e contraddizioni.

La memoria insieme alla figura dello straniero e dell’esule, sono i temi predominanti nelle sue opere, nelle quali spesso echeggia il sapore amaro dell’occupazione della Francia e dei casi di collaborazionismo con il regime di Vichy. Senza dubbio si tratta di tematiche inflazionate e magari qualcuno penserà che si tratti di un altro premio alla lobby ebraica, senza tenere presente che non è il “cosa” che rende un romanzo degno di essere annoverato nella letteratura mondiale, ma il “come”. L’autore francese adotta una scrittura nitida e musicale per descrivere i suoi fragili e misteriosi personaggi, partendo dai loro ricordi ma Modiano non si è mai distaccato molto da queste questioni nel corso della sua carriera.

In Italia sono usciti per Einaudi i titoli L’orizzonte (2012), Nel caffè della gioventù perduta (2010), Un pedigree (2006) e Bijou (2005), mentre a dicembre uscirà il suo penultimo romanzo, L’erba delle notti . La sua opera più recente, Pour que tu ne te perdes pas dans le quartier (2014), uscirà nel 2015.

 

 

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